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di Maria Musik
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Pubblicato il 02/06/2009 08:55:35

Camilla, dopo un giorno passato a dormire, rannicchiata nel letto sfatto, accompagnata da incubi psichedelici che neanche il migliore LSD d’annata 1970 avrebbe indotto, si svegliò.
Seduta in mezzo al materasso a due piazze, le gambe incrociate come se stesse per iniziare una meditazione, passava ripetutamente le mani sui capelli, mandandoli indietro quasi un vento fastidioso glieli soffiasse sul viso, incollandoli agli occhi.
Lanciò un’occhiata disperata al display della radiosveglia: nel buio, malvagi occhietti verde acido, vibrando le ciglia, segnavano le 20.30.
Dio: un’altra notte di solitudine, davanti all’inutile quanto venefico schermo acceso, a fare zapping per evitare lo schifo degli insensati e guardoni “irreality”, le lacrime dei film d’amore, la noia delle bagarre pseudo politiche, i colori funebri ed il rumore sinistro dei video music.
Il coraggio di mettere quel DVD consunto che sembrava raccontasse la sua vita, le mancava.
Come in Arancia Meccanica, seguendo il Programma Ludovico, si costringeva a guardarlo e riguardarlo e riguardarlo ancora, per espiare, per condizionare il cervello e non ripetere più gli stessi sbagli. Se avesse funzionato, non avrebbe mai più ceduto alla tentazione di amare qualcuno: l’immediata sensazione di soffocamento e dolore l’avrebbero tenuta lontana dai sentimenti.
Aveva scelto anche la musica per il decondizionamento e, alla Nona di Beethoven, si era sostituita la voce roca e potente di Mimì che cantava “Tu, tu che sei diverso, almeno tu nell’universo, un punto, sai, che non ruota mai intorno a me, un sole che splende per me come un diamante in mezzo al cuore”.
Tu che sei diverso? Diverso da chi, da cosa? Dai diamanti non nasce niente. Meglio avere un orologio a cucù nel petto.
C’era, poi, quel sogno che la perseguitava. Orami da un mese, come cadeva in una fase REM, rivedeva la stessa sequenza di immagini, solo pochi insignificanti particolari mutavano.
In un attimo decise che quel cortometraggio onirico l’avrebbe vissuto da sveglia, così si sarebbe dissolto, lasciando spazio ad altre storie.
Aprì le ante dell’armadio e rimase ad osservare gli indumenti. Doveva scegliere bene. Replicare il tutto con la massima precisione era indispensabile. Eccolo lì: un sobrio tailleur pantalone, color prugna scuro. Lo indossò direttamente sulla biancheria intima. Il pizzo del reggiseno occhieggiava malizioso dalla scollatura. Invece di scarpe chiuse, indossò sandali con altissimi tacchi.
Andò in bagno. Sciolse i capelli ricci e gli ridiede volume. Gli occhi sapientemente evidenziati col kajal smeraldo, un velo di gloss arancio sulle labbra. Perfetto.
Uscì e si avviò spedita verso l’angolo fra la Colombo e via Semeria, dall’altra parte della strada in cui abitava. Incurante della possibilità di essere vista da vicini e conoscenti bazzicare l’imbarazzante crocevia della prostituzione, si piantò accanto al semaforo ed attese.
Passò poco tempo ed un’auto scura si fermò. Mentre il finestrino fumè calava si componevano, a veneziana orizzontale, le fattezze di quel volto maschio. Prima discordanza: non era rozzo, né segnato da rughe e gli occhi non apparivano piccoli e lascivi. Non era l’uomo del sogno. Per un attimo pensò di girarsi in segno di diniego ma il sorriso attenuato dalla luce notturna glielo impediva.
“Sali?”. Camilla, senza rispondere, spalancò la portiera socchiusa e si accomodò nell’abitacolo. Seconda difformità. L’interno non puzzava di fumo stantio e non si udiva lo sgradevole sottofondo di una dilettantistica trasmissione sul calcio. Anzi, le casse diffondevano un piacevole cool jazz.
“Dove vuoi andare?” “Casa mia” rispose, risoluta a riportare la situazione a coincidere con il copione. L’uomo annuì e senza chiedere altro si diresse verso l’abitazione di Camilla. La donna era così presa dalla necessità di raggiungere il suo intento che neanche si accorse di quanto fosse strano che uno sconosciuto conoscesse il suo indirizzo.
I secondi trascorsi in ascensore sembrarono un’eternità. Lui, serio ma non troppo, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, guardava dai vetri delle porte, muro e pianerottoli fare la staffetta passandosi il testimone con precisione cronometrica. Camilla fissava lo specchio, opacizzato da fiato e impronte, senza vederci dentro nulla.
Arrivati al piano, non riusciva a trovare le chiavi di casa. Tentò di appoggiarla ad una gamba per frugarvi meglio ma, quella posizione da gru, non era certo un esercizio da praticare con quei trampoli ai piedi. L’uomo rise, senza alcuna malizia:
- “Le borse delle donne! Sono come pagliai e le chiavi il famoso ago! Lascia fare a me”.
Mentre lui trafficava fra zip e tasche, Camilla bofonchiò:
“Le odio queste dannate. Pesano un accidente, in metro le devi tenere strette addosso e rischi di cadere ad ogni fermata. Poi, quando cerchi qualcosa…”
- “Sì, ma non riuscite a farne a meno”.
- “E cosa dovremmo fare: ficcare tutto nelle tasche come voi? Due bozzi sui fianchi ed uno sul sedere!”
- “Trovate. La solita fortuna del principiante!”.
La porta si dischiuse.
Camilla cominciò ad accendere luci, raccogliere indumenti sparsi, rassettare nervosamente cuscini e teli copridivani. Poi, proterva, si rivolse all’uomo:
“Di qua o di là?”
“In camera da letto: sono un tradizionalista e mi piace stare comodo. Il “famolo strano” non fa per me!”.
Ancora una discrepanza. Niente scena di amplessi violenti nel soggiorno. Lui era entrato nella camera e, con una calma snervante, aveva cominciato a spogliarsi riponendo con cura gli abiti sulla sedia.
Poi, le si era avvicinato, le aveva tolto con delicatezza la giacca di dosso e l’aveva appesa ad una stampella. Lei era rimasta immobile, agghiacciata e torva. Aperta la chiusura lampo, i pantaloni erano caduti fluenti lungo le gambe longilinee. Si era chinato e aveva sfilato un piede poi l’altro, come se stesse per mettere il piagiamino ad una bimba un po’ riottosa che non vuole andare a nanna.
Camilla veniva sommersa da ondate di tenerezza e di rabbia. Da anni nessuno si prendeva cura di lei. Ma al tempo stesso, altera e folle, cercava di interpretare questo inaspettato comportamento come fosse il rituale del gioco morboso che accendeva il desiderio di un cliente un po’ particolare che, se fosse stata una vera professionista, avrebbe riconosciuto al volo.
Rimase immobile sui suoi tacchi alti e la coscienza di quanto il suo corpo potesse parlare, in attesa della fatidica frase: “Quanto sei bella!”
Invece, come uno schiaffo in pieno viso, le giunse un messaggio alquanto diverso: “Sono troppo magro, vero?”. Per la prima volta distolse lo sguardo da se stessa e si presa la briga di guardare quell’uomo che se ne stava in mutande di fronte a lei con la stessa semplice disinvoltura di chi sorseggia un caffè al bancone di un bar.
Alto, dinoccolato, con una muscolatura lunga e tesa. Bruno, con occhi marrone liquido, vivaci e guizzanti.
E si spaventò nell’udire uscire dalla sua bocca le parole: “Magro, grasso? Che importanza ha? A me pare che vada bene così come sei!”.
Poi, finirono le parole e venne il sesso e, dopo il sesso, il sonno. Si addormentò fra le braccia dello sconosciuto. Si accorse che, incuneata a cucchiaio nel suo corpo, la quiete assoluta la conduceva verso un rilassato torpore.

La luce che filtrava attraverso le tende, la svegliò. Era sola nel letto e sul comodino scorse, delusa, qualcosa. Si avviò disgustata verso il bagno e fece la doccia più lunga della sua vita, lavandosi con acqua, sapone e lacrime.
Se l’era cercata. Ben le stava. Doveva compiere l’atto finale. Si cinse dell’accappatoio come fosse un’armatura e decisa tornò in camera da letto. Allungò la mano, curiosa di sapere quanto fosse stata valutata la sua prima prestazione. Ma le dita incontrarono una scatola piatta e dura. Un DVD. Il suo DVD “Adele H. - Storia di un amore”. Accanto, un foglio A4 preso dalla sua stampante e piegato in quattro.
Lo aprì. Una scrittura piccola e regolare lo riempiva di fitte righe blu scuro.
“ Dolce, strana Camilla,
non credi sia ora di cambiare film. Perché inseguire, folle, un amore non corrisposto? Perché farsi tanto male?
Non sei una puttana perché non vuoi vendere nulla e nessuno ti può comprare.
La notte ti sento agitarti, riascolto le urla ed i pianti di Adele, le note suicide di Mia. E sento il tuo rivoltarti nel letto, smaniare, i tuoi passi incessanti che calpestano il buio.
Non sono curioso o pazzo. Ma i muri, qui, sono carta velina ed io scrivo di notte.
Sai quanti fogli mi hai fatto stracciare? Quanto file cancellati? Sai quante volte ho scritto la tua storia?
Ma non sono mai riuscito a trovare un finale. La tua morte mi faceva orrore, la follia ti umiliava ed un lieto fine era sempre stonato e banale.
Così ti ho attesa ogni giorno, al di là della parete. Ti accarezzavo col pensiero, ti proteggevo con l’udito.
Basta Camilla, ora basta.
Alzati, Camilla, esci, mangia e dormi. Torna forte Camilla.
Abbandona Adele al suo destino, ‘che tanto è compiuto.
Vivi, Camilla, vivi. E dammi un finale degno di un grande romanzo.
Ti bacio.”
Ripiegò il foglio e lo depose nel portagioie. Si vestì ed uscì.
Al piano terra, la portierà, arrossata in volto dalla fatica del pulire, le rivolse un bel sorriso:
“Come va, signorì? L’ha già incontrato er novo vicino? Ormai è quasi ‘n mese che è arrivato. Com’è? Fa puro lui casino come quei due che se ne so’ annati? Si disturba me lo dica che ce penzo io a parlà cor padrone de casa!”.




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