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Lettera da Lisbona

di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 11/01/2008

Lisbona, 12 maggio 1876

Mio caro,
mi rammarico molto del fatto di essere partito all’improvviso, forse un po’ di soppiatto, con pochi bagagli e pochi saluti, ma l’opera che da tempo mi riprometto di comporre sento che richiede tutta la mia attenzione.
La vita che ho condotto negli ultimi mesi, i primi successi e le tante amarezze, sento, che mi portano sempre altrove rispetto al luogo in cui la mia mente si deve unire al mio cuore per poter descrivere con i giusti accenti l’omaggio che voglio dedicare a quel grande personaggio còrso, che tanto ha significato per il nostro vecchio e stanco continente.
Qua a Lisbona ho sistemato le poche cose che mi sono portato in una linda stanzetta nel quartiere di Alfama, una zona di pescatori che nulla sanno della mia vita e delle mie opere ma che con il loro continuo brusio ed andirivieni mi stanno dando, inconsapevolmente, il canovaccio sul quale iniziare a lavorare. Infatti, se la forma è già decisa da tempo, e il soggetto anche, lo spirito con cui fare da introduzione ancora latita nella mia mente, sebbene, il brusio, per l’appunto, credo che possa essere un buon inizio; un brusio, di menti confuse dagli avvenimenti che hanno preceduto l’ascesa dell’imperatore al potere. Brusio di sconcerto, ma anche di commenti insicuri, o già spaventati per la grande onda che stava iniziando a sollevarsi in Francia dopo i sanguinosi momenti della Rivoluzione.
Da un tessuto di brusii vorrei far levare sommessamente una voce che da indistinta si fa un poco più chiara, senza però, ancora, prendere il sopravvento, una voce che vorrei affidare agli oboe, far sussurrare loro di qualcuno che lentamente espone una sua idea, con tonalità simili ai primi raggi di sole che si affacciano dalle nubi dopo un temporale. Non voglio dare loro la cristallina voce di un sole mattutino, ma di un sole che è stato fortemente opposto dalla tempesta e si schiarisce la voce prima di tornare a splendere.
Ma in questa parte iniziale vorrei inserire anche una voce di addio per chi ho lasciato alla mia partenza, e sarà l’ultima cosa che gli avrò detto, prima di un imperituro oblio, affidata, credo, ad un pizzicato sostenuto da porre in contrapposizione agli oboe e accarezzato da due arpe (se me le concederanno); certo per i critici, se riusciranno a percepire le note di struggente addio le collocheranno nel tema generale del poema: sarà semplicemente un addio ad un vecchio mondo che si sta decomponendo, solo chi sa leggere nel mio cuore capirà a chi è rivolto l’addio. Aggiungo, sì con una certa amarezza, che probabilmente quell’unica persona che dovrebbe capire l’addio, non lo capirà, ma d’altronde, se fosse stato in grado di capire, ora non dovrebbe sforzarsi di capire quanto destinato solo ad esso, all’interno di una composizione destinata all’anonimato del pubblico.

Per il momento è quanto, devotamente
p.

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