Nella mia infanzia ho avuto un’amica con cui passavo metà, se non più, dei miei pomeriggi. Mi capitava spesso di fermarmi a casa sua, anche durante le sue lezioni pomeridiane con un insegnante che le impartiva lezioni di Letteratura.
Più che Letteratura, alla sua età, leggeva novelle e poesie, di tanto in tanto le doveva studiare a memoria. I genitori della mia amica avevano grandi aspettative dalla figlia, siccome nella loro famiglia si erano susseguite generazioni di scrittori e giornalisti più o meno noti.
Ogni volta che l’insegnante arrivava portava con se dei vecchi libri grigi, non troppo spessi, decorati con scritte che un tempo dovevano essere argentee. La mia amica prendeva il libro, apriva anche abbastanza volentieri le mani per afferrarlo, ma la sua attenzione restava chiusa, ristretta nella sua mente vicino alle bambole e ai giochi nella sabbia. Apriva il libro e leggeva né bene né male le parole che io ascoltavo, seduta poco lontana da lei nel giardino dove si svolgevano le lezioni nei mesi caldi o tiepidi. Mi dava l’impressione che avrebbe desiderato essere al mio posto: mentre leggeva aleggiava stentoreo un senso di fanciullesca gelosia, uno sguardo triste e malinconico, lontano dall’idea comune di felicità. Ogni tanto andava troppo veloce e con voce troppo bassa perché io riuscissi a capire che cose stesse dicendo, ma non durava molto; l’insegnante la riprendeva e la faceva iniziare la lettura da capo.
Andava avanti per circa un’ora la lezione e l’alunna sembrava prosciugata da tutte le forze, energie che fino a pochi minuti prima la aiutavano a correre e a giocare spensieratamente.
Al termine del lavoro uscivamo e tornavamo a giocare come prima, assieme agli altri ragazzi del quartiere.
Capitò quella volta che, giocando insieme a altri tre o quattro bambini nel cortile della mia amica, fosse arrivata l’ora della lezione. Mi ero fermata per l’ennesima volta nel mio angolo, continuando a giocare silenziosamente vicino a un altro ragazzo di poco più piccolo di me. Guardandolo sembrava incantato dalle parole che sentiva leggere dal maestro. Non l’avevamo mai visto a scuola, i grandi dicevano pure che non era stato registrato all’anagrafe e che era nato in casa, non all’ospedale come ogni buon cristiano di una famiglia che si rispetti. Lo si vedeva sempre per le strade del quartiere e ogni tanto capitava di incontrarlo in chiesa insieme ai nove o dieci fratelli, oramai nessuno teneva più il conto.
Era rimasto a bocca socchiusa mentre ascoltava il mito di “Eco e Narciso”, con occhi sgranati ed orecchie ben aperte. Ogni tanto, durante le pause della lettura, tirava un sospiro; sembrava quasi che fosse stato lui a leggere, non altri. Mi dimenticai di giocare guardandolo ma, poi, improvvisamente, la voce del maestro echeggiò furiosamente: «Che cosa hai da guardare, lurido moccioso? Stai ancora a mendicare per strada dalla mattina alla sera?».
Il bambino abbassò lo sguardo mentre le urla continuavano: «Si può sapere perché questa bestia non è stata portata ancora via? Imbarazza la signorina!». Non servirono altre parole; il ragazzo si alzò e corse via scalzo, così com’era entrato in cortile.
Anni dopo mi allontanai dalla città della mia infanzia, ritornai anni dopo una volta conclusi gli studi. Sulla vecchia strada riconobbi quel bambino: ora suonava una violino scordato e mal tenuto, strimpellava accanto a quella che, un tempo, doveva essere la mia amica. Era rannicchiata per terra, la faccia sporca e le unghie nere, il viso che sembrava molto più vecchio di quel che era realmente; la sua famiglia doveva essere andata in rovina, forse uno o due anni dopo che persi completamente i contatti con la mia amica a causa del trasloco.
«Dì la favola di Eco e Narciso.» le chiese il suonatore.
«Non la ricordo.» rispose lei.
©Matteo Bona, Pteroma delle Primavere di Marmo.
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