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Malinconia

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 24/07/2009 17:35:13






Mentre scendevamo per il sentiero ripido e sassoso Marco, il più grandicello dei miei figli, mi domandava: “Papà, dov’è la mamma?” Io rispondevo che era andata a casa e che ci stava aspettando. Dopo qualche minuto mi ripeteva la stessa domanda, forse perché s’era dimenticato, oppure perché non era del tutto convinto. Così giungemmo ai piedi della roccia che era il crepuscolo.
Era stata una rara giornata di sole di quell’autunno incredibilmente piovoso. Proposi a Lidia di fare una passeggiata in montagna per vedere i colori del bosco che si tingeva di rosso e d’oro. Prendemmo con noi i bambini e in meno di mezz’ora giungemmo alla roccia. C’inerpicammo per un sentiero che, ora ripido ora in dolce pendio, portava sopra un altipiano di prati e boschetti di noccioli. Da quell’altezza si poteva godere il sole tiepido d’Ottobre ed inebriarsi dei colori dolci e tristi dell’Autunno. Sicuramente se avessi avuto con me Elena non avrei resistito all’impulso di abbracciarla, vinto dalla tenerezza del suo corpo, dalla dolcezza di quel paesaggio che si stendeva sotto i nostri piedi con colline verdi e gialle sparse di casolari tranquilli.
Invece avevo al mio fianco Lidia: la malinconia autunnale andava a peggiorare la depressione che s’era impadronita di lei quando era nato Giulio. Eravamo molto affiatati. Eravamo felici, e ancora più uniti quando avemmo Marco, il primogenito. Con la seconda gravidanza cominciò a penetrare nella sua anima una tristezza senza fine. Lei, che era una ragazza spensierata, che amava partecipare alle feste, che amava frequentare le compagnie d’amici, si chiuse in un cupo pessimismo che coinvolgeva chiunque le fosse vicino. Accadde così che sia io che i bambini cominciassimo ad allontanarci da lei con tanti piccoli e grandi sotterfugi. I bambini si fermavano il più a lungo possibile a scuola e all’asilo. A volte li portavo al cinema o a fare una passeggiata nel parco cittadino. Lidia rimaneva in casa con la scusa che doveva riordinare, ma in verità il suo male le impediva d’applicarsi con interesse a qualsiasi cosa. Una semplice passeggiata, una sera al cinema o a casa d’amici, si tingeva per lei del grigiore del vuoto e della noia. L’intervento di specialisti, i farmaci sempre diversi e sempre inefficaci, non fecero che peggiorare la situazione. La nostra famiglia, che una volta era stata allegra e felice, era diventata triste; la nostra casa era fredda come il cuore di Lidia. Se i primi anni avevo cercato in tutti i modi una soluzione, e il mio amore per lei, rimanendo immutato, mi procurava un gran dolore, col passare del tempo, forse per sfuggire all’angoscia, il mio cuore s’era intiepidito. A sera tornavo mal volentieri dall’ufficio. Mi fermavo spesso al bar con un collega a discorrere, ad ammazzare il tempo, e veramente s’intuiva che non avevo voglia di rincasare.
Passeggiavamo sopra un tappeto di foglie. I bambini giocavano a rincorrersi Io li seguivo con gli occhi, preoccupato che s’avvicinassero troppo al bordo del precipizio, dove le pareti altissime delle rocce cadevano bianche e lisce giù fino al piano. Lidia, chiusa in una muta malinconia, era completamente indifferente al pericolo che potevano correre i piccoli, indifferente alla bellezza del paesaggio, alla mia presenza.
Quando conobbi Elena la mia vita si spaccò in due. Venne un giorno in ufficio a trovare suo marito. Nessuno poteva supporre che un tipo insignificante come Armando Paoli potesse avere una moglie così bella. Il suo ingresso riempì la stanza di una luce, di una dolcezza che rimanemmo tutti senza fiato. Quell’ufficio ingombro di carte polverose divenne improvvisamente un nido di piccoli aquilotti, perché così ci sentivamo noi impiegati, come ritornati all’infanzia, quando bastava la presenza, il sorriso di una bambina, per farci sognare. La rividi alcuni giorni dopo, quando Armando m’invitò a casa sua per completare un lavoro dopo cena. Da allora ci frequentammo all’insaputa del marito, naturalmente. Dopo qualche mese Paoli fu trasferito all’estero e tornava a casa due tre volte l’anno. Sebbene vivesse sola, Elena non volle mai che ci vedessimo a casa sua. C’incontravamo nell’appartamento del fratello scapolo, che pure viveva all’estero: un appartamentino in Via Marconi dalle pareti bianche e azzurre, un vero nido dove consumavamo il nostro amore con la golosità vorace di due bambini dinanzi al gelato preferito. Quando tornavo a casa, il silenzio e il malumore che riempivano le stanze dall’aria viziata, perché Lidia non apriva mai le finestre, m’erano divenuti ancora più insopportabili. Presi ad uscire dopo cena, a frequentare assiduamente il bar e l’ultimo spettacolo del cinema. I bambini andavano di frequente a casa della nonna, mia madre, e sempre più spesso ci passavano l’intero pomeriggio.
Anche Alberini, il padrone della ditta, aveva notato Elena e le faceva una corte garbata. Lei mi raccontava tutto: mi mostrava i biglietti che le scriveva, il conto del ristorante, quando l’invitava a cena in compagnia di un’amica, gli orecchini e perfino un costoso braccialetto che le aveva regalato, in premio, perché il marito aveva combinato un buon affare battendo la concorrenza. Lei rideva di tutto questo. Era veramente un angelo, una creatura superiore. Io mi sentivo lusingato che preferisse al padrone un impiegato qualunque, un uomo dall’aspetto mediocre come me. Mi dicevo che l’amore non si compra a nessun prezzo, che esistono delle affinità che uniscono lo spirito e la carne di un uomo e di una donna con più forza che il Magnetismo due calamite o la Gravità due corpi celesti. Maturava in me la voglia di ricominciare. Non vedevo un futuro nel rapporto con Lidia, una via d’uscita. Anzi, dopo aver incontrato Elena, non m’auguravo più di trovare alcuna via d’uscita. Pensavo che a quaranta anni fosse mio dovere cambiare vita. Non ritenevo possibile né giusto consumare nell’angustia e nella tristezza ciò che rimaneva della mia esistenza, accanto ad una donna che non amavo, che non desideravo più. Mi tratteneva il timore di dover separarmi da Marco e Giulio, di farli soffrire, come sempre accade quando i genitori si dividono. L’amore per i figli è così viscerale, così dominante, che non sono frutto di pura fantasia quelle storie di genitori che danno in pasto alla loro prole perfino la propria carne.
Una volta Elena mi disse che sarebbe stato meraviglioso vivere insieme come marito e moglie. A quelle parole mi nacque una grande speranza: che ritornassero gli anni felici, quando non vedevo l’ora di rincasare per abbracciare mia moglie e i bambini. Il lavoro mi sembrava allora una lunga sospensione della vita, che riprendeva soltanto tra le mura domestiche. Tutto ciò poteva avverarsi se solo avessi avuto la possibilità di vivere con Elena, che amavo immensamente. Le chiesi se sarebbe stata capace d’amare i bambini come se fossero stati figli suoi. Ella era entusiasta di quel bellissimo sogno ad occhi aperti in cui presi l’abitudine di rifugiarmi, come in un’altra dimensione, ad ogni pausa della giornata e di notte, nelle lunghe ore d’insonnia, di cui soffrivo da parecchio tempo.
Ma la storia prese una svolta tragica il giorno in cui Elena mi disse che il marito le aveva chiesto il divorzio. Pare che Armando si fosse fatto una nuova famiglia nel paese dove lavorava.
Passeggiavamo sul prato madido d’acqua delle piogge torrenziali di quei giorni. Il fango e le foglie adesi alle suole delle scarpe le rendevano scivolose. Ascoltavo le voci dei bambini che s’erano allontanati rincorrendosi dietro un dirupo. Sentivo dietro di me i rametti secchi dei noccioli schioccare sotto i piedi di Lidia che mi seguiva in silenzio. Mi fermai sul ciglio del precipizio e lei al mio fianco. Nel fondo uno spiazzo di sassi e rocce già in ombra, nero e grigio, proprio come uno s’ immagina il fondo dell’abisso. Eravamo saliti da un sentiero secondario e non avevamo incontrato anima viva, così pure sul pianoro. Ero in apprensione per i bambini, che s’erano allontanati troppo. Come fa a non preoccuparsi dei bambini? Elena si preoccuperebbe. Hanno bisogno di una vera mamma. Facevo pressappoco questi pensieri ascoltando le loro voci che si rincorrevano, si chiamavano, come il canto delle allodole. Lidia guardava assente il panorama. Eravamo proprio al bordo del precipizio.
Pensavo che dovevo correre dai bambini, che forse erano in pericolo. Volevo stringere Elena tra le braccia, avevo voglia di lei.
Guardai in fondo al baratro e fui preso da una vertigine. Poggiai il palmo della mano sulla schiena di Lidia. Sentii sotto la giacca a vento l’adipe del suo busto cedevole alla pressione delle dita. Il suo corpo sembrava disarticolarsi come quello di un fantoccio imbottito di stracci. Senza un grido, senza una minima resistenza precipitò nel vuoto. Vidi sui sassi grigi e neri la macchia blu della sua giacca, la macchia rossa del suo sangue. Corsi dai bambini che giocavano a rimpiattino. Li presi per mano e scendemmo per lo stesso sentiero da cui eravamo saliti. Marco mi diceva “Papà dov’è la mamma?” ed io rispondevo che era tornata a casa perché non stava bene, e che ci aspettava. Li portai a casa di mia madre. Erano stanchi, li lasciai davanti al televisore, mentre la nonna preparava la cena. Quando arrivai a casa vidi due macchine della polizia davanti al portone. I poliziotti mi aspettavano in compagnia dei vicini. L’ufficiale mi disse che dovevo andare con loro in ospedale perché era accaduta una disgrazia. Mia moglie s’era uccisa buttandosi nel vuoto.
Non dovetti nemmeno fingere. Avevo gli occhi gonfi di pianto e la disperazione dipinta sul viso. Uscito, infatti, da mia madre, avevo telefonato ad Elena per dirle che finalmente potevamo vivere insieme, che non appena avesse ottenuto il divorzio ci saremmo potuti sposare, che potevo nel frattempo trasferirmi a casa sua, oppure andare a vivere insieme in campagna. Elena mi lasciò parlare senza interrompermi, poi disse che non voleva sposarmi, che non se la sentiva, che voleva essere libera. Andai a casa sua, bussai alla porta, ma non aprì. Rimasi per strada, stordito. La richiamai sul cellulare. Mi rispose che non voleva vedermi più, di lasciarla in pace, e mentre balbettavo le mie scuse per averla disturbata, riattaccò. Non m’accorsi neppure della Maserati azzurra di Albertini parcheggiata accanto al marciapiede di fronte.
Piansi disperatamente come un bambino. Poi vidi le luci della polizia, pensai che era finita, che avevano scoperto tutto e sarei andato in prigione, che non avrei più rivisto i bambini. Quando l’ufficiale mi disse che Lidia s’era uccisa, ebbi un sospiro di sollievo. Mi allungai sul sedile e scoppiai in singhiozzi.


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