Pubblicato il 08/04/2016 21:13:23
Il giardiniere dell’ospedale
Martedì sera, mentre camminavo tra i padiglioni di un vecchio ospedale dopo una giornata trascorsa nel tiki-taka di istanti inesplosi, ho percepito il dolore fuoriuscire dal carapace del nosocomio, lo stillicidio delle clessidre battere il polso delle preghiere, la pioviggine delle carezze inondare le nuche amorose, la speranza dei corpi accalcarsi sulla battigia, come ballerine rivestite da piroette di rischio.
Era così potente questo sciamare che prima di entrare mi sono seduto su una panchina di pietra scheggiata nei giardini nascosti tra i padiglioni. Solo così l’ho visto, dentro un cespuglio, armato di cesoie e di uno sguardo adatto a captare il primo imbrunire. Solo così ho avvistato il giardiniere celato come un fachiro introverso, devoto a potare le foglie di un bosso.
Abbiamo iniziato a parlare dell’erba, dei fiori da poco sbocciati, del segreto dell’erica, dell’arsura capace del rododendro, di come una siepe si tagli a misura, delle api che stanno tornando, di un giorno di torrida estate sulla foce del fiume Danubio. Intanto, attorno a noi, passavano le persone indossando piccole lacrime stagne, avanzando piano come testuggini, mormorando oscuri referti, accelerando verso una sera normale di buona salute. Ogni tanto si sentiva il lieve rimbalzo di un maniglione antipanico e un camicie bianco che sospirava per scomparire in un cirro di nicotina.
Tutti anche se non lo sapevano, anche se non se ne accorgevano, anche se camminavano serrati in pensieri sì vasti, tutti segretamente erano grati a quell'esile giardiniere della Voivodina, che esercitava il proprio mestiere con zelo incessante, medicando le foglie più inferme per concimare a bellezza il giardino dolente, per serbare a misura di siepe una visione addolcente.
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