Pubblicato il 30/08/2009 10:19:34
Il peso delle cose
Scrivo a te perché non conosco altra forma di fede che non sia una richiesta di innocenza. Hai venticinque anni e a volte è impossibile farti tacere; “mi descrivi come un cretino” dici, io guardo lei e insieme sorridiamo con quel fare femminile che non prescinde dalla maternità. “Trovo difficoltà a scrivere” vorrei dirti, solo tu resti e crei un appiglio, ma “a chi lo dici?” viene da dire, quando fuori tutto fila perfettamente; eppure tu capiresti o saresti comunque capace di ascoltare, tu che vivi di empatia e non di parole. Forse ti sfuggirebbero le cause, le mediocrità e i sotterfugi ma coglieresti meglio di altri ciò che resta quando si spoglia ogni cosa del contorno: niente. Ti vedrei dipinta sulla faccia -lo so, stai per dirlo: “non scrivere ancora che sgrano gli occhi!”- quella barriera che poni quando capire corrisponde ad una catabasi. Quella barriera è la tua innocenza: per te per cui le cose non accadono ma sono scoperte è impossibile far fronte alle macchinazioni. Ieri ti guardavo: lei era lì, sotto i capelli lisci, “sono delusa” diceva, raccogliendo i fili della sua disillusione, e tu eri sul punto di, pronto a lottare, a trovare una parola, a darle un po’ della tua cecità che qualcuno ti rifaccia come fortuna e “tu non puoi capire” dice; poi ti sei mosso, hai tentato una consolazione e hai offeso l’altra. Ridevamo tutti di nascosto e tu ancora a tentare una ripresa, con la goffaggine di chi non s’arrende. Alla fine hai taciuto, in fondo non hai convinto nessuno, eppure “è stato bello” avrei voluto dirti, perché sei ancora uno dei pochi capace di rispondere “sì” alla domanda “ci credi?”. E se ti avessi detto che trovo difficoltà a scrivere, che è stato bello e che so che tu credi ancora, ti avrei detto anche che scrivo a te perché ti penso quando mi sento peggiore, perché il mondo non ti ha mangiato, perché io, lei con i suoi capelli lisci e gli altri che sentono quel morso che corrode trovano in te una tovaglia bianca, un respiro calmo, un tono pulito. Noi eravamo come te. Tu sei quello che manca. Allora forse sarebbe meglio non scriverti: noi siamo ormai di qua, oltre la carreggiata, a tentare di reinventarci o ad aspettare un passaggio che non arriva. Se tu fossi con noi sono certa che ne sorrideresti, ci guarderesti spaesato, impossibilitato a dare un nome che possa essere una resa; poi, bloccato tra il fare e il non fare, chiederesti: “può essere bello fare due passi a piedi, no?”, e prenderesti a incamminarti.
Oggi mi hanno chiamato al telefono. Non lei con i suoi capelli lisci, un’altra, una ragazzina di diciassette anni, stessa storia: un amore interrotto trattato con l’unicità che si riserva alle cose importanti. “Non passarmela” ho detto. Non si può vender cinismo ad una bambina. Un gesto di scortesia per sottrarre il suo bisogno di certezze al peso della banalità; “non sono in grado di dare consigli” mi sono giustificata; non credo mi sarà grata. Eppure non vi è nulla di più certo che la verità che non tollera mezze figure o figuranti: si ama sempre per vanità, una ricerca egoistica di una corresponsione. Si ama da singoli: l’amore è un atto autoreferenziale. Non si può vendere cinismo ad una bambina. Scrivo per sottrarre una storia al peso della banalità.
Il peso. Ciascuna cosa gode di un peso specifico che prescinde dall’uso dei sensi: unico approccio la percezione, virtù istintuale. Non è necessariamente qualcosa di tangibile, ma è ciò che resta, il senso ultimo. Mia nonna sta morendo, e il suo esaurirsi è inversamente proporzionale al peso della solitudine. Compivo diciotto anni. I ricordi hanno il peso volubile della scelta. Non ricordo il regalo, ricordo solo il biglietto: “Di tutto ciò che potrà affliggerti, non preoccuparti mai di nulla. Preoccupati solo quando il cuore tace.” Di tutta la storia che racconto la mia scelta è il peso del suo corpo, unico rimpianto. Il resto è silenzio.
L’altra sera non avevo voglia di vederti. L’averti incontrato il giorno prima per le strade aveva avuto l’odore dei panni messi sotto naftalina. Le cose passate hanno il peso delle cose morte, e i morti vanno lasciati in pace. “Sono cambiata” avrei voluto dirti, e il mio mondo non coincide più con il tuo, se mai sono stati accanto. Tu eri la mia scelta giusta ma non sempre le cose giuste hanno il peso della realizzazione. “Mi dispiace” avrei voluto che sapessi, se mai dovessi portarti il mio rifiuto come un fallimento; inutile attribuirsi colpe, ora. Non sono mai stata in grado di scindere il mio decisionismo con un senso di fatalità che spesso mi ha portato a credere di essere solo una rete di coincidenze. Ci diedero una foto una volta: ci ritraeva in posa ilare e qualcuno l’aveva cerchiata con un cuore. Puntavano su di noi come coppia dell’anno. Mi irritava della stessa irritazione che ho provato rincontrandoti; poi la sera dopo, a cena tutti insieme, ho pensato che forse avremmo dovuto essere grati al non aver sporcato la nostra storia con l’amore. A tavola il solito rituale del dare un voto all’anno trascorso. Ho dato nove. “Anche al principio? A quei mesi?” ha chiesto chi sapeva. Tu non te ne sei meravigliato: la gente non può credere che l’abbia collocato tra le cose belle. Mi sono domandata cosa ne pensassi tu, di me, di lui. La gente non crede. Nessuno sa che il cuore tace.
Mi riceveva in una stanza che non ho mai girato tutta oltre la porta. A volte tra donne si spera in una storia clandestina, nessuna ci crede veramente; a te questi discorsi non sono mai interessati, quando se ne parlava conducevi l’animarsi generale fingendo un talk show. Ne abbiamo riso troppo. Salivo da lui con la richiesta esplicita di non farmi vedere. Accettavo. Sarebbe bastato chiedere “da chi?” e tutto avrebbe perso di senso. Le scelte spesso hanno il peso di una cecità volontaria. I ricordi hanno il peso volubile delle scelte. Gli ho sempre perdonato la mancanza assoluta di convenevoli. La prima volta che entrai portai dei pasticcini: credevo mi avrebbe offerto almeno un caffè. Le scelte accettate hanno il peso del silenzio. Un caffè mancato brucia quanto un rimorso.
Quando ti ho incontrato avrei voluto dirti che sono cambiata, invece ho dirottato la conversazione seguendo il filo di domande che ci si scambia quando non ci si vede da anni. Ho parlato a lungo. Sono cresciuta trascorrendo lunghe ore con persone anziane, ed ho imparato a valutare il peso di ogni parola; “assurdo” penserai: io conosco la pigrizia della voce. “Sono cambiata” avrei voluto dirti, ho tentato di rimuoverla e chissà se tu l’hai notato. Osservandoti ho pensato a come tutto filasse perfettamente, alla mia scelta giusta e all’impossibilità di starsi accanto. Si può stare vicini senza esserlo o stare lontani impedendo all’impossibilità di una vicinanza di entrare. Credo sia questa la nostra stanza. Con lui non parlavo: c’era qualcosa che impediva ogni reazione. Dicono che la rabbia si concentri sulla mandibola. La rabbia ha il peso dell’impossibilità di urlare. Quando mi riceveva nella stanza mi si stampava sulla faccia un sorriso tirato. L’amore è un atto autoreferenziale: non ha mai fatto nulla per nasconderlo; a lui non interessavano i miei silenzi. L’umiliazione ha il peso di un caffè mancato.
Quando l’altra sera mi hanno chiesto che voto avrei dato a quest’anno ho dato un voto alto. Sono ripartita da zero. Lui viveva nella casa del mago di Oz. Ogni informazione aveva una doppia possibilità di lettura; si viveva di giornali e di attenzione prestata a quello che avrebbero detto gli altri. Si viveva sui giornali. L’amore è un atto autoreferenziali: scelsi lui quando mi accorsi di poter entrare nella casa del mago di Oz; scelsi la sua vita per uno spazio sui giornali. Nella casa ogni cosa aveva una doppia lettura. La doppia lettura aveva il peso delle convenienze. Scrivo per sottrarre una storia al peso della banalità: sono stata nella casa finché l’ha voluto lui. Io non avevo il peso della convenienza.
Non ho mai parlato molto ed è inutile raccontarsi la manfrina della buona educazione che lascia spazio al riserbo. Usavo il corpo come su un palco. “Il corpo è un mezzo” dicevo; non se ne lamentava. Quando ho dato un voto alto all’anno trascorso avrei voluto fargli sapere che il peso della mia accondiscendenza lo salva da quello della responsabilità. Sono ripartita da zero. La casa del mago di Oz comportava un solipsismo che lo portava a denigrare qualsiasi cosa facessi. Vani i miei studi, il mio partito: un essere cancellava l’altro; riempiva di parole la desertificazione che stava facendo. Non accettava risposte, il consenso era implicito. La nostra storia aveva il peso delle sue imposizioni e i suoi divieti. La casa del mago di Oz ha il peso della necessità.
Non ha mai avuto troppo coraggio. Quando ritenne di aver primeggiato abbastanza pose tra noi un tempo dilatatore. La dilatazione era composta dai silenzi. C’erano dentro la mia accondiscendenza e la sua cattiva ironia. Si uccide col silenzio solo chi ne conosce il peso specifico. Non ho mai parlato troppo; a lui non interessavano i miei silenzi. Ora gli interessava il messaggio; quando aveva difficoltà creava metafore. Non mi ha riservato cautele appellandosi alla mia intelligenza. Ho taciuto. La mancanza di cautele e la mia intelligenza avevano il peso della sua cattiva ironia.
I nostri silenzi sono, in fondo, sempre stati un’arma: di difesa la mia, di offesa, per lui. Mi ha fatto il vuoto attorno. Non ha gradito quell’ultimo silenzio. Scrivo per sottrarre una storia alla banalità. A quel punto della storia la banalità aveva vomitato su di me tutta la sua insipienza. Non mi andava di inghirlandare di compatimenti qualcosa che ha sempre avuto i connotati dell’impossibilità di soffrire insieme.
Patior. Ero migliore. Scrivo a te perché mi trovo ad aver acquistato tutto quello che volevo; chi impara l’arte del ricominciare non conosce sosta. Ho ridotto i silenzi e mi sono riappropriata del mio corpo. Mi sento unica. Si ricomincia da singoli: come si ama; le parole e il corpo, però, hanno il peso del cinismo. Scrivo a te perché tutto è perfetto e fa paura: lei con i suoi capelli lisci e, un giorno, la ragazzina con i suoi diciassette anni arriveranno dove sono io ora: non avranno nulla di che soffrire. Il mondo mangia e il suo mangiare ha il peso della nostra innocenza.
Mi dicono che ti sposerai presto, ne sono felice, che l’avresti già fatto se tu e lei aveste avuto i soldi necessari. Anche lui è ritornato nella casa e presto sposerà il peso delle convenienze. Lei che insieme a me sorride quando tu sgrani gli occhi, sono certa, sarà la tua tutela. L’irritazione dell’averti incontrato ha oggi il peso inverso dell’appiglio: non ho mai creduto alla necessità di una forma chiare quando l’amore sporca e spesso ha il peso dell’umiliazione e del solipsismo. “Solo tu resti” viene da dire, perché il mondo non t’ha rovinato. Il tempo passa e tu conservi fiducia. Fuori mia nonna sta morendo e tutto è perfetto. Il suo esaurirsi ha il peso della solitudine. La perfezione ha il peso di un cuore che tace.
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