Ester distese i palmi delle mani rugose per fare leva sulle gambe, sulle cosce che per la breve durata del nostro colloquio avevano subito il martirio delle sue dita affondate nella carne. Si portò in piedi a fatica, con la lentezza di chi deve ridistribuire le forze.
Inclinò lo sguardo per continuare a guardare la stessa porzione di vuoto che poco prima le era stata dinanzi. Quasi non avesse voglia di staccare gli occhi da un monitor invisibile, dal quale aveva dato l’impressione di leggere ad alta voce le risposte alle mie domande incalzanti.
Mi restò a fianco, immobile per pochi istanti, come se quel lasso di tempo le servisse a recuperare l’equilibrio con l’universo circostante. Non aggiunse altro, se non un cenno blando di saluto con la mano destra.
Continuai a misurargli l’andatura finché non ebbe svoltato l’angolo. Continuai anche dopo a pensare che il suo non era certo il passo di una persona fiera.
Di storie come la sua ne avevo apprese tante, già dai tempi della scuola, e mi ero fatta l’idea che un sopravvissuto all’olocausto si sentisse in diritto, incoraggiato dalla storia, a rendere a testa alta la propria testimonianza. Mentre in Ester scorgevo una reticenza tale da lasciarmi interdetta.
Le corsi dietro spinta dalla presunzione di poter capire.
“Lasciami in pace”, mi ringhiò inaspettatamente contro, divincolandosi dalla mia presa.
Per istinto mossi un passo indietro portando le mani in alto. Lei continuò ad aggredirmi fissando nei miei i suoi occhi da animale braccato. Bastò quella raffica, inattesa e ravvicinata, a disarmarmi.
“Cosa puoi saperne tu, signorina viziata, del male che mi porto dentro? Perché non provi a immaginarlo da te cosa vuol dire perdere tutto: il saluto, il lavoro, la casa, persino gli affetti...
Sapresti immaginarti una vita senza futuro? Eppure, noi altri vi restammo aggrappati, nonostante le scarse risorse. Ma per alcuni dei nostri fratelli italiani tutto questo non bastava. Volevano che sentissimo il loro fiato sul collo, che ce la facessimo sotto per il terrore. E tutto questo prima del gran finale, prima che ci spogliassero della dignità di esseri umani.
A me toccava rileggere questi numeri marcati a fuoco”, disse nel sollevare appena la manica della camicetta, “per tornare a nutrire quel tanto di rabbia, capace di farmi sentire viva, di smuovermi dalla voglia di cedere.
C’è stato un tempo, a guerra finita, in cui avrei dato qualunque cosa pur di spartire il mio inferno. Ma la gente, allora, non voleva saperne del genocidio. Intorno a me scorgevo solo una gran voglia di ricominciare. Alla gente non interessavano le testimonianze di chi suo malgrado fosse sopravvissuto. Anzi, imparai a mie spese quanto fosse meglio nascondere, addirittura negare.
Allora si era diffusa un po’ ovunque la convinzione che gli ebrei si fossero in qualche modo meritati una punizione. E poco importava sapere se questa fosse adeguata o come fosse stata inflitta, perché in fondo ci doveva pur essere una ragione che giustificasse lo sterminio degli ebrei.
Mi dispiace, e forse ti sentirai delusa, ma dovrai cercare altrove gli spunti per la tua tesi di laurea. Io non so aiutarti.”
“Pensavo che parlarne potesse servire a entrambe”, abbozzai timidamente nel tentativo di giustificarmi.
“Se vuoi fare davvero qualcosa per me, promettimi di non farmi più domande”.
Detto ciò mi voltò le spalle. Si allontanò con quella sua andatura fatta di passi piccoli e svelti, e di una postura ripiegata, perfetta a mascherare le reali dimensioni del corpo.
Non avrei dovuto insistere, pensai.
Era stata mia madre a suggerirmi l’incontro con lei, a convincermi che poteva rivelarsi utile per le mie ricerche sulla Shoah. Invece avrei dovuto fermarmi davanti al suo primo netto rifiuto.
Le origini di Ester erano note ai residenti del nostro quartiere. Mia madre mi raccontava di quella sera, sul finire del ’45, quando giunse in paese in compagnia di un giovane del luogo, congedato per meriti di guerra. Si erano conosciuti nel campo profughi di Carbonara, dove lei trovò ricovero dopo la liberazione da Auschwitz. Vi era giunta in seguito all’amara certezza d’aver perso tutto e tutti. Fu così che accettò senza opporsi il trasferimento in un’altra regione. Per lei un posto valeva l’altro. La guerra aveva reso irriconoscibile il cuore dell’Italia e l’animo dei suoi abitanti. Ester intuiva che il ritorno nella capitale non sarebbe stato facile. E pensò di rinunciare per sempre a quell’istinto che induce a ricercare tra le macerie i resti del proprio passato. Pur di evitare lo strazio della riconciliazione, o la convivenza con chi aveva denunciato la sua famiglia, s’illuse di poter rinascere altrove.
Ma non fu così.
Ben presto, nel quartiere, cominciarono a circolare strane voci sul conto di quella povera donna dall’aspetto malaticcio. La suocera, che la accolse dopo il matrimonio civile con il suo unico figlio maschio, Alfonso, commise l’errore di lamentare in pubblico il carattere schivo e l’incapacità della nuora a portare avanti una gravidanza.
Nessuno era a conoscenza degli stenti sofferti dalla giovane, nemmeno il marito. Per Alfonso fu già abbastanza doloroso il solo immaginare.
La Forestiera, questo il soprannome di Ester, si guadagnava da vivere con il proprio lavoro di sarta. Lo stesso lavoro che in passato era servito a sottrarla dalla camera a gas.
Purtroppo, in paese, nessuna madre le avrebbe mai affidato la propria figlia affinché apprendesse da lei i segreti del mestiere. Una cortina di diffidenza le impediva di godere l’aiuto di una qualsiasi collaborazione.
Lei cuciva da sola e soprattutto di notte, chiusa nel suo stanzino, mentre gli altri dormivano di quel sonno tranquillo a lei negato. Confezionava soprattutto abiti per le cognate, alle quali invidiava l’indole civettuola.
In fondo, a Ester non dispiaceva quel suo soprannome: lo calzava, anche se le stava largo. Si sforzava di indossarlo con disinvoltura, perlomeno era un tessuto vago col quale mascherare il netto divario tra il suo e i vissuti di chi le stava accanto. Ma dentro, oltre la corteccia, cominciavano a farsi stretti i cerchi intorno al midollo, così stretti da non potersi più contare.
Nei tardi pomeriggi, quando le donne sedevano in cortile, sembrava non potessero fare a meno di fantasticare, di considerare la sterilità di Ester una punizione divina. Quale prova migliore di quella per giustificare la deportazione subita. Non sarebbe stato così, il cielo non ci avrebbe aggiunto dell’altro, dicevano, se non lo avesse meritato.
Ester aveva detto il vero: nessuno allora si sarebbe sognato di riabilitare il suo vissuto. Mentre io, nell’approcciarmi a lei, avevo dimostrato di non essere per nulla pronta a calarmi anima e corpo nel fuoco ancora vivo del suo inferno.
“Ti rendi conto di quello che stai per fare?”, mi diceva mia madre. “Ti manca solo la tesi, e tu vorresti lasciar perdere tutto per accompagnare quella donna nel suo viaggio indietro nel tempo!”
“Tranquilla mamma, non intendo buttare via tutti i miei sforzi. Ho in mente solo di posticipare.”
“Giulia, lascia che lo faccia qualcun altro, oppure rinvia il viaggio a dopo l’esame.”
“Mamma, Ester ha un cancro, non le rimane molto.”
“Non capisco, perché proprio tu?”
“Davvero non lo capisci? vuoi dirmi che in tutti questi anni non hai mai pensato di rimediare?
Ora tocca a me mamma, dovrò fare io quanto avresti dovuto fare tu, sin dall’inizio”.
Mia madre decise in seguito di accompagnarci. Prima di partire ci tenne a precisare che lo faceva per me, per non lasciarmi sola in balia delle possibili difficoltà alle quali saremmo andate incontro.
Ovviamente le credetti solo a metà: sentivo che c’era dell’altro, ma non saprei dire se a motivarla prevalse la pietà, suscitata dallo stadio avanzato della malattia di Ester, o un senso di colpa per non aver mai provato a intaccare il muro d’indifferenza che aveva costretto la donna a un prolungato esilio.
Ripercorrere i luoghi della memoria costò dolore a Ester quanto a noi altre. Si viaggiava in compagnia del silenzio, spezzato ogni tanto dal pianto di mia madre e dalle parole di conforto che Ester riusciva a tirare fuori con incredibile slancio.
L’esperienza dei suoi racconti, snocciolati di volta in volta al cospetto degli scenari nei quali si erano compiuti i fatti, fu paragonabile alla visione di una lunga replica. La replica di un dramma che nessuno avrebbe più censurato; un dramma per un pubblico consapevole, che gli attori non avrebbero faticato a coinvolgere. E davvero ci parve di trascorrere l’infanzia e l’adolescenza nel ghetto di Roma. Fu nostro ogni spasmo dell’ultimo giorno: quello della razzia.
A quattordici anni fummo strappate dal padre e dai fratelli. Fummo portate via per essere caricate, con Ester e sua madre Ines, come delle bestie sul convoglio in partenza dalla stazione ferroviaria Tiburtina.
Viaggiammo per sei lunghi giorni, senza né cibo, né acqua. Sorrette solo dalla nostra incredulità. Un orrore quello, già sufficiente a cancellare ogni possibilità di ritorno al tranquillo e rimpianto vissuto; un viaggio maledetto dalla luce che aveva imboccato il tunnel dello smarrimento totale.
All’arrivo ci tennero in fila, tremanti di paura e di freddo. Il buio ci trafisse in quella landa sterile, spoglia di misericordia. Su di noi l’abbaiare violento dei cani e l’occhio spietato dei fari puntati, come un plotone d’esecuzione, pronto a infierire con glaciale coscienza. Senza scampo. Senza ragione.
Ci separarono ancora, e fu un’immagine portata via di spalle, con il capo appena voltato per un cenno di saluto, l’ultimo penoso ricordo di Ines. Anche questa immagine ci fu resa dalle parole di Ester. Parole accompagnate da occhi atterriti, quasi non si fossero mai mossi di lì. Quasi non avessero mai smesso di subire il distacco dalla placenta. A conferma di quanto il presente fosse ancora proiettato nel passato. E di come quel campo, frutto di un diabolico aborto, infierisse ancora, nella stessa misura indelebile.
Lo smarrimento fu inevitabile, anche per noi. A quel punto perdemmo i contatti con le donne che eravamo state prima d’intraprendere quel viaggio.
Perdemmo di vista i conoscenti, e la cognizione del tempo.
Per empatia perdemmo i capelli, la freschezza, il ciclo.
Perdemmo anche il sonno e la dignità. Divenimmo carne da macello, ossa da profanare, letame per la terra.
A soli sedici anni eravamo già spettri da falciare, cuori da essiccare, occhi da bruciare.
La liberazione giunse mentre si era in attesa di altro. Ci osservò con occhi inorriditi, occhi che avevano già speso tutto, e non avevano più lacrime per continuare a piangere le nostre.
Approdammo in una terra ospitale, fiduciose di poter afferrare con le unghie, insieme ad altra gente, la spirale della rinascita.
Alfonso fu l’unico a tendere una mano, a invitarci a salire sul treno della speranza. Il nostro, purtroppo, era un bagaglio ingombrante: impossibile da dimenticare, e troppo pesante da trascinare, persino per un uomo innamorato.
Scendemmo alla prima fermata, perché quel figlio, tanto desiderato, si era fatto carico del nostro stesso male. E lo perdemmo per strada, all’indomani della promessa.
Fummo messe da parte, ma con gli sguardi costantemente di guardia alle nostre finestre, e un bisbigliare di sottofondo che prese a scortarci durante le nostre brevi comparse. Avevamo diciassette anni, le spalle scoperte e poca stoffa per rivestirci di nuova considerazione.
Ricominciammo a trascinare il peso dell’indifferenza; un senso di soggezione, misto alla vergogna, s’infiltrò nelle nostre ossa a irradiare un male subdolo. Così divenimmo schive, esiliate nella nostra solitudine.
Ester finì i suoi giorni in ospedale, a settantuno anni.
Ci permise di starle accanto e di riconciliare i nostri ai suoi ricordi. Morì con l’animo in pace, con la serenità di chi non ha mai fatto del male a nessuno.
Ogni tanto mia madre torna a riviverla. Si confonde, e prende a chiamarmi col suo nome. Anche di notte la sento piangere all’improvviso, in preda agli incubi della sua progressiva demenza.
In quei momenti di vera solitudine, torno a riconfermare il sunto della tesi suggeritami anni fa, quando pensai di mettere a confronto i vissuti di una generazione separata dalla guerra: il vissuto delle vittime, come lo era stata Ester, e il vissuto di chi invece aveva assistito senza comprendere, perché confuso dalla propaganda del male.
“L’indifferenza può uccidere, perché ha semi che il vento rigenera nei terreni incolti, mette radici dure da estirpare e infesta i frutti delle piante buone; l’indifferenza avvelena tutti con le sue spore, senza distinzioni, senza sconti per entrambe le parti, perché è un’arma a doppio taglio: colpisce in maniera diversa senza declamare vittorie, ma distinguendo sul campo le vittime dai perdenti”.
Persino mia madre, se non avesse mai rivisto le idee di allora, oggi sarebbe ancora una perdente.
Questa lezione è quanto di più prezioso mi resta di loro due.
Fine modulo
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Assunta Spedicato, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.