Noi non ci giacciamo, né riposiamo in pace
come lassù, nel mondo bello della luce,
la gente così stupidamente dice.
Noi ci sconfiniamo e ci camminiamo
gravidi di silenzi e sogni oscuri.
Siamo come bestie o come bambini
che giocano allegramente a nascondino
qui, tra i lombrichi rosa, sottoterra.
Nel buio fitto fitto che ci invade e serra
seminiamo umori, il vuoto della bocca,
le mani, il vestimento della pelle e
gli occhi come bulbi fertili e molli
sperando che scoppino in alto le corolle
di tanti giovanissimi fiori,
quando verrà la primavera.
Ah l’aria che li corteggia
ed il profumo sparso goccia a goccia:
sì, li ricordiamo in qualche punto
di noi, in qualche incorruttibile presente.
Dal nero, dalle trame delle radici,
dai minerali, dalle pietre, dalle fauci
del tempo sotterrato partoriamo esistenze
parallele nei vuoti dell’ assenza
con un’ ancestrale devozione
alla macina perfetta della trasformazione,
fino a restare col bianco essenziale delle ossa.
Però, non siamo stanchi.
No. Non siamo stanchi.
Il bello della morte è essere vissuti.
E noi non siamo più remoti
di quelle stelle che rilucono ancora
dopo essersi disintegrate
in chissà quale remotissima era.
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