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Da ’La traccia che ho lasciato’: IV, L’esecuzione

di Alberto Rizzi
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Pubblicato il 18/02/2017 20:51:56

Tu sei qui, ad albero rappreso.

 

Guardami. Ti prego: guardami.

Fa parte del nuovo gioco che t’insegno

che calmo si pasca del tuo stupirsi bercio

l’indovinar che fai delle fattezze mie

benché da questo sacro buio rivelate.

 

Guardami,

come l’amante guarda l’amante

nel momento dell’addio,

quando l’addio sa di punta di coltello;

ed ascolta il dito mio fatto rasoio

seguir strada giù dal polso tuo

via su per l’omero sinistro,

lungo sentiero nuovo per tua miseria certa.

 

Rigida larva, sgrani dente a dente,

raccapigliato ad albero e a notte

piangendo infin la scelta d’esser nato.

 

Qui sgorghi, parassita, giù da qui

il dolore delle vite che suggesti,

giù lungo la buccia tua, infino al suolo;

non puoi veder (ma sentir ben sì)

le gocce spremte farsi pozza bassa

e soddisfar ‘sta terra tròpp’amàra;

e puoi sentir ben, sì, sentirne bene il corso,

parassita,

giù per le membra tue fattesi gesso.

 

Scopro la carne tua, perché respiri aria

e riconosca me com’assassino sacro,

col vero scopo mio al fondo di quest’occhi;

imaginando che con voce tua ‘mpedita

e più e più vorresti grazia addimandare.

 

Tale di sangue e di sudor vendemmia

purifica il tuo stato,

o men che umano,

e lustro dona a chi di te

già supportò senza mai chiesta ‘l peso;

rota nel letto suo quest’ore chi feristi

e gusta sonno strano:

ché suo respiro si tende per carpire

questa nova energia ch’attorno cresce

e tanto libera suaménte dai dolori,

quanto miamàno scevera tua crosta.

 

Volgendo torno a torno gli occhi,

cerchi riparo in entitade amiche:

ma tùttamìa è foresta questa notte

in pegno a quanti odiasti,

sapendoli migliori.

 

Cade tuapèlle brano a brano

per questa lama che striscia su tua carne,

libando buon succo a nostra MàdreTèrra;

compiango le tue nari quando,

per maggiorar tuoschèrno

rendendoti sicuro di tua sorte,

con ghigno da giustizia edotto

a piena mano le insozzo con tualìnfa;

mentre perizia mia qui scioglie ancora

pelle da carne tua;

e m’affratella al villan che di correggia batte

a separare il grano dalla pula.

 

Guardami. Ti prego: guardami.

Noto geometria farsi frattale

riflesso in rossa pozza sott’a te;

ed odo ben tua voce disperata,

parassita.

 

Guardami, col ritorto ultimo sguardo

dell’ultimo terror reso fantasma:

e quanto l’angel mio sorrida,

o parassita,

io l’indovino…

 

…Dipòi di te,

vittima spenduta ed ormai sfatta,

si brucino le vesti

a grumo colte sott’a’ piedi tuoi,

per augmentar tuostràzio.

 

Non resti traccia nelle mani mie,

alcuna, di ciò che fosti:

solo tengo ricordo che m’abbasta

di segni tuoi da segni che già seppi,

nei giorni che passai.

 

Scorsi ieri carcassa d’animale

                                            in fosso a bordo strada

avea il sapore che lessi nei tuoi occhi

                                                         parassita

all’attimo atteso dell’ultimo tuofiàto


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