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Duale

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 18/05/2018 11:05:07

DUALE
L’orologio del campanile segna le dieci e cinquanta. Presto. Prima delle undici e cinque la messa non ha inizio. Il sacerdote aspetta gli ultimi ritardatari sperando di contare qualche fedele in più. Ma non succede neanche oggi che è il giorno dei Santi. Magari domani si assembreranno in numero maggiore davanti alla cappella del cimitero ma oggi no, oggi la chiesa sarà semivuota come al solito.
Margherita preferisce l’ingresso laterale. Oltre l’angusta porticina, l’interno dell’edificio si slarga e sorprende perché le sedie e i banchi, di piccole dimensioni, sono stati collocati su un pavimento alzato di livello che amplifica la percezione dello spazio.
Lei varca la soglia e lancia un’occhiata veloce ai pochi fedeli presenti.
Raggiunge, come di consueto, il banco in terza fila, si inginocchia e china il capo. Il sacerdote esce dalla sacrestia e la celebrazione ha inizio.
Margherita trova sempre conforto nelle parole dell’omelia. Chi sono i santi? Sono coloro che hanno messo in pratica gli insegnamenti di Gesù. Dunque possono esserlo anche le persone più umili e semplici, anche se il loro nome non compare nel calendario..
Il sacerdote ripete il concetto, lo argomenta con esempi.
Margherita pensa al libro dei “Santi fanciulli” che ha letto quando era piccola: Santa Regina, Santa Solangia, Santa Imelda, Santa Caterina Tekakwitha…
I coristi accompagnano all’unisono il momento della comunione..
La Messa è finita. Lei si attarda ancora, inginocchiata al suo posto.
-Posso salutarti, Margherita ?- una voce amica la fa voltare. E una presenza accanto.
-Angela! Che piacere vederti!- Le due teste grigie si allineano nell’abbraccio- sei venuta a trovare i tuoi?
-Sì, come sempre in occasione delle feste!- dice l’altra.
-Eh, già! Tu sei finita proprio in capo al mondo! Come ti trovi? Stai sempre là?
- Sì, sempre a S. Candido… beh…non mi lamento, il paesaggio è magnifico e, nel complesso, le cose funzionano su tutti i versanti anche se non è come stare qua…-
- Già – risponde Margherita abbassando il viso in un sospiro - la nostalgia tiranneggia sempre…-
Angela le lancia uno sguardo vivo dalla ragnatela di rughe.
Entrambe si sentono ragazze: non percepiscono la durata del tempo lungo che è trascorso.


-Margherita, la servi tu la birra ai tavoli di fuori?-
La mamma era ferma davanti alla cassa con il rifornitore di aperitivi e liquori che prendeva appunti.
-Ma Daria non c’è?- chiese Margherita che stava notando da diversi minuti l’assenza della sorella.
-Non te lo ha detto? Oggi pomeriggio non viene perché va al mare con Giorgio.
Margherita fece una smorfia.
-Va bene – rispose sostenuta.
Girò dietro il bancone, prese i bicchieri, li avvicinò allo spinello, fece scendere il liquido biondo con la schiuma. Li depose sul vassoio rotondo e si avviò verso l’esterno, irrompendo nel sole estivo.
Servì prima il gruppo dei tennisti, seduti vicino alla fioriera, quindi portò l’ultimo bicchiere al tipo che occupava il tavolino sotto l’ombrellone, a ridosso del muro. Posò delicatamente il bicchiere sul ripiano d’alluminio assieme allo scontrino.
Il tipo, tenendo le palpebre abbassate, sembrò guardare con interesse il muoversi aggraziato della ragazza e le sue dita lunghe, strette intorno agli oggetti.
-Mi fa un panino?- le chiese.
-Come lo vuole?-
-Va sempre bene- rispose lui arrotando la erre nella voce nasale.
Margherita tornò dentro. Afferrò il pane da uno stipo, lo tagliò, aprì il frigorifero, prese il cartoccio del prosciutto e un pezzetto di burro.
Gli servì il panino dentro un vassoio di plastica lucida e bianca . Lui lo portò con urgenza alla bocca. – Buono- disse.
Non aveva ancora pranzato, nonostante fossero quasi le tre.
Quando ebbe finito di consumare continuò a rimaner seduto come se non sapesse dove andare, che cosa fare.
Margherita osservò con curiosità la sua aria dimessa, andante. Aveva tirato fuori una scatola di cerini. Sembrava annotare qualcosa .
Arrivarono due medici dal centro geriatrico e si sedettero sugli sgabelli posti davanti alla fioriera.
Margherita li raggiunse.
-Che cosa porto?- chiese.
-Due Campari e un po’ di noccioline!- fece il più anziano.
La ragazza rientrò nel locale e uscì poco dopo recando sul vassoio le bottigliette di liquido rosso, i bicchieri e il piattino con le arachidi.
-Margherita… – chiamò il medico giovane- hai già finito con l’Università?
La conosceva. Era un cugino acquisito, di secondo grado.
-No, mi mancano ancora alcuni esami- rispose lei.
-Ma sei in pari vero?- continuò il medico- so che sei molto brava e poi, con un padre così…
-Così come?- chiese il collega curioso.
-Così severo- affermò il cugino di secondo grado sghignazzando un po’.
Margherita arrossì e abbassò la testa.
-Sì, sono in pari – confermò sorridendo timida.
-Anche tu hai scelto medicina…- continuò lui – per una donna è molto impegnativo! Speriamo non ti debba pentire…
E le lanciò uno sguardo supponente.
Perché avrebbe dovuto pentirsi? Aveva deciso lei quel corso di studi.
-Lo dico per te – proseguì il cugino che aveva notato l’espressione contrariata- se vuoi farti una famiglia, avere dei figli…
- Si possono sempre avere- disse l’altro, col tono di chi si sente più esperto, portando alla bocca il bicchiere semi vuoto.
Margherita non rispose. Abbassò nuovamente la testa e strinse le labbra sentendosi avvampare. Si comportava così quando veniva presa dalla collera e non poteva rispondere. O non voleva. Ernesto, a volte, risultava sgradevole e dispettoso, puntuale a ledere la sensibilità altrui con i suoi discorsi.
Lei ritirò le bottigliette vuote del Campari e i bicchieri.
Ernesto si girò verso il collega per dirgli qualcosa sottovoce.
Margherita fece dietro front sollevando con il cabaret i cristalli tintinnanti. Prima di rientrare, gettò l’occhio verso il tavolino sotto l’ombrellone, a ridosso del muro. Il tipo era sempre là, con lo sguardo perso nel vuoto.
Chi era? Non ricordava di averlo visto prima.
Continuò a prendere le ordinazioni dei clienti fino a sera. A lavare i bicchieri sotto il gettito tiepido dell’acqua. Era sabato e doveva alleggerire il lavoro della madre.
Il padre al sabato non voleva rinunciare alle sue uscite in bicicletta. Gli servivano per ricaricare l’umore dell’impiegato comunale, sorbito da un lavoro rutinario.
A volte anche Margherita lo seguiva e Tullio non perdeva l’occasione per catechizzare la figlia, metterla in guardia dalle insidie del mondo, controllare a che punto era con gli studi.
Quella sera Margherita chiese alla madre del tipo che era rimasto per tre ore sotto l’ombrellone con le frange, a ridosso del muro.
-Fa l’antiquario… ma gli affari non vanno… I suoi lo avrebbero voluto avvocato, ma lui ha piantato gli studi e fatto cento mestieri… - disse la madre, studiando il viso della figlia.
-Non si era mai visto da queste parti- osservò la ragazza.
-Lui abita da tutt’altra parte- spiegò la madre.– Che fai stasera? Studi o esci? – le chiese subito dopo.
-Studio- rispose Margherita.
- Bene- fece la madre, pensando che Tullio sarebbe stato contento.

Una settimana dopo, era ritornato. Aveva scelto lo stesso posto. Il tavolino a ridosso del muro sotto l’ombrellone con le frange.
Lei lo ignorò per tutto il tempo che rimase seduto.
La madre gli aveva servito una focaccia con le olive e del bianco locale.
Arrivò un gruppo di tennisti in compagnia di ragazze. Le loro voci acute fendevano l’aria.
La sorella aveva attivato lo stereo e, quando si diffuse un motivo di musica dance, uno di loro si alzò in piedi mimando col corpo. Gli altri risero ammiccanti.
Margherita si sentiva invisibile. Era un automa che girava tra i tavoli e ripeteva gesti meccanici, compreso il sorrisino di maniera con cui accoglieva le ordinazioni e depositava sui tavoli.
A volte tra i clienti riconosceva qualcuno, qualcuna…
Molte sue coetanee si erano fidanzate e venivano con il partner.
Anche sua sorella Daria aveva intrecciato con Giorgio, mentre Lia era ancora piccola per queste cose.
-Prima il dovere, poi il piacere- aveva sempre detto il padre. Ma intanto Daria aveva già trovato il moroso, anche se si era appena iscritta all’ Università.
La madre cercava di contrastare le posizioni del marito.
-E’ il loro momento, sono giovani- diceva.
-Non è la sartina che deve accasarsi- sbottava Tullio riferendosi alla figlia maggiore.
Margherita aveva sempre portato i calzettoni e la coda di cavallo. Le gonne sotto il ginocchio e i pantaloni larghi. Mai un filo di trucco. La fioritura dell’acne curata con metodi casalinghi cioè asciugamano, vapore e bicarbonato.
In qualche modo si compiaceva di questo suo “annullamento”, di questo suo prepararsi alle cose del mondo con il consiglio e la sapienza del padre ma, anche se non voleva ammetterlo, se non voleva ammetterlo neppure a se stessa, si sentiva inadeguata. E sola.
Il gruppo dei tennisti, intanto, faceva un gran chiasso. Uno aveva afferrato lo spinello per innaffiare i fiori. Le ragazze ridevano a crepapelle perché da sotto un vaso era sbucato un gatto che, disturbato nella sua siesta, soffiava aggressivo.
-Vieni qua, Muffi- chiamò Margherita.
L’animale continuò ad arcuare il corpo e ad agitare la coda.
-Basta, non ti faccio nulla!- disse l’innaffiatore chiudendo il rubinetto dell’acqua.
Margherita prese il gatto tra le braccia e lo portò lontano.
Il tipo seduto al tavolo sembrò scrollarsi dal suo stato di torpore, così almeno lo percepì lei mentre attraversava lo spazio tra i tavolini.
Quelli continuarono a confabulare per più di un’ora. L’occhio di Margherita cadde diverse volte sulla schiera delle gambe ben tornite e abbronzate che spuntavano dai pantaloncini bianchi dei giocatori di tennis.
Ad un certo punto si alzarono in piedi decisi ad andarsene. Il più alto pagò il conto per tutti. Quella che doveva essere la sua ragazza continuava a chiamare il gatto, facendo smorfie con la bocca.
Aveva un paio di gambe lunghe da capogiro.
-Micio, Micio…Muffi…mon chat!!-
Il ragazzo le scompigliò i capelli.
-Non hai mai visto un gatto?- le chiese tra il divertito e l’irritato.
Lei aveva assunto quell’atteggiamento per farsi notare.
-Senti…- la ragazza si rivolse a Margherita- non è che ne hai uno anche per me?
-Di che cosa?- chiese Margherita senza afferrare.
-Un gatto!…- fece quella con tono falsamente ingenuo.
-No- rispose lei meravigliata- ma se vuoi, posso chiedere a qualcuno.
-Lasciala perdere- intervenne il compagno- non vuole nessun gatto. Lo dice tanto per dire.
La ragazza atteggiò una smorfia con le labbra. Lui reclinò la sua testa sulla sua spalla .
Infine se ne andarono.
Margherita li accompagnò per un tratto con lo sguardo, quindi si voltò e puntò l’occhio verso il tavolino posto sotto l’ombrellone con le frange.
Vuoto.
Nessuno vi si sedette fino a sera. Poi, quando infine la ragazza andò per rassettare tutti i tavoli, riportando ciascuno nel proprio spazio, notò che sul ripiano di quello, vicino al posacenere, c’era un accendino.
Lo prese in mano. Era quadrato e massiccio. Di metallo che sembrava argento. Vi era un monogramma inciso.
-Verrà a riprenderselo lui- disse la madre sbrigativa e lo buttò in uno scomparto del registratore di cassa.
Nei giorni seguenti, però, il tipo non si fece vedere.
Margherita disse che forse avrebbero dovuto recapitare l’oggetto a casa del proprietario.
E cercò l’indirizzo esatto sull’elenco telefonico.
-Vado io – disse il padre – so dov’è.
-Potrei venire con te?- chiese Margherita afona.
-Se proprio vuoi… – fece Tullio, serio - Va bene.. così ci facciamo una bella passeggiata.
Margherita era abituata a sorbire i discorsi del padre che andavano dalle considerazioni sulla ignoranza delle masse, alla critica della gioventù con le sue manifestazioni demenziali. Entrare in contatto con lui significava accettare di assimilarsi a una forma mentis precostituita in cui le idee erano sempre riconducibili agli stessi archetipi.

Era pomeriggio inoltrato. Di un giovedì d’agosto. Molte serrande abbassate sul perimetro dei portici. All’interno del Pavaglione allestivano altri ponteggi per l’esecuzione di spettacoli.
Faceva caldo e da Est giungeva aria salmastra che miscelava gli odori dell’asfalto, delle gelaterie, dei carburanti e delle torce attive nella zona periferica…
Margherita camminava aerea accanto al padre. Stesse sagome alte e slanciate. Tullio aveva avviato un monologo intorno a uno dei suoi argomenti preferiti: la spiritualità francescana.
Spaziando tra la storia degli ordini religiosi finiva con la descrizione delle pievi di campagna. Luoghi di autentica semplicità.
-Dobbiamo ritornare a Campanile, uno di questi giorni. Forse è bene rivedere ogni tanto quel gioiellino di arte romanica. Non c’è bisogno di andare chissà dove per ammirare esempi pregevoli di architettura.
Lei aveva fatto più d’una volta l’escursione in bicicletta a Campanile. Un piccolo centro il cui toponimo dipendeva proprio dalla presenza di un antico campanile di forma cilindrica, risalente al VII secolo, che s’innalzava pendente in mezzo alla campagna.

Il palazzone anni ’60 sorgeva di fianco al S.Francisco Hotel.
Lui era sul balcone quando li vide arrivare. Stava nel cono d’ombra e teneva i piedi scalzi pressati contro la ringhiera. Guardò la figura della ragazza appiattirsi contro il muro di fronte, quando il padre le disse di aspettarlo lì, sul marciapiede sotto un prugno esile, che avrebbe fatto in un attimo.
Tullio attraversò la strada e raggiunse il portone d’ingresso per suonare il campanello.
Margherita restò immobile mentre il vento le alzava i capelli raccolti sulla nuca.
Lui scese le scale a precipizio e s’imbatté nella figura del padre fermo nella frescura dell’atrio .
Tullio notò le piccole tessere color acqua marina che riempivano a mosaico la tromba delle scale.
Edgardo si fermò sugli ultimi due gradini della rampa. Con il piede sinistro accartocciato intorno a una delle infradito. Le sue gambe nude stavano sotto il naso aquilino del padre ,la curvatura delle spalle.
-Le ho riportato questo- disse con un piccolo raschio , porgendogli l’accendino.
-Ah, grazie – rispose lui- pensavo di averlo lasciato in negozio e poi mi ero convinto di averlo perso.
Lo afferrò allungando lentamente il palmo.
-Stia attento – esortò Tullio- questi oggetti sono preziosi. Sarebbe un peccato che andasse smarrito…
- Apparteneva a un collezionista… le figlie hanno voluto disfarsene…
-Va bene…- soggiunse Tullio quasi brusco- adesso la saluto – e fece dietro front verso il portone.
-Grazie ancora- Edgardo lo accompagnò.
Il portone si rinchiuse subito dopo dietro le spalle del padre.
Tullio riattraversò la strada.
-Deve proprio avere la testa tra le nuvole, quello!- disse alla figlia.
-Perché?-
-Credo che abbia problemi di memoria…- e non aggiunse altro.
Margherita aprì la bocca e poi la richiuse.
Il padre guardò fisso davanti a sé. Aveva già cancellato l’incontro.


-Ti tratterrai a lungo?- chiede Margherita ad Angela.
-No, il solito tempo necessario per far sentire meno soli i miei e rassicurarli intorno a tante cose.
Margherita pressa le labbra. La mandibola si slarga, stringe la corda delle vicissitudini nella saliva aspra.


Era ritornato. Sedeva al solito posto. Sotto l’ombrellone con le frange al tavolino circolare, il ripiano d’alluminio e le gambe smaltate di rosso.
Un pomeriggio il vento si era messo a tirare improvviso sparpagliando i tovagliolini sotto i tavoli.
Stava finendo l’hamburger.
-Venga dentro!- gli disse la madre quando si mise a piovere.
Lui prese il piatto e trovò posto al coperto.
Bagnato, sprigionava un odore di terra e di panni bruciati e umidi . Rimase in un angolo a consumare i bocconi.
Margherita guardava imbambolata i fiotti di pioggia oltre i vetri e la punta degli ombrelloni sbatacchiati dal vento.
Erano immobili, ognuno nel proprio angolo.
-E’ un gran putanno – le aveva detto la sorella la sera prima.
-Perché?- aveva chiesto Margherita-
-Perché si fa tante donne. Va anche con le sposate-
Con quello sguardo disarmato? A lei sembrava solo un uomo solitario e triste.
Gli portò il posacenere. Lui le chiese dov’era la toilette.
La corrente era saltata e dovette farsi strada a tentoni tra i secchi e una pila di sedie.
Ritornò in sala mentre si udiva il rumore dell’acqua che risaliva le tubature.
-Ha un gettone?- chiese
-Sì - disse Margherita spostandosi dietro il bancone per aprire il registratore di cassa.
-Telefono per farmi venire a prendere… devo incontrare un cliente- sembrava avvilito.
-Se vuole, la accompagno- propose lei.
-No, non voglio disturbare-
La madre stava sistemando le bottiglie vuote nelle casse.
-Esco un attimo!- avvisò la figlia.
Due minuti dopo era davanti all’ingresso. Le gocce di pioggia cadevano furiose pungendo come spilli.
Edgardo aprì la portiera della centoventisette. Salì impacciato. Sedette. Stava un po’ curvo con la schiena appoggiata per metà.
-Che tempaccio!- disse cercando di riscaldare l’atmosfera.
Margherita era concentrata sulle marce e la visibilità.
Aveva preso da poco la patente. Temeva di far brutta figura davanti all’estraneo cui voleva mostrare invece di essere abile.
Lui se ne stava rigido portando il suo corpo come un sacco empito di cose poco importanti.
-Ho bisogno di scendere là – si voltò verso il profilo di lei aggettando la palla degli occhi e indicò la direzione.
La ragazza frenò affiancandosi a una motocicletta .
-Grazie!- lo sportello gli sfuggì senza che lo volesse, sbattendo sgarbatamente.
Margherita guardò il prospetto del negozio.
La serranda era alzata. Gli infissi in legno scuro contornavano una porta a vetro smerigliato.
Lui la raggiunse saltellando sul marciapiedi in pendenza per evitare il flusso dell’acqua che scorreva. Poi abbassò la maniglia, aprì la porta e scomparve all’interno.
Lei cercò un’area libera per fare retromarcia.
-Meno male che tuo padre non c’era!- le disse la madre appena fu rientrata- Non farlo più. Non è una buona cosa dare confidenza agli estranei !
Margherita sospirò.
Non sapeva perché, ma le faceva piacere che lui arrivasse.
Sembrava trovarsi a proprio agio. Come se fosse sempre venuto, come se avesse sempre abitato lì.
Un pomeriggio lui si risedette sotto l’ombrellone con le frange e, quando Margherita gli servì la focaccia imbottita, Edgardo tirò fuori le sue posate.
_Porto via queste?- chiese lei, indicando quelle del bar.
-Sì, non mi servono-
Lei rimise la forchetta e il coltello sul vassoio, volse le spalle ma poi le rigirò per guardare interrogativa.
Lui prese il cucchiaio e lo alzò verso l’alto reggendolo come un aspersorio.
-Vieni a vedere!-
Margherita posò sul tavolo il vassoio e gli si avvicinò.
Lui inclinò il manico in modo che la luce lo colpisse: Margherita vi scorse un orsetto in rilievo.
-Erano le mie quando ero piccolo. Adesso le uso per il campeggio-
-Va in campeggio?-
-Sì-
-Ma dove?-
-A Marina-
-Che cosa c’è di bello là?-
-I padelloni-
-Cosa si prende?-
-Un po’ di tutto, anche le anguille. Ma a me piace sentire il verso dei gabbiani e gli odori-
-Gli odori?-
-Sì, di fondali, di pantani-
-Ma non ci sono le zanzare?-
-Uso la pomata-
Parlava lento. Le parole gli uscivano sgangherate. Sembrava incerto, timoroso.
-Tu vai all’Università, vero?-
-Mi mancano alcuni esami e poi presento la tesi
Per un attimo sembrò non ascoltarla
-Perché non mi dai del tu.
-Con piacere- rispose Margherita.
-Anche per me- disse lui guardandola.
Era decisamente poco attraente. Non tanto alto, le braccia corte che si muovevano scomposte, la barba non rasata e una trascuratezza generale che faceva pensare a una scarsa igiene.
-E’ un gran putanno-. Margherita arrossì, mentre pensava a come lo aveva definito la sorella.
C’era in lui una innocenza disarmante. Una aderire alla vita con primitiva naturalezza.
Sembrava non avere sovrastrutture ed esprimere solo se stesso.

Le conversazioni erano continuate
-Come mai ti trattieni a parlare con quel tipo?- le chiese il padre una mattina che era sceso a far colazione al bar.
-Mi comporto con lui come con gli altri clienti. Quando fanno qualche osservazione mi sembra una buona cosa partecipare - rispose Margherita.
-Purché tu non partecipi un po’ troppo- disse il padre sarcastico.
-E’ solo comunicazione!- ribatté la figlia sfidante.
-Sì, ma attraverso quella comunicazione possono passare tante cose…Perciò : prudenza!


Aveva preso in affitto una casa di campagna assieme a un gruppo di amici. Ci andavano per arrostire braciole di castrato e mangiare all’aperto.
Perché non ci vieni con Daria?
C’erano andate. Anche per vedere la casa con i muri bianchi. E l’aia.
Un quadro di Fattori.
L’interno della cucina a pianterreno odorava di fumo. I mattoni del camino erano anneriti di fuliggine . Vi spenzolavano due graticole enormi.
-Non le usiamo oggi – disse Edgardo mentre Margherita sostava davanti agli alari- ci sono quelle del barbecue all’aperto.
Guiduccio era già vicino ai roveti a sventolare penne d’oca sulla brace mentre qualcuno aveva buttato le coperte per prendere il sole nel prato.
Ad un tratto si sentì il suono prolungato di un clacson e si intravvide una jeep decapottabile che aveva infilato la carreggiata.
-Arriva Corradino! Arriva Corradino!-
-Meno male – fece Daria- così sentiremo un po’ di musica!
Corradino aveva issato sul sedile posteriore una chitarra di cui si scorgeva il manico anche da una certa distanza .
La decapottabile finì nelle erbacce dell’aia.
Corradino scese tenendo la chitarra sulla linea delle spalle.
-A che punto siamo? Avete portato il vino?-
-Sì, l’ho portato io – fece Edgardo- l’ho già messo al fresco.
- Che non sia il solito Lambrusco per donne!- disse Corradino.
- No, Chianti e Trebbiano!-
- Il Chianti va benissimo-
Edgardo se ne andò dietro la rimessa per far qualcosa mentre Corradino fu raggiunto dalle ragazze che gli chiedevano di suonare.
Lui affermò che sentiva caldo e si tolse la canottiera per esibire i pettorali. Si rinfrescò con l’acqua dell’abbeveratoio. Poi cercò la panchina sotto il gelso.
-No! Non lì che cadono le more!
-Non fa nulla- rispose lui- per I giardini di marzo va sempre bene!
- Dopo ci fai Baglioni, però! – ordinò Daria.
Si disposero a semicerchio, c’erano anche Roberta e Maria Carla, e a squarciagola fecero involare i passeri appollaiati tra le fronde.
Guiduccio, intanto, si era stancato di sventolare l’intreccio di penne e chiese a Giorgio di dargli il cambio.
Edgardo portò gli affettati e un vassoio con i bicchieri.
Margherita osservava tutto senza dire una parola. Le piaceva quell’atmosfera di allegria e di compagnia. Era come se si fosse potuto disciogliere nell’aria tutte le energie buone che si avevano dentro.
Per mangiare la carne arrostita si misero in piedi attorno al tavolo nell’autorimessa. Ognuno con una forchetta prendeva il suo pezzo dal tagliere di legno per posarlo su un piattino di plastica. Era buono l’odore di rosmarino che si spandeva intorno, anche se le braciole si erano annerite con i tizzoni di legna.
Qualcuno aveva appeso una lavagna che doveva immortalare gli autografi.
Per dolce c’era un semifreddo portato da Daria :piacque a tutti la sensazione che dava in quella calura estiva.
I maschi tracannarono un paio di bicchieri
Poi si misero sotto la fila delle tamerici.
Edgardo si sedette accanto a Margherita.
-Sei mai andata al bowling?- le chiese.
-No- rispose la ragazza.
-Devi venirci. Un giorno ti porto-
-Ma perché ti piace? – domandò lei.
- Serve a scaricare –
-Scaricare?-
-Sì, il malumore, le tensioni che hai-
La guardò con degli occhi di bue che facevano tenerezza. E allungò le dita tozze verso le sue gambe coperte dai jeans per toccarle le ginocchia.
Margherita avvertì un sussulto interno.
Arrossì.
Lui sembrò estraniarsi.
Daria si era messa supina a prendere il sole e Giorgio le si buttò addosso inscenando una cosa.
-Smettetela, voi due, - disse Guiduccio- date una mano piuttosto –
-Come sei severo!- Daria gli lanciò un ghigno beffardo.
-Tutta invidia la sua – fece Roberta - perché con le donne non pianta un chiodo!
Guiduccio alzò le spalle e mise i vassoi sporchi nell’abbeveratoio.
Giorgio se n’era uscito nella radura con un pallone di cuoio.
-Che ne dite di questo?-
Gli furono appresso a sfogare energie.
Margherita, Daria e le altre continuarono a prendere il sole.
Edgardo si staccò dal gruppo e si sedette accanto a Margherita:
-Vieni a vedere l’orto- le disse.
Margherita si alzò e lo seguì indolenzita e con la faccia arrossata.
Percorsero un piccolo sentiero e raggiunsero un recinto di siepe. Margherita desiderò essere bambina per immaginare oltre la recinzione .
Invece dentro il quadrato poté vedere le pianticelle di insalata e i radicchi allineati nelle loro aree, i ciuffi delle carote e delle cipolle ; in un canto il rosmarino e la salvia.
-Che meraviglia! Ma li coltivi tu?
-No, mio padre- rispose Edgardo – ci vuole costanza. Vedi come le foglie si riempiono di buchi? Ogni anno c’è un parassita nuovo.
Edgardo sospinse il cancelletto e la fece entrare di due passi.
Margherita notò che le fragole erano già state colte.
-Eh, sì – disse lui – le cose più buone durano poco.


II

Un edificio di recente costruzione posto tra tanti altri, tutti uguali, che formavano un centro commerciale in periferia. Il bowling era là.
Attorno c’era confusione di veicoli parcheggiati e in movimento.
Dentro, una sorta di luna park fatto palestra con un rumore assordante di palle lanciate sulla pista e di birilli che si sollevavano .
Margherita pensò subito che le sue sarebbero finite nei canali laterali.
Edgardo andò alla cassa.
Poi la invitò ad una postazione e si produsse in lanci. Lei faticò ad afferrare le palle che le sfuggivano, lisce e grosse, e a direzionarle come doveva.
Finalmente qualcosa le venne fuori.
Le sfere lanciate cadevano con un botto sul percorso come se dovessero bucarlo, rotolavano velocissime verso la bocca del fondo per rompere lo sbarramento alla fila di denti dei birilli.
La segnaletica acustica accompagnava.
Chi faceva punti saltellava battendo le mani.
Ma era tutto così ripetitivo e monotono.
C’era una coppia di sposi che festeggiava l’anniversario con amici e parenti che si dividevano nel tifo.
Edgardo rideva, rideva come un bambino.
Margherita si sentiva un pesce fuor d’acqua. Ma non le dispiaceva essere lì. In mezzo a quella compagnia e con un uomo.

Lei lo aveva voluto invitare a Poggiolo. A trovare don Ferroni. Che occupava una canonica in collina e diceva la messa per quattro anime.
Si teneva dentro la tonaca raccolta in un balzo.
Era bello andare a Poggiolo in estate. Per fare la strada polverosa su cui si appoggiava la cascata dei roveti. Guardare in basso e vedere i vigneti lungo i declivi.
La centoventotto Edgardo l’aveva lasciata al primo tabernacolo.
E così erano saliti. Con il sole implacabile che faceva calura pesante, la polvere che si alzava ad ogni transito di mezzo.
Porte e finestre sonnecchiavano. Anche il cane lanciò soltanto un piccolo sordo mugolio al loro sbucare nello spiazzo.
Si misero sotto i noci ad aspettare. Fortunatamente l’erba era fresca. Edgardo soffiò su qualche filo per trarre suoni.
Era come se il tempo fosse fermo. Imprigionato dentro la macchia dei noccioli e la siepe di sambuco.
C’era odore di umidità nel fitto e di clorofilla. Se uno avesse buttato la mano, avrebbe potuto trovare le chiocciole addormentate.
Poi il cane cominciò ad abbaiare e si sentì il cigolio dell’uscio.
Il prete uscì muovendosi come un cieco. Aveva ancora sonno e il sole lo colpiva in pieno viso.
-Chi c’è ?-
-Sono io… sono Margherita!- disse la ragazza avvicinandosi
--Ah Margherita!-
Avanzava piano col fare di chi esce dal chiuso di una cella.
-Vorrei presentarle Edgardo-
-E’ il tuo fidanzato?- fece il prete.
-E’ un amico- rispose lei, arrossendo.
L’avevano raggiunto. Strizzava gli occhi chiari e la bocca gli si contorceva semi aperta sotto il sole in una smorfia che sapeva di dolore e di ostinazione.
-Ti ho mai fatto vedere il pozzo interno?- disse inaspettato.
-No- fece Margherita.
-Venite-
Lo seguirono.
Entrarono nella canonica.
Don Ferroni si fermò davanti a due pilastri con due battenti al centro. Li aprì sulla carrucola e la catena appesa alla trave col secchio immobile nel gancio . . .
-Vedi, dove attingo la mia acqua? Penso sempre alle mie parabole quando vengo qui. Anche voi dovete pensare alla vostra parabola.
- Quella della Samaritana?- chiese Margherita.
- Sì… e il costato di Cristo da cui esce sangue e acqua…-
Edgardo non diceva una parola e si guardava intorno. Quei discorsi gli erano estranei, ma seguiva accomodante.
A Margherita pareva di stare nelle premesse della condivisione. Provava un esaltante senso del ritrovarsi.
-Questa è una brava ragazza- disse don Ferroni prendendo le mani di Margherita e guardando Edgardo fisso negli occhi.
Edgardo abbassò le palpebre per quei secondi che significavano ricevuto.
Il prete regalò loro le poesie di Wojtyla.
Stettero ancora a conversare per un po’. A Don Ferroni piaceva cimentarsi nei lavori di cucina e chiese se volevano assaggiare le sue frittelle ai fiori di sambuco o la marmellata di ciliegie.
Loro ringraziarono rifiutando. Infine si congedarono.
La discesa lungo l’erta polverosa fu più leggera e veloce. Edgardo fischiettava.
-Come ti è sembrato don Tiso?
-Simpatico- pronunciato da Edgardo l’aggettivo sembrava un globulo rosso.
-E’ bello andare a Poggiolo- osservò Margherita.
-Sì, potremmo farlo più spesso- disse lui.

E ci erano ritornati più di una volta. Sempre durante quell’estate. E nelle giornate torride.
Dalla canonica partiva una careggiata che scendeva lungo il declivio e mostrava sul lato pieno le radici scoperte dei castagni. A Margherita piaceva toccarle con le mani, trasmettere e prendere la linfa.
Le veniva tanta allegria e desiderio di raccontare storie di folletti e di animali del bosco come se fosse stata in compagnia di un bambino, anche lei bambina.
Un impulso di voglia spensierata: aprire le labbra rosse e mostrare il bianco dei denti ben lavorati. Solo ora le sembrava di conoscere le risate liberatorie, correnti improvvise come getti d’acqua dalle chiuse.
Di fronte agli impacci di lui che le suscitavano la tenerezza per l’umanità. Di cui aveva solo letto nei libri.
Forse era stato sotto quelle fronde che si erano risvegliati in tutta la loro potenza anche i richiami della giovinezza primordiale, capaci di spaventare e di esaltare. Quel senso percepito come tale a contatto con la terra.
Il primo bacio Margherita l’aveva vissuto quasi per gioco. Quasi a interpretare una parte.
Poi il trovarsi sola nel bosco con un uomo - il viso del padre indagatore cacciato e oscurato nel folto- il canto degli uccelli e l’odore acre del muschio e della torba l’avevano fatta sentire in preda a uno sdoppiamento che imperioso comandava di continuare.
E così era andata oltre.

-Come sta tua madre?- chiede Margherita ad Angela.
-Mah, io non mi lamento. E’ sempre vispa e autosufficiente-
-Beata te! La mia invece si muove con il carrellino. Il geriatra dice che bisogna lasciarla fare perché è soggetta a depressione.

-Ci vogliamo sposare! Lo voglio sposare!
Margherita era inginocchiata ai piedi dell’uscio di casa e stava passando la lama di un coltello affilato tra il pavimento e la parte terminale del battente per togliere un sasso che vi si era infilato.
-Cosa? Ma ti rendi conto di chi è?- Daria aveva un’espressione esterrefatta.
-E chi è? Chi è secondo te? Sentiamo!- il tono di Margherita era pieno di rabbia, di sfida. La lama del coltello grattò la superficie del pavimento stridendo fastidiosa.
-Un fallito. Un essere incapace quando non dannoso…- Daria aveva abbassato la testa e le aveva urlato nelle orecchie.
-Come fai a essere così sicura? Non lo conosci, tu!
-E tu invece credi di conoscerlo, ma ti illudi! E poi lo sanno tutti, in paese… – Daria si era messa nel corridoio a gambe divaricate e a braccia conserte.
-Io non sono come te, non do credito alle chiacchiere. Io ho parlato con lui: è solo timido e disarmato, ma disponibile a capire chi gli sta vicino!
-Ti vuoi rovinare la vita! E poi il babbo non vuole! – la voce di Daria si era incrinata.
-Non mi rovino nulla io! Siete voi che me la rovinate! E poi il babbo non c’entra… devo essere io a decidere.
Daria non aveva risposto. Solo si era morsicata con forza il labbro inferiore.
Margherita continuava a passare nervosamente la lama del coltello sotto la porta. Finalmente venne fuori un sassolino incatramato schizzando sulle piastrelle dell’ingresso.
(1. Continua)











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