Il barocco chiamato in causa nel titolo di questo volume d’esordio pubblicato da Diego Conticello con le edizioni Lietocolle non ha nulla di enfatico o spettacolare, è piuttosto una striatura lieve e raffinata, un barocco dimesso, di natura minimale: come quello – per intenderci – di Lucio Piccolo, poeta che costituisce un costante riferimento nella ricerca dell’Autore, che è un giovanissimo studioso di letteratura oltre che poeta egli stesso.
E certamente “barocca” è la caratteristica che maggiormente salta agli occhi di chi si accosta alla lettura: un lavoro di forzatura espressiva centrato in prevalenza sul lessico, un lavoro puntiforme, mirato a intervenire quasi chirurgicamente sulle singole parole: così il silenzio può diventare “ridace”, un pozzo apparire “accostellato”, la luna traboccare “specchiantissima”... Attraverso stravolgimenti di questo tipo i vocaboli sono sottoposti a una sorta di terapia rivitalizzante e risaltano nella pagina diventandone protagonisti assoluti secondo un procedimento che, anche se alla lontana, può ricordare l’Ungaretti dell’Allegria. Ne deriva una germinazione a grappolo di parole “liberate” che brillano di luce propria persino a scapito della gabbia ritmica. Sono tracce evidenti di un gusto espressionistico che però Conticello riesce a mantenere nei binari di uno sperimentalismo asciutto e contenuto. Nessuna smagliatura, nessuna ambiguità sintattica, nessun deragliamento semantico (se non talora una studiata polisemia volta a dilatare - e dunque a potenziare - la forza significate) turba la pulizia cristallina dei versi. Il controllo anzi appare così perfetto da far pensare (dato anche il prevalere della doppia e incrociata tematica: la passione amorosa e l’amore della natura) a un tradizionale canzoniere dove le poesie si infilano una dopo l’altra come perle in una collana.
Le ambientazioni dei testi sono ridotte al minimo, qualche scorcio paesaggistico che può far pensare sia al territorio siciliano dal quale Conticello proviene (“isolivaghezze”?), sia a quello padovano dove attualmente risiede. Ma si tratta di sottofondi rarefatti, fondali che lasciano trasparire altri paesaggi, la boscaglia dei sommovimenti interiori che si dilata sino a divenire il principale terreno sul quale si gioca la partita del libro. E si scopre allora che la parola “amorale”, presente (e imponente) nel titolo, è una delle tante sottoposte a quelle torsioni (in questo caso di natura semantica) di cui si diceva: “amorale” potendo significare non tanto “privo di morale”, come sembrerebbe a prima vista, quanto “attinente all’amore”. E l’amore (o meglio: la passione amorosa) è infatti il sommovimento più evidente che agita la boscaglia. Tanto che – come scrive Silvio Ramat nella sua lucida prefazione – “faticando a sciogliere le parole, una parola dopo l’altra, dalla semiautomatica sistemazione e neutralizzazione entro i codici dei significati correnti, il poeta rivela – e magari di più nell’attimo che vorrebbe, per insorgente pudore, nasconderlo – un’accelerazione del cuore”.
Essendo davanti a un’opera d’esordio, non sarà difficile perdonare a questo giovanissimo promettente poeta qualche ingenuità che ogni tanto occhieggia in espressioni un po’ convenzionali o acerbe (come “gabbiani bianchi / dalle grandi ali”, “azzurra libertà”, “Sentinella / d’eterno”, “oblìo in te”…). Quello che conta è che l’Autore in questa sua prima prova sembra dichiarare un’assunzione di responsabilità: rendere conto, attraverso la sua originale ricerca poetica in fieri, di quel “Novecento aurorale” a cui Silvio Ramat fa riferimento nella prefazione e di cui Conticello, anche in forza della sua attività di ricercatore, mostra di avere piena consapevolezza.