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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Zugunruhe

Poesia

Marco Aragno (Biografia)
LietoColle

Recensione di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 28/01/2011 12:00:00

Zugunruhe è un termine tedesco che indica, letteralmente, un’ansia di movimento, un’irrequietudine che coglie gli animali migratori, e soprattutto gli uccelli quando la stagione li chiama a partire e qualcosa lo impedisce. […]”, così si legge nella bella prefazione di Franca Mancinelli che accompagna l’esordio di Marco Aragno, nato a Villaricca (NA) nel 1986. Ventiquattro anni all’uscita del libro, è giovane ma, a mio avviso, rivela già un’importante e matura capacità espressiva e comunicativa del mondo interiore e personale attraverso la scrittura in versi.
La raccolta si sviluppa, chiaramente, tra la poesia iniziale e finale, con decisa capacità lessicale, esse appaiono come l’avvio e l’epilogo di un’ampia poesia che si distende sulle cinquanta pagine del libro e dal cui centro scaturisce la posata ricchezza delle composizioni metriche di Aragno; o, se vogliamo, sono le due facce di una medaglia d’oro, il cui spessore è il peso, e quindi il valore, della medaglia stessa. Ecco la poesia iniziale:

Mi riempie allo stesso modo quel gesto
che ti fa chiara come le fontane
quando trasali nel vano della stanza
al suono della mia voce.
Ma ora non so dietro quale sonno
mi starai ad aspettare, se il grido
che lanciavo ha scampato gli anni
sino alle porte di questo mattino.
So solo che dalle persiane
rompono i primi picchi del giorno
e tu mi sei ancora accanto
tu che non ti svegli, dormi in silenzio
dentro quella notte che non conosco.


e la finale:

Ora che è calma tutta l’aria intorno
e un fremito lontano, come un mare,
mi sveglia fuori dalla mente
l’inizio è camminare questa terra
questo mucchio di radici strappate.
L’unica certezza sarà saperti
rifiorire improvvisa da una zolla
come una rosa, un’impronta di luce
in cui ritrovarci per sempre.


Un’aria di tristezza pervade le stanze di questi innocenti canti in versi di Aragno, imperniati, a mio avviso, sul dolore interiore generato da un evento, forse da un lutto, mi auguro non veritiero ma inteso, in senso lato, come dilatazione di un vago e intimo sentore di abbandono e allontanamento, somigliante a quello della morte. Immaginaria o reale, visto che in un poeta male si riesce a distinguere l’immaginazione dalla realtà, l’esperienza del distacco è avvenuta o avvenibile, sempre in potenza realizzabile, è il dolore iniziale dell’uomo, emergente dall’inconscio, che forse ha origine nel mito della cacciata dal Paradiso, ma che in noi, uomini di ogni tempo, vibra come un presagio di morte, orrore e tristezza. Aragno vede un mondo che, seppur immerso nella desolazione, non importa se provocata da partenza, malattia o morte, trova nella speranza, sempre ultima a morire, una spinta verticale verso la gioia della vita, una nuova possibilità di partenza, un rifiorire improvviso da una zolla, “L’unica certezza sarà saperti / rifiorire improvvisa da una zolla / come una rosa, un’impronta di luce / in cui ritrovarci per sempre.”, la vita, e la sua continuità, è alla fine ciò che conta nelle nostre esistenze, è il nostro anelito; si può fuggire dalla cupezza dei giorni “se un po’ di vento riporta la vita”:

Ancora lentamente usciamo qui
in questo mondo, usciamo dalle pale
di un ventilatore, dal suo sbuffo
quando tutto il sonno dell’ospedale
raccoglie il suo silenzio
nelle sedie verdi della sala d’attesa.
Ma troppo vaghe le mani, le porte
non hanno maniglie e qualcuno fugge
nel colore delle tende, nel rosso
degli oleandri che s’accende
dal fondo dei corridoi, in penombra,
se un po’ di vento riporta la vita.


(Pagina 40)

Infine i sogni sono il faro, la stella polare, l’intima certezza di non essersi smarriti, ecco perché “Qualche volta ritorno per capire / come guardavo il mondo / se fossero mai veri / i sogni detti ai piedi delle scale. // […]” (pagina 19). Ma chissà se sono veri i sogni e i desideri più intimi che nascono e crescono inspiegabilmente in noi, in ognuno uguali ma totalmente diversi. E forse gli antichi luoghi che sono stati i nostri ripari, nei tempi della spensierata epoca fanciullesca, oggi non lo sono più, anche se intorno ciò che era sembra rimasto uguale; dentro il poeta qualcosa è cambiato, una mestizia serale affianca la sua anima nel luogo del suo riparo, dove vive i suoi affetti, ma proprio questi ultimi sono causa della riconfigurazione delle aspirazioni personali, in quanto essi, in qualche modo, destabilizzano, finché lo spirito capisce che i propri sogni devono necessariamente innestarsi in quelli degli altri:

Forse la casa non è più al riparo
in questo tempo, anche se alla finestra
ritrovo i corsi e le strade di sempre:

Giulia ha appena finito di suonare
mi guarda dal divano, nel salone.
In qualche pozza del cortile
già si riposa il rosa della sera.
E gli ultimi passanti s’allontanano.


(Pagina 20)

Ecco qui riportate soltanto alcune suggestioni rilevate nella lettura dei testi di Marco Aragno, che, chiaramente, non sono esaustive dell'architettura e della bellezza della sua scrittura; come sempre la poesia è un fatto personale tra il lettore e il poeta, pertanto vi invito a confrontarvi, cari lettori, con Aragno.
Infine, complimenti per il titolo, molto originale, e all’editore per l’ottima scelta grafica della copertina che riporta la riproduzione della suggestiva opera di Mauro Poretti, dal titolo “Figure nella luce”.


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