Il malinteso della vita, per quanto essa possa essere concertata fra spazi immensi ed infinite emozioni, sempre ci schiaccerà: tutti la chiamano comunemente sofferenza; basterebbe un ritratto, una semplice palinodia, per dimostrare come ciò che si sente, come ciò che si compenetra momentaneamente con la nostra esistenza, sia un’effimera vanità, quasi una nullaggine estrema. L’idea d’allietarsi s’un lido, coricandosi sulla rena cocente, e con il caldo che lieto affiora dalle profondità della terra sino alla nostra pelle, è un momento, un misero istante: la bruma che risale i colli nel primo mattino e che, verso il meriggio vernale, si dirada per divenire una verzura tranquilla e lieta, circonfusa da piccoli fiori dei più dolci colori, è un gioco perverso della nostra mente.
Ogni cosa segue un corso atrocemente stupendo ma la differenza che intercorre fra la vita, fra quella che s’intende come tale poiché vissuta, e la gioia d’essa è sostanziale: joie de vivre, no?
Una misera idea, un pensiero - anzi, un ripensamento -, ci deteriora sino all’estrema soglia dell’annullamento: la differenza, quindi, fra la prima e la seconda è esigua ed indistinguibile.
Non capiamo ancora che siamo tutti anime schiave d’un mondo che non percepiamo come nostro: si contempla il mistero della vita attraverso l’utilitarismo del possibile, come se la bramosia movesse le nostre stesse mani - come se non esistesse una volontà individuale e sincera - e ci spingesse verso quel limite invalicabile, quell’atto implume ma candido, dell’usurpazione eterna della vita stessa.
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