LUCIO
Pioveva a dirotto fuori dalla scuola e la collega, borse di sonno agli occhi e rughe di trascurata bellezza sulla fronte, lo tratteneva sotto l’ombrello per raccontargli del figlio e del marito in un diluvio di parole.
Lui ad annuire gentilmente e a porgerle frasi di conforto non aveva allontanato i morsi della fame che gli laceravano lo stomaco.
La mensa universitaria era a un tiro di schioppo , ma quello sfogo estenuante e la sua andatura lenta gli potevano far rimediare al massimo maccheroni scotti e un po’ di Gulasch.
Quando fu all’asciutto nell’enorme edificio si trovò impacciato con il giaccone e l’ombrello a mettere sul vassoio i piatti che sceglieva, ma la cassiera gli venne incontro reggendogli le posate e il mezzo litro di vino mentre prendeva il portafoglio.
I tavoli di formica bianca erano ingombrati di tovaglioli di carta e di cenere e , come si accomodò in uno che sapeva di spugnetta umida appena passata, trasse un sospiro di sollievo. I bocconi andavano giù veloci e il cibo, che riempiva lo stomaco, lo ristorava. Non badò ai muri scrostati e segnati da scritte né al grigiore dell’ambiente a cui i neon non ponevano rimedio.
Del resto i locali della mensa universitaria, quelli che Lucio frequentava fin da quando era venuto a studiare a Bologna, alla facoltà di lettere, erano spogli, quasi dovessero ricordare all’uomo, come già le chiese medievali (l’accostamento che spesso faceva forse era un po’ forzato), la sua pochezza.
Consumò il pasto in fretta, desideroso di immettersi nelle stradine acciottolate che lo avrebbero portato all’appartamento, affittatogli dal cugino, in pieno centro storico.
Lì respirava un’aria antica , di bottega e di mercato, la stessa del suo paese di Sicilia, che aveva lasciato anni prima per venire al Nord a farsi una vita. Il padre lavorava la ceramica e non aveva voluto che quel figlio facesse il suo mestiere; così Lucio, per non mendicare una raccomandazione presso chi sapevano tutti al paese, aveva preferito studiare al continente, cercar lavoro lì e sentirsi libero.
I fratelli e le sorelle erano rimasti a plasmare la creta nella bottega del padre per farne vasi, quartare, bummoli, e piatti su cui buttavano i colori del sole, della terra e del mare e Lucio, quando ritornava a casa, nella stagione estiva, dopo essere stato per un anno sotto il cielo plumbeo del Nord, immerso nel frenetico andare di macchine e di gente e riprendeva quei dialoghi interrotti, fatti di sottintesi, di battute e di battiti di ciglia, sapeva che cosa gli era mancato.
Per non sentirsi estraneo all’attività della famiglia, aveva collaborato a modo suo al lavoro del padre e dei fratelli, spedendo al paese le fotografie delle opere degli artisti, che scovava nelle biblioteche, nelle chiese e nei musei. Aveva persino rimediato il calco dell’ angioletto di Niccolò dell’Arca e, a Venezia, le miniature della Scuola Grande di S.Marco in un rifacimento.
E così il padre, oltre al melograno, alle ghiande, agli aranci e alle stelle di Siria, metteva sulle terrecotte battaglie , ascensioni ,e Madonne che aggiungeva a quelle di Antonello.
Il pasto era finito. Lucio ripose i piatti sul vassoio e lo sistemò nel carrello. Poi uscì, intabarrandosi bene, e si buttò sotto i portici per non prendere la pioggia.
Mentre camminava pensava alla sua andatura falciante, che lo faceva procedere così lento, e alle generazioni che non avevano beneficiato del vaccino di Sabin.
Non vedeva l’ora di arrivare a casa in via delle Pescherie Vecchie e di gettarsi nel letto.
Passando davanti alla chiesa di San Giacomo , pensò alla visita d’istruzione che aveva organizzato per la fine del mese, dopo che un’alunna, nemmeno la migliore, lo aveva colpito, osservando che le chiese gotiche e romaniche, spoglie e severe, erano più adatte delle formose chiese rinascimentali a rappresentare la spiritualità dell’uomo.
La collega di educazione artistica aveva sghignazzato, affermando che gli studenti della Scuola Media non sono in grado di provare il raptus estetico per certe cose, né tanto meno possono cogliere e apprezzare i nessi storici e artistici, ma siccome Lucio non provava interesse per le caterve di fumetti, zeppi di puffi e paperini, con cui l’insegnante liquidava la trattazione della sua materia, sostenendo che voleva proporre “attività vicine al mondo dei ragazzi”, aveva deciso di sopperire lui alla mancanza, spiegando che come docente di lettere gli capitava di frequente di far collegamenti con la storia dell’arte.
La Preside lo appoggiava: “Professor Castaldi, lei ha ragione. Offra a questi ragazzi conoscenza ed entusiasmo e non avrà da pentirsi! Pingo aeternitati!” gli diceva quando Lucio, in separata sede, le faceva presente le sue intenzioni didattiche.
Lucio provava una certa soggezione al cospetto di quell’ anziana, autorevole signora, dall’ampia fronte elisabettiana, che si mostrava tagliente e assoluta in collegio docenti e che a tu per tu rivelava un’indole tenera e sentimentale.
“Vede, professore, io credo nelle ricette semplici. Se uno nel profondo della sua coscienza percepisce onestamente che cosa è buono per i propri alunni e lo attua, ha già trovato la giusta strada. Si ricordi che Sant’Agostino dice ascendebamus interius… Lì è la chiave”.
Lucio si rallegrava per questi ragionamenti che in fondo identificavano i suoi pensieri.
“Non si faccia confondere dalle proposte più nuove e astruse che spesso sono un abbaglio o solo valide teoricamente. La scuola deve essere innovatrice, è vero, ma deve anche conservare ciò che di bello e di buono è stato fatto: mi riferisco alla nostra più solida tradizione. Questi “atti sociali”, verso cui si orienta attualmente l’azione educativo-didattica, spesso sono inconsistenti. Sono un riflusso del pedagogismo americano che, mi perdoni , è alla base della distruzione della scuola, la quale , invece, deve ritrovare il suo ruolo guida, la sua fibra intellettuale. Le discipline accademiche hanno una valenza formativa eterna. Servono proprio a far sviluppare le intelligenze. Se lei interroga gli alunni, si accorge che, al di là dei casi particolari che sicuramente meritano un’attenzione particolare, essi sono più tradizionalisti di certi loro insegnanti. In fondo, accanto alle tecnologie informatiche, vogliono semplicemente che la scuola li faccia accedere alle Stanze del Sapere..”
“Bisogna perciò conoscere bene la propria materia e avere chiaro dove si vuole condurre gli studenti, amare i ragazzi, usare un linguaggio immediato, comunicativo, e provare tanto entusiasmo ogni mattina…Lei che insegna lettere è avvantaggiato: pensi a tutto il bendiddio che può trasmettere. Coltivi la passione per l’arte e coinvolga i suoi alunni, dato che per alcuni sarà l’unica occasione per imparare a distinguere una facciata gotica da una romanica… non dimentichiamo che il cervello dagli undici ai quindici anni ha le maggiori potenzialità… – e poi, ex abrupto, seguendo il filo dei suoi pensieri,- Lo sapeva che l’Arcangeli ha pianto davanti alle opere del Pollock?”.
“ No, non lo sapevo” aveva risposto Lucio incredulo. Pollock non gli piaceva. Lo considerava un imbrattatele come ,del resto, altri artisti moderni.
“Ha pianto perché, con impressionante intuizione, ha visto un rapporto profondo tra il groviglio dei colori di Pollock e i grovigli di natura e di animali di Wiligelmo. Pensi! Ha trovato un legame tra l’arte romanico-padana e l’arte contemporanea, riportando la natura al centro dell’attenzione. Ecco, bisogna trovare e far capire ai ragazzi i legami profondi tra presente e passato, se vogliamo dar loro spessore.”
Lucio non aveva saputo cosa osservare, dato che non aveva conoscenze approfondite sull’arte contemporanea. Si limitò ad annuire.
“Vede, purtroppo io devo fare un’opera di mediazione – gli aveva confidato in un’altra circostanza la dottoressa Mariella Masperi – non posso sempre dire quello che penso, ma pensare rigorosamente a quello che dico, e le confesso che questo, a volte, mi pesa”.
Lucio si era chiesto come mai la preside lo facesse oggetto di tante sincere confidenze. Ne concluse che forse la dirigente , che aveva dedicato tutta la sua vita alla scuola, aveva bisogno di qualcuno su cui proiettare se stessa e le proprie emozioni. Qualcuno di cui potesse fidarsi. In fondo lui , siciliano laconico, refrattario ad ogni tipo di omologazione, faceva al suo caso. Inoltre suscitava in lei un senso di protezione e di affetto materni.
Si trovò sotto le due Torri. Il vento si era alzato e il battito d’ali dei piccioni di Piazza Ravegnana sfiorava i passanti. Lucio attraversò via Rizzoli, dopo aver atteso che fosse sgombra da tram e macchine.
Poi prese la traversa di via Drapperie, su cui si affacciava un negozietto di frutta e verdura, gestito da padre e figlio originari di Sciacca. Notò gli alberelli di limoni e mandarini, poggiati sul selciato a far primavera.
“Professò, era buona pasta c’a sarsa? ”. Gli rivolgevano sempre la parola quando lo vedevano arrivare, dato che spesso sedevano fuori all’aperto. Lucio sentiva l’odore di basilico e di gelsomino mischiarsi a quello della frittura di melanzane e si vedeva al balcone della sua casa, accanto alla madre che cuciva e gli parlava fitto.
Alle tre in punto girò la chiave nella toppa del suo appartamento, al primo piano, in via delle Pescherie Vecchie. Ringhiera sul cortile interno e muri rossi di cotto. La camera da letto era buia, resa più fredda dal pavimento in marmo chiaro con cornice scura. Sul tavolino giacevano quaderni e pacchi di compiti da correggere. Improba fatica per chi, come lui, non si limitava a segnare gli errori, ma forniva la versione corretta completa scrivendo tutto minuziosamente, con lo scopo di aiutare gli alunni.
Nel togliersi il tutore dalla gamba, ripensò alla mattinata. In classe aveva letto del suicidio di uno studente sedicenne, oppresso da genitori ansiosi e da insegnanti coercitivi.
Il cronista, nel fare ipotesi sulle cause, parlava di “mancanza autostima”. Immediato era stato per Lucio il collegamento con Van Gogh. Così aveva detto: “Credeva di non valere niente, perché era un modesto pittore, un modesto disegnatore e nessuno apprezzava i suoi quadri, ma in verità era un grande artista, perché la sua arte coincideva con la sua vita. I suoi dipinti erano un prolungamento della sua esistenza, una specie di grido che s’incideva nella tela”.
Gli alunni l’avevano guardato a bocca aperta e Lucio aveva rivisto lo stupore dei bambini davanti alle vetrine di Natale e poi aveva sentito la voce spezzarsi in gola di fronte alla scolaresca ammutolita che lo fissava, mentre parlava dell’infelice vita di Van Gogh.
Per allontanare da sé quell’aleggiante sentimento di pietà, che lo metteva a disagio, si era affrettato a rifugiarsi nel pensiero di Emerson, riguardante la fiducia che l’uomo deve nutrire verso se stesso:
“Emerson afferma che dobbiamo coltivare il nostro pensiero e non sottovalutarlo solo perché è il nostro, proprio per non sentirci dire, un giorno, quello che pensiamo da un altro, magari da una persona più importante, ad esempio un artista…” E ne aveva ricavato attenzione.
Sì, quelle teste che gli stavano di fronte erano come i vasi della bottega di suo padre, che aspettavano di essere riempiti di forme infinite e di smalti colorati.
Siccome il pomeriggio era ormai inoltrato, decise di rinunciare al momento di relax e di correggere i compiti di storia ammonticchiati sul tavolino. Erano dei questionari relativi alla Riforma Protestante e alla Controriforma. Semplici domande conseguenti alla lezione andata.
Lucio rifiutava le cosiddette prove oggettive, con risposte predeterminate a scelta multipla, perché gli pareva che appiattissero nei ragazzi la possibilità d’esplicitare tutte le conoscenze acquisite.
Quando vedeva le colleghe affannarsi a computare i punteggi totalizzati su prove ritenute “scientificamente rigorose”, pensava che tutti stessero diventando schiavi di un sistema livellante e che la pretesa esattezza di quegli strumenti valutativi fosse , in realtà, poco significativa.
Si convinceva ogni giorno di più che, invece di sottoporre gli alunni a fredde prove, mirate ad accertare le capacità logico-razionali, si dovesse privilegiare la conoscenza, trasmettendo contenuti basilari, anche di cultura generale, anelli mancanti nella preparazione rilevata dagli insegnanti della scuola secondaria superiore, e che la lectio medievale rimanesse comunque irrinunciabile. Così le sue lezioni spaziavano in tutti i campi e le domande che gli alunni gli ponevano, stimolo per approfondire, innescavano collegamenti a catena. Provava una sconfinata soddisfazione nel constatare che era naturale in tutti la tensione verso la conoscenza e che la capacità di suscitare l’emozione, per favorire l’apprendimento, dipendeva dal grado di autentico entusiasmo che l’insegnante evidenziava. Lui ricordava di essere stato rapito dall’eloquio di certi suoi docenti le cui lezioni erano talmente affascinanti da fargli perdere la percezione di quanto gli stava intorno. Perché anche agli altri non avrebbe dovuto capitare lo stesso? A volte Lucio temeva di peccare di presunzione e si chiedeva se dentro di lui non si agitassero le forze ataviche degli antichi signori della sua isola, la cui arroganza tanto male aveva prodotto nei secoli trascorsi ma, quando alla sera andava a far compieta dai padri domenicani e si confidava al Superiore, si sentiva rispondere che poteva dar fiato ai suoi pensieri, purché lo facesse serenamente e senza astio verso nessuno. “Tu ti chiami Lucio e devi essere luce per le persone che ti stanno intorno” gli aveva detto il frate, facendolo sentire il discepolo di Gesù che si alza in piedi nella Cena di Emmaus del Caravaggio.
La correzione dei compiti lo assorbì per l’intero pomeriggio. Cenò con due uova al tegamino, provola, le olive mattuluna che gli stuzzicavano l’appetito e innaffiò il tutto con una spremuta di brasiliani, favolose arance che gli spedivano dalla Sicilia, anche se alla sera non erano indicate poiché avrebbero potuto disturbare la digestione durante il sonno. Ma a lui piacevano troppo.
La notte trascorse tranquilla: non udì il miagolare del gatto della coinquilina né lo scrosciare della poggia, che verso sera aveva ripreso a cadere furiosa. Sognava.E il mattino seguente era pronto per ricominciare la quotidiana avventura .
Con la collega di educazione artistica, militante di Rifondazione, erano sorte purtroppo delle tensioni. Forse perché gli alunni riferivano che con il professor Castaldi avevano conosciuto la tormentata vita di Michelangelo e le vicende del Gian Bologna, che si era mozzato una mano dopo aver realizzato il Nettuno, forse perché Lucio si vedeva spesso a quattrocchi con la preside.
Così, durante i consigli di classe, quando Lucio parlava, la professoressa Giusy Servino aveva sempre da bisbigliare con i colleghi che le stavano gomito a gomito e nei cambi d’ora la stessa sembrava non accorgersi della presenza dell’insegnante di lettere, perché continuava a discorrere con qualche alunno, stando a cavallo della porta, e poi si allontanava in fretta, come se venisse presa da un’improvvisa urgenza.
Lucio accusò il colpo e cominciò a sentirsi teso ogni mattina , quando faceva il suo ingresso a scuola. Sentiva che i rapporti si erano guastati e poiché la collega Servino era piuttosto ombrosa non osava avvicinarla.
Un giorno, durante la ricreazione, non essendo addetto alla sorveglianza delle classi, mentre se ne stava a sistemare un file, nell’aula informatica, separata con una parete divisoria in carton gesso dall’auletta audiovisivi dove si trovava la Servino, sentì quest’ultima che diceva a qualcuno: “La preside sclerotica collude con lo storpio chiesaiolo, siciliano, che mi ruba il mestiere!”. E nelle ore che seguirono gli alunni continuarono a chiedere al professor Castaldi se per caso non si sentisse male, perché lo vedevano pallidissimo e Lucio, per sdrammatizzare, si sforzava di risultare scherzoso, chiedendo loro come potessero rilevare la tonalità del colorito , dal momento che il suo viso era ricoperto da una folta barba e da altrettanta capigliatura.
Decise comunque che non avrebbe riferito niente a nessuno, che avrebbe tenuto per sé quell’insulto, sperando che la situazione potesse migliorare col tempo.
I frati domenicani gli avevano offerto prontamente un soccorso in preghiere, che gli procurava serenità, e, alla sera, quando sua madre gli telefonava, Lucio assicurava che tutto andava bene, che era stimato e benvoluto e che la vita nella grassa e umana Bologna gli piaceva. Cosa che era anche vera, se non fosse stato per la collega di educazione artistica.
Ci pensarono comunque gli altri insegnanti a far sapere alla preside, che convocò Castaldi e la Servino nel suo studio.
“ Signori, - esordì la dottoressa Masperi, con l’abituale schiettezza- non voglio conflitti nel corpo insegnanti. Noi siamo degli educatori e non possiamo permetterci di essere meschini. Non ci deve essere dicotomia tra quello che diciamo e quello che facciamo”.
“Se è a me che allude – intervenne prontamente Giusy Servino- sappia che non ho nulla da nascondere. Semplicemente non condivido l’azione didattica del collega che, dimostrando di avere una scarsa preparazione pedagogica, propone agli alunni contenuti sproporzionati alla loro età, illudendosi di elevarli a livelli di conoscenza che non possono ancora raggiungere”.
“Ma io semplifico al massimo, – si difese Lucio- non li faccio studiare sui manuali dell’Argan”. “Inoltre non è corretto da parte sua – ignorò la Servino –invadere un campo che non gli compete, quello della storia dell’arte, che è riservato a me, ma che io ritengo di non dover percorrere, perché la classe non è, nella sua totalità, in grado di seguirmi, non essendo per altro motivata. Sono ragazzi abituati al linguaggio dei cartoni animati, dato che passano i pomeriggi davanti al televisore. Sono spesso disturbati, anche perchè molti di loro provengono da famiglie separate… per non parlare dei figli degli extracomunitari, di cui la nostra città trabocca. Io ho impostato la mia attività, dopo aver analizzato lo specifico dell’ attuale realtà, e non secondo una mentalità idealistico- gentiliana … che qui si vuole ancora salvaguardare a dispetto dei tempi…”.
“Guardi, signora, che il professore viene dalla Sicilia – aveva risposto la preside con tono pacato e accomodante- e la Sicilia è museo a cielo aperto.Sappiamo tutti di quanti tesori artistici sia piena quella regione. Perciò, probabilmente, al professore, che oltretutto è figlio di ceramisti, viene più che naturale fare riferimento alle opere d’arte, prendendo in considerazione la nostra città che pure ne vanta tante. Personalmente io condivido l’orientamento del collega, forse perché ho una formazione classica, ma lei non si deve sentire deprezzata per questo. Se lei ritiene che le sue scelte didattiche siano rispondenti alle esigenze della classe, se ottiene in ciò che fa risultati apprezzabili, la sua attività è sacrosanta”.
“Sì, ma il collega finisce con lo sminuire la mia immagine agli occhi degli alunni, i quali mi hanno già chiesto perché il professore d’italiano faccia utilizzare il libro di storia dell’arte che è stato adottato da me”.
“Io credo, professoressa, che non sia difficile dare la risposta. Il libro fa parte dei testi che ogni alunno ha in adozione ed è connesso con la didattica della disciplina. Che lo faccia usare l’insegnante di storia, anziché quello di artistica è comunque plausibile, in quanto la materia è interdisciplinare”.
“La cosa non mi convince – si ostinava la professoressa che era diventata di fiamma e, rivolgendosi a Lucio –fammi il piacere, evita almeno di far usare il libro!”. “Va bene, forse hai ragione- rispose Lucio con calma – era solo per non ricorrere alle fotocopie”.
“D’accordo professore, - concluse la preside – lei non farà più usare il libro e la professoressa non si lamenterà se qualche volta le scapperà di parlare di Jacopo della Quercia o della Loggia dei Mercanti, considerando che ha tante ore da spendere nella stessa classe.”
Giusy annuì imbarazzatissima e strinse la mano a Lucio altrettanto imbarazzato.
Passò del tempo. Le giornate di Lucio erano scandite dai soliti rituali..
I rapporti con la collega sembravano salvi, almeno formalmente.
La fine dell’anno si approssimava. Gli alunni, dietro suggerimento dell’insegnante d’italiano, preparavano le mappe d’esame con gli opportuni collegamenti per il colloquio pluridisciplinare.
Un giorno Lucio, sfogliando la cartelletta di educazione artistica dell’alunna più brava, notò, dopo la sequela di strisce con i personaggi dei fumetti, tre tavole con gli ultimi lavori. In una il Nettuno della fontana, aiutato dalle sirene e dai delfini, salvava da una tempesta l’equipaggio di una nave, nel quale si riconosceva l’intera scolaresca, nell’altra compariva Re Enzo nel tentativo di fuggire dalla prigione, prontamente arrestato dai pokemon-bolognesi, l’ultima infine presentava i prospetti delle chiese più importanti della città…
Lucio pensava, sorridendo tra sé, che le preghiere dei frati domenicani cominciavano a dare i loro frutti…
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