Problemi e difficoltà della comunicazione umana
Nel 1997, a chiusura dell'anno accademico, una conferenza di Paul Ricoeur alla Federico II, su plurilinguismo e traduzione, affascinò studenti e docenti di varie discipline. Si tratta di una problematica che viene affrontata sempre più di frequente e da punti di vista diversi, ora che per l'Europa si fa urgente la necessità di darsi dei contenuti in cui siano riconoscibili i valori spirituali che meglio la definiscono (a dispetto delle impennate e delle devianze di cui la sua storia è costellata). E Ricoeur, per sua stessa definizione, è un pensatore costantemente orientato alla ricerca di un confronto, anche (o forse soprattutto) tra "avversari recalcitranti al dialogo" - tanto che per lui si è parlato di "ecumenismo intellettuale": una tensione etica che guida la sua riflessione e che lui chiama "souci pratique" nei confronti degli uomini "che agiscono e che soffrono".
Del resto, chi negherebbe che la difficoltà del comunicare sia avvertita, oggi come mai prima, dalle singole coscienze? La complessità del moderno si è ormai talmente ispessita da rendere opaca tutta la realtà - anche quella apparentemente più immediata e trasparente in cui ci troviamo calati (o gettati, per dirla con Heidegger).
Comunicare implica, di per sé, un'attività preliminare di comprensione e di traduzione. Tradurre, in questa particolare accezione, significa definire linguisticamente una percezione del reale che ha sorpreso e captato la nostra attenzione in un momento qualsiasi dell'esistenza (la quale scorre malgré nous, perché intrinsecamente fondata sulla passività: corpo sensibile, nome, famiglia, la vita stessa, tutto ci è dato senza alcuna possibilità di scelta da parte nostra). Il modello di comunicazione più intimo e paradigmatico di questo processo ce lo fornisce il pensiero. "Comprendere è tradurre", scrive George Steiner in Dopo Babele. E Karl Jaspers, in uno dei suoi celebri saggi sul linguaggio, afferma: "Il nostro pensare... è comunicazione". Pensando comunichiamo a noi stessi la nostra comprensione (o interpretazione) del reale, così come esso si presenta di volta in volta ai nostri sensi - o come viene da essi intercettato. Ma se l'intelletto, che ha la funzione di sezionare e distinguere, allertato, reagisce polemicamente alla percezione sensoriale, nel migliore dei casi nasce il dialogo interiore, che è confronto dialettico (intrapsichico) e tende alla chiarificazione. Ma in casi più difficili, per esempio in uno stato di crisi, magari latente, quel dialogo può assumere il carattere estremo del conflitto che lacera la coscienza.
Qualunque atto comunicativo interpersonale è quindi tale solo se fonda su uno sforzo preliminare. Il prezzo da pagare è il travaglio della comprensione (o dell'elaborazione...) di un senso - l'oggetto della comunicazione -, che anche l'Altro possa recepire e accogliere. In realtà, troppo spesso si rifugge dall'impegno necessario e ci si "attacca" al senso più immediato, più ovvio e appariscente, più scontato... L'atto di comunicazione si riduce allora a un vuoto calco, formato da parole incapaci di veicolare un contenuto di senso che possa fare da ponte fra noi e l'Altro.
Spostando la riflessione dal piano interpersonale a quello intercomunitario, ossia sulla molteplicità delle lingue, la traduzione propriamente detta, che a prima vista passa per un lavoro di carattere tecnico, assume una dimensione filosofica, dal momento che ciò che viene tradotto non investe solo un sapere pratico comunemente condiviso, ma attinge a specificità etnico-culturali, il cui approccio riveste per ciò stesso anche un aspetto di ordine etico-politico.
E rileggendo, a distanza di anni, i punti salienti della riflessione ricoeuriana, ci sembra che ognuno di essi possa essere rimeditato e in qualche modo confrontato - mediante "trasposizioni analogiche" - con le esperienze che quotidianamente viviamo e soffriamo sul piano dei rapporti interpersonali.
Nel mito di Babele, afferma Ricoeur, si può leggere la persistente nostalgia per il sogno infranto di una lingua universale. C'è tuttavia anche una lettura non-punitiva - per esempio quella di Von Humboldt, che vedeva nella diversità delle lingue una ricchezza, ossia la forma principale della pluralità umana. Ma se la pluralità delle lingue può essere avvertita come una malattia, la traduzione offre il rimedio che ristabilisce la salute. L’universale traducibilità è infatti l’irrinunciabile presupposto di ogni progetto di coesistenza pacifica, che non può prescindere da una comprensione reciproca basata sullo scambio e sulla comunicazione.
Il concetto di traducibilità universale riporta alla mente il saggio di Walter Benjamin, "Il compito del traduttore", nel quale l’origine del fenomeno viene connessa con la comune intenzionalità umana, giacché “le lingue - a priori e a prescindere da ogni rapporto storico - non sono fra loro estranee, ma affini in ciò che vogliono dire”. (Ossia, gli uomini vogliono dire sostanzialmente le stesse cose, anche se le intendono in modo diverso, per cui - ad esempio - la parola “pane”, in tutte le lingue, evoca una cosa che soddisfa a un medesimo bisogno, anche se essa varia nella forma, nel sapore, nel valore nutritivo, ecc.)
Al filosofo compete quindi di portare la riflessione sulla “comune sensatezza dell’esperienza”, senza la quale non soltanto non potremmo tradurre, ma non potremmo neppure comprenderci all’interno della stessa lingua.
Nella prospettiva ricoeuriana circa “Difficoltà e felicità della traduzione” emerge forte il senso del rapporto con l’alterità - che nel lavoro della traduzione è presente sotto la specie di “straniero”. I partecipanti che si fronteggiano come stranieri sono da un lato l’autore, dall’altro il lettore-destinatario della traduzione: ciascuno con la propria lingua e la propria cultura. L’opera costituisce il messaggio a cui occorre far passare la frontiera fra i due universi culturali. E in quanto lettori di testi tradotti, noi dobbiamo al traduttore e al suo “lavoro sul linguaggio” quello che ci appare come un’economia, un risparmio di energie, di tempo, di tutto lo sforzo che comporterebbe l’apprendimento diretto della lingua dell’originale.
Allo scomodo ruolo del traduttore, secondo Franz Rosenzweig, tocca l’onere di “servire due padroni": da una lato c’è l’enigma, mai del tutto risolvibile, di un’alterità complessa, dall’altro c’è il lettore, che aspetta di potersi appropriare non solo il contenuto di senso dell’opera, ma finanche il modo con cui essa si offre a questo desiderio - ossia la forma, che nella sua peculiarità contribuisce alla costituzione del senso complessivo.
In breve, sulla figura e sul compito del traduttore si addensano, a seconda dei momenti, le difficoltà di un lavoro complesso, e la felicità di una mediazione riuscita.
La ricorrenza del termine "lavoro" suggerisce a Ricoeur - che ha dedicato al pensiero di Freud una delle sue opere più note (Dell’Interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967) - un accostamento del genere che egli definisce “trasposizioni analogiche”: traduzione e memoria, lavoro del ricordo e lavoro del testo. Come la perdita di una persona cara richiede l’elaborazione del lutto, ossia un lavoro della coscienza del reale sui ricordi - mediante i quali “prolunghiamo l’esistenza della persona scomparsa” - il lavoro del traduttore comporta la necessità di rinunciare all’ideale di una traduzione perfetta. Ma il compito di elaborare e portarne il lutto deve estendersi a tutta la catena lungo la quale l’opera si muove: dall’autore al lettore-destinatario. C’è infatti una resistenza (ancora una categoria freudiana) che si manifesta nel rifiuto di principio di ogni mediazione, a causa della “sovraestimazione del proprio rapporto di identità” con la lingua che ciascuno definisce “materna”. E ci sono culture che tendono all’egemonia (come quella francese in età “classica”, o quella americana ai nostri giorni) e che si considerano autosufficienti.
Ma il pregiudizio etnocentrico agisce anche in senso autodifensivo, da parte di culture che si sentono minacciate dallo “straniero” e si richiudono in difesa di una sacralità che assume figure storiche di volta in volta identificabili. E’ accaduto ad esempio col latino della tarda antichità, che ha continuato a dominare sulle culture più recenti, ben oltre il Rinascimento. Il traduttore deve attaccare questa forma di sacralizzazione in diverse fasi del suo lavoro. Da parte della cultura straniera, c’è una presunzione di non traducibilità - che l’etica nega, ma che tuttavia intimidisce ogni traduttore. Ciò che spaventa non è “il fantasma banale dell’originale”, poiché la traduzione non si propone di sostituirsi ad esso. “Il fantasma che qui si agita - afferma Ricoeur- è quello della traduzione perfetta...”
In ogni testo si incontrano poi dei luoghi di effettiva non traducibilità. In ambito filosofico, la tendenza della lingua tedesca all'intraducibilità si manifesta attraverso la produzione di parole fondamentali, quali Aufhebung, Dasein, Erlebnis... In ciascuna di esse è sedimentato “un lavoro di pensiero” che ne rende difficile la trasposizione in un contesto culturale diverso. Non si tratta di termini in senso proprio, ma di insiemi concettuali che non hanno corrispettivi immediati in altre lingue. Il genio del traduttore deve perciò manifestarsi anche nella capacità di riconoscerne la resistenza e di contrastare - in se stesso - l’attrazione insana per il “fantasma terribile” della traduzione perfetta.
L’orizzonte più ragionevole per il desiderio di tradurre è perciò quello che Ricoeur definisce “ospitalità di linguaggio”: ricevere l’altro presso di sé, ma a condizione di aver soggiornato abbastanza a lungo presso di lui, perché solo conoscendolo bene gli si potrà offrire un’accoglienza adeguata.
Come ogni attività umana, il lavoro di traduzione conosce quindi momenti di difficoltà e altri di capacità (e felicità) operativa. La felicità del traduttore, in ultima analisi, consiste nella scoperta (e nella riconferma) che è sempre possibile comunicare adeguatamente "tra" le lingue.
La riflessione di Ricoeur sulla traduzione si colloca all’interno della più inglobante critica delle "pretese assolutistiche della coscienza”, ossia di quel fatale narcisismo sempre a rischio di trasformare il mito dell’autotrasparenza in “mito dell’onnipotenza”, sul piano della prassi. Come metafora politica, la traduzione è anche la migliore risposta al fascismo (e a tutti i nazionalismi sempre riaffioranti come le teste di un’idra immane). Non una lingua universale, né una lingua egemone, ma la pluralità delle lingue, con tutte le loro differenze e somiglianze, è la base di una possibile convivenza tra uguali. La traducibilità universale è garantita dalla comune essenza umana, capace da sola di superare pluralità e differenze. Perché in realtà - conclude Ricoeur - “non c’è che una sola razza, con molte lingue”.
Il rapporto tra l’Io e l’Altro, visti come correlativi, è al centro della più recente ricerca del filosofo. Sono posti allo stesso tempo l’Io, l’Altro, e la loro differenza-solidarietà. Una costruzione in cui l’Io si autoaffermasse isolatamente renderebbe impossibile il rapporto stesso. E in Sé come un altro emerge che perfino noi stessi ci costruiamo e ci raccontiamo nella modalità dell’altro. E’ questo il nodo della problematica alla base della comprensione reciproca fra individui. Senza il movimento dialettico col quale l'IO si risolva a mettere in discussione l'assolutezza della propria identità per calarsi, per così dire, "nei panni dell'Altro", e mediare fra le reciproche differenze fino a colmare il gap dell'altrui supposta inadeguatezza, non ci saranno che deserti di solitudine.
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