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L’Antonio

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 27/04/2018 09:03:40

L'ANTONIO

L’autobus stava per partire. Il piazzale era gremito di gente. I passeggeri battevano i piedi sul selciato perché faceva freddo.
Mela sperava di vedere l’autista aprire lo sportello e mettere in moto il mezzo.
Dopo quella scarpinata in centro desiderava salire e sedersi, sentire il tepore dei sedili e guardare la città dietro il finestrino.
Il conducente adesso era arrivato e le persone si erano messe in fila con i biglietti in mano da obliterare. Anche Mela aveva preso il suo e lo stringeva bene tra il pollice e l’indice sotto il guanto nel timore che le cadesse.
Il pacchetto con lo strudel spenzolava attaccato ad un polso e la gamba aveva già articolato il passo per posare il piede sul predellino, quando sentì un lieve colpo alle spalle che la portò a girarsi di scatto interrogativa.
Due occhi azzurri la fecero irrigidire nella stretta di uno sguardo che non aveva mai dimenticato.
Che strano: portava il cappello…ma la sciarpa e il cappotto mostravano i colori usuali.
Mela…
La cardiopatia le aveva imposto di contenere l’agitazione. O era la consapevolezza dell’età?
Si era girata ed era fuori dalla fila. Lo guardava impietrita un po’ ebete o disarmata.
Mela…
Lo guardava inespressiva , a disagio sotto il cumulo di rughe in continuo movimento sul viso,
mentre si risvegliavano i sogni fatti e mai svaniti…

Le fece cenno di seguirla, indicando la strada che conduceva all’imbarcadero.
Andavano piano quasi incespicando lungo il marciapiede con i fanali addosso che abbagliavano.
Un acre odore di smog avvelenava l’aria della sera.
Anche l’odore dei crotti si metteva nelle narici, ma era familiare e buono.
Lui voleva il burro della zangola da spalmare sul pane e poi guardava il volo dei nibbi dallo spiazzo.
Alla sera veniva spesso al rifugio e s’intratteneva fino a tarda ora a parlare del padre partigiano.
Fucilato in una fossa.
Lei lavava i piatti in cucina e ,quando sentiva le canzoni di montagna saturare l’aria del locale, si avvicinava al tavolo e gli chiedeva se voleva bere un po’ d’acqua della sorgente.
Lui le mostrava il sorriso largo e maliardo.
E gli occhi socchiusi, chiari, da gatto.
Alla mattina presto era già partito per scendere in paese.
Boia d’un Antonio! Aveva scritto un lungo articolo sull’attacco a Saigon e giù, alla Redazione, non avevano tagliato nemmeno un rigo.
Mela faceva trovare le doghe del pavimento lustrissime e le brocche lucide sui tavoli di castagno.


Camminavano adagio lungo il marciapiede e l’Antonio mostrava il passo malfermo sotto i pantaloni vuoti. Perché fosse così dimagrito Mela non se lo spiegava.

Tra il polverio di neve il corpo aveva saettato largo e sinuoso lungo i fianchi della montagna. C’erano ancora le foto appese alle pareti del rifugio.
Lui non si sarebbe vergognato di portarla in giro per il paese, perché una donna con quella pelle lattea, il seno rigoglioso, gli occhi di giada e una chioma serica con i riflessi blu non l’avrebbe trovata da nessuna parte.
Come si fosse seppellito sotto i tetti, le antenne e la frenesia Mela non se lo era spiegato.
Lo zio aveva rilevato la farmacia giù in città e il dottor Antonio non veniva più come prima al rifugio a mangiare il burro della zangola e a cantare le canzoni degli alpini.
Lei pensava che un uomo di montagna non avrebbe resistito al grigio e ai ritmi cittadini, ma poi le dissero che stava per sposare la signorina che sistemava i medicinali dentro gli armadietti.
Allora aveva sentito il cuore appiattirsi contro le doghe del pavimento.
Pioveva a dirotto quando li incontrò per la prima volta davanti al Caffè Centrale e l’Antonio fece una faccia piccola nelle presentazioni.
L’altra era una ragioniera. Orfana di guerra. Le aveva detto.

Dopo la morte di suo padre, Mela si era messa a fare i lavori da uomo. Negli alpeggi portava i secchi di ferro con il latte, dava il foraggio alle mucche e le mungeva.
La madre le diceva che avrebbe dovuto curare il suo aspetto, perché era un peccato rimanere zitella, ma Mela rispondeva “Sono un tipo difficile” e cambiava discorso subito.
Del resto, uno come l’Antonio non l’avrebbe trovato da nessuna parte e non valeva la pena dire di sì a qualcun altro.
A volte però le prendeva uno stringimento al cuore che quasi le toglieva il respiro e, andando lungo un sentiero che dal rifugio portava alla cima, batteva con un bastone di nocciolo i ciottoli grigi che si trovava davanti, fissandoli con un’attenzione allucinata e sorda, come se avesse voluto tramutarne qualcuno nella persona che cercava. Poi, si buttava nell’abetaia e parlava agli alberi e piangeva.
Ma quando tornava a casa, era serena. Diceva che la montagna le aveva fatto bene, che il verde aveva assorbito tutto.
In seguito, il fratello Piero prese in affitto la pasticceria giù in città e Mela dava una mano.
Dolci così buoni che si leccavano le dita tutti.
Ci metteva gli ingredienti migliori e le ricette della zia di Innsbruck.
In pasticceria avevano preso a chiamarla Mela, forse perché non si era sposata o per via dello strudel.
L’Antonio non era mai venuto al negozio. I dolci non gli piacevano. Lei invece era andata qualche volta in farmacia.
“Il dottore è fuori, torna tra un attimo. Se ha premura, può ripassare dopo”.
Ripassava infatti per chiedere al dottore la pomata all’ ossido di zinco.
Lui era cortese e delicato. Con il camice bianco sembrava più alto e più magro e Mela gli si rivolgeva intimidita .
Dal paese e dalla valle tutti si servivano nella farmacia dell’Antonio, gli chiedevano consigli, lo sostituivano al medico curante. L’Antonio faceva credito e teneva l’ erboristeria.
Le aveva chiesto di procurargli le genziane, la malva e il tarassaco .E lei glieli aveva raccolti a notte fonda perché serbassero intatte tutte le proprietà.
Una domenica l’Antonio la incontrò sul lungolago e siccome era solo, poiché la moglie a casa si occupava dei bambini, le chiese di accompagnarlo in una passeggiata verso l’imbarcadero.
Quando il battello si staccò dalla riva, guardando da poppa lo strascico bianco e spumeggiante, Mela pensò alle distese innevate e alla tuta rossa che fasciava il corpo dell’Antonio e rivide il suo bel viso sorridente dietro lo steccato.
Lui le disse che la gente di città era come quella di paese, soltanto più lesta nel parlare e nell’andare. Le disse che traduceva con la scrittura la vita di quanti gli passavano accanto e che il mondo non gli era mai sembrato così vivo e palpitante come adesso.
Le disse anche che gli mancavano le canzoni degli alpini e che sarebbe venuto a prendere le foto al rifugio.
Ed era venuto infatti, un giorno, ma lei non c’era e le foto erano rimaste appese là.
Poi continuarono a vedersi in città sempre più raramente e sempre presso l’imbarcadero. Ma il battello non lo prendevano e rimanevano a inseguire dal parapetto l’orizzonte a volte chiaro, a volte brumoso del lago.
Di notte Mela vedeva la faccia dell’Antonio così vicina che quasi contava i pori dilatati e si svegliava di soprassalto col cuore che le batteva forte.
Sotto il castagno c’erano le scarpe dell’Antonio, sul davanzale della finestra, esposta a mezzogiorno, i suoi occhi chiari, socchiusi, di gatto.
L’Antonio era nell’acqua della sorgente, nella brocca sul tavolo, era in piedi accanto al camino e seduto vicino al fuoco. L’Antonio era nell’aria.
Mela gli parlava e immaginava i suoi gesti, interpretava i suoi silenzi.
Quando morì la mamma dell’Antonio, Mela andò nella casa di lui in paese per le condoglianze.
Era una sera di gennaio e le persone si stringevano nella stanzetta a onorare il farmacista e le sorelle che offrivano le sedie ai più anziani.
Mela aspettò in fila e, quando l’Antonio le venne incontro, nel porgergli la guancia, si accorse che il corpo di lui aderiva al suo sotto il cappotto.
Sentì le sue ginocchia appuntite premerle contro. Come in una supplica.
Una colata di emozioni troppo intense con quel lutto intorno.
Era rimasta immobile per il resto del tempo e senza dire le preghiere…

Andavano piano verso l’imbarcadero con i fanali addosso che abbagliavano.
Che follia essere lì in quella stagione che la gelateria era chiusa e il pontile sbarrato..
“Il lago è solitario adesso” disse lui. La voce era la stessa, solo un po’ più rauca.
“Porti il cappello?” gli chiese Mela.
“Sì, è per il freddo …e per l’età” e poi “E tu, porti lo strudel su al rifugio?”
“Sì, siamo in piena stagione adesso”.
Era irrigidita dagli anni passati..
“E’ da un po’ che non ci si vede” riprese lui, annodandosi la sciarpa. Le mani erano curate , come un tempo, le unghie squadrate.
Mela rabbrividì nel vuoto della sensazione .
“Senti il lago, com’è silenzioso…” l’Antonio si era girato verso la distesa lunga, di cui si perdevano lontano i confini nello scuro della sera.
“Che fantasmagoria…” sorrise , aprendo la bocca larga sulle luci che aguzzavano intorno.
“Devo andare…” disse Mela con la timida ritrosia di quando era ragazza e lui le si avvicinò un po’.
“La mia vita mi è piaciuta tutta per le persone che ho incontrato…” disse in uno slancio di spontaneità, puntandole gli occhi sul viso.
Mela trattenne il respiro .
“ Ci sono stati dei momenti in cui … e mi dispiace se tu, in tutti questi anni, ti sei sentita sola…”.
Come potesse parlarle in quel modo, lei non se lo spiegava.
“Sono sempre stata in compagnia dei miei pensieri e…dei ricordi” gli rispose.
“Se si è nella vita degli altri non si soffoca nella propria ...” sembrò che mormorasse.

Dietro i finestrini del pullman gocciolanti di pioggia c’era solo la faccia dell’Antonio che le sorrideva, mentre risaliva i tornanti della montagna. E poi c’erano le doghe di legno dell’impiantito, le brocche piene d’acqua, il vino, il fumo nell’aria e le canzoni …

Fu un giorno di gennaio che Piero le portò la notizia . E lei si sentì gelare dentro.
Allora capì i discorsi. E rivide i vestiti vuoti e il passo incerto dell’Antonio lungo il marciapiede sul lago.
Ma il sorriso era sempre lo stesso .Largo e maliardo.
E anche gli occhi. Chiari e socchiusi.
Da gatto.






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