«Ce la caveremo, vero, papà?»
«Sì. Ce la caveremo»
«E non ci succederà niente di male»
«Esatto»
«Perché noi portiamo il fuoco»
«Sì. Perché noi portiamo il fuoco»
Un libro questo del Premio Pulitzer, Cormac McCarthy, che pur nella sua esiguità letteraria, risulta fin troppo crudo, a tratti violento, eppure straordinario. Se davvero vogliamo formulare un giudizio, il romanzo “The Road”, tornato ad affacciarsi alla ribalta grazie alla trasposizione cinematografica (mera traduzione filmata diretta dall’australiano John Hillcoat che lo ha presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia,) che, se non altro, è valsa a testimoniare al più ampio pubblico, (certamente più ampio dei lettori che avranno letto il libro), l’altissimo messaggio d'amore tra padre-figlio, (di cui non si trova quasi traccia nella letteratura contemporanea). Una storia forse non nuova, ma di certo avvincente, “incentrata sui postumi di un Armageddon, in cui un padre e un figlio si trascinano attraverso scenari post-apocalittici, tra le rovine della civiltà, assediati da fame, disperazione e uomini regrediti che riscoprono gli istinti bestiali del cannibalismo”. Che è anche messaggio d’amore e di vita, per una consumata esistenza-sopravvivenza, che funge da trama portante in un mondo “di puro orrore” dove, il nuovo pericolo incombente della radioattività nucleare, ci presenta uno scenario che riprende le atmosfere metafisiche della fantascienza apocalittica, confermandole.
Un'opera (sia il libro che il film) che andrebbe portata a conoscenza di tutti, a incominciare dalla scuola, per il suo alto valore umanistico che infine ci riscatta dall’essere portatori di fame e distruzione, ma anche di nuova vita. Ciò a discapito delle critiche (più cinematografiche che letterarie) che comunque hanno rilevato una forte valenza escatologica del testo, in contrasto con il film che, “se da un lato appiattisce la poesia in una confezione tanto ineccepibile – paesaggi agonizzanti, fotografia sporca, musiche suggestive – quanto fredda; dall’altro, si pone il sospetto che si sia letto il romanzo solo per il suo contenuto, perdendone la scrittura. (..) Lo conferma ciò che vediamo nella didascalica ripetizione per immagini, cui manca imperdonabilmente l’anima" (Gianluca Arnone). E tuttavia senza nulla togliere all’ottima prova di Viggo Mortensen e del piccolo Kodi Smit-Mcphee, (padre e figlio) smunti, sporchi e amabilmente tragici nel loro “essere portatori del fuoco (della vita)”, restano pur sempre due protagonisti senza nome di un romanzo/film in cui il grigio incombe come “un lugubre sudario su tutta la natura che ha perso i suoi colori vitali”.
Ma se la pagina accendeva l'immaginazione del lettore, “il film, cupissimo, rigoroso, molto fedele al romanzo, è quasi insostenibile per lo spoglio realismo. Una metafora universale in tempi di guerra come questi, che però evita con classe le trappole e i ricatti del genere" (Fabio Ferzetti). Qui “ogni spettacolarità è bandita, se non la naturale meraviglia del nulla. Per mesi la distribuzione del film è stata in bilico. Potrebbe impressionare, questa palpabile caduta di ogni orizzonte dell'uomo... Vero come un pensiero onesto e ossessivo, e che per questo fa paura" (Silvio Danese). Non ci rimane che rilegge questo incredibile libro, per essere sicuri di ciò che la sconvolgente “realtà” dell’autore (quasi una profezia di quanto sta accadendo) ha portato alla ribalta in un momento come questo, in cui davvero serve tutta la nostra partecipata comprensione.