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Jeff Buckley: La promessa d’oro

Argomento: Musica

di Nadia Mozflower
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Pubblicato il 29/06/2011 12:05:25

Dal periodico letterario Atlantide
Anno II - n°10
Novembre/Dicembre 2002

“E’ la luna che chiede di restare
In tempo perchè le nuvole
Mi portino via in volo
E’ giunta la mia ora
Non temo la morte
La mia voce in dissolvenza canta
Dell’amore
Ma piange allo scorrere del tempo
Oh, tempo
Aspetto nel fuoco…”

(Grace)


Jeff Buckley è l’Orfeo degli anni ’90. Sapeva come cantare tutte le sfaccettature delle gioie e le sofferenze dell’amore, e non solo.
Attraverso la sua voce riusciva a dare attimi di beatitudine, come degli antichissimi canti celestiali. Come le grandi rock star che lo avevano preceduto, con la chitarra sapeva richiamare vecchi idilli. Jeff non era solo il figlio di un altro grande artista scomparso troppo presto (Tim Buckley: songwriter psichedelico dei fine anni 60); era una promessa d’oro che ancora poteva regalarci altre infinite emozioni…
Con queste parole non voglio ridurre tutto quello che il mio animo nutre nei confronti di questo angelo caduto dal cielo.
Non dimenticherò mai il suo sinistro mistero portato via dalle onde del fiume Mississipi, in quel maledetto giorno del 29 maggio 1997.
Non voglio che il mio articolo sia solo un memoriale a uno dei tanti cantanti rock, consacrati miti grazie alla loro prematura morte, ma voglio che sia un mezzo per trasmettere il messaggio che Jeff conservava nel profondo del suo cuore: “poter ricambiare quello che gli era stato donato”. A tal fine ripercorro il suo cammino musicale, o meglio, artistico.


Storia di un menestrello moderno

El Viejito (Il vecchio inteso come saggio) così lo chiamava la nonna materna, mosse i suoi primi passi nel mondo della musica strimpellando la chitarra da ragazzino. Dalla metà degli anni ’80 in poi fece parte di parecchie band (rock, heavy metal, reggae anche fusion) come musicista (chitarrista o bassista).
Le sue passioni musicali non avevano confini; ascoltava ogni tipo di musica che avesse un’anima: dall’emozionante Billie Holiday all’energica Edith Piaf; adorava gli ever-green Beatles, i leggendari Led Zeppelin, i sotterranei Velvet Underground, i decadenti Smiths e tantissimi altri nomi che hanno fatto grande il rock.
Era affascinato anche dall’opera e dalla musica classica. Amava mescolare tanti generi, rendendoli unici nella loro diversità. Coltivò l’interesse per il cantante pakistano Nosrat Fateh Ali Khan, grande maestro della musica Sufi, che ebbe modo di conoscere ed intervistare, nella metà degli anni ’90, per la famosa rivista “Interview”, fondata da Andy Warhol.
Un’altra grande e smodata passione era la letteratura; divorava romanzi e libri di ogni genere. I suoi amici ricordano che nei posti dove abitava, era sommerso sempre da libri invece che da mobili. Un arredamento insolito ma che sicuramente si addiceva molto alla sua persona.
Leggeva e componeva anche poesie. Partecipò ogni anno alla “New York City Poetry Marathon”. I suoi autori preferiti erano: Rainer Maria Rilke, Federico Garcia Lorca e Allen Ginsberg. Conobbe quest’ultimo in occasione della registrazione di un doppio cd tributo al grandissimo scrittore e poeta Edgar Allan Poe, dal titolo: “Closed on account of raries- Poems and tales of Edgar Allan Poe”, pubblicato alla fine del 1997, in cui artisti vari, attori e musicisti, leggono poesie e racconti di Poe. Jeff, grazie ai consigli del poeta beat Ginsberg, interpretò magnificamente il poema “Ulalume”.
L’anno precedente partecipò ad un lavoro simile, il cd “Kicks Joy Darkeness” dedicato ad uno dei padri della Beat Generation: Jack Kerouac. Per la lettura della poesia “Angel Mine”, interpretata da Inger Lorre (chiatarra, tastiere), suonò la chitarra e il sitar, usando anche la voce come fosse un sassofono. Ci sono altre innumerevoli collaborazioni con grandi cantanti, tra cui spicca il nome della celebre sacerdotessa del rock anni ’70 Patti Smith, nell’album Gone Again (1996).
Ritornando agli esordi, il 1991 fu un anno particolare. Realizzando un suo vecchio sogno adolescenziale, fece un salto dalla sua città natia, Los Angeles, a New York, la grande “meta”. Venne chiamato per un’occasione speciale, il concerto tributo al padre Tim. Fu lì che si fece avanti per la prima volta davanti ad una ricca platea, con un’esibizione da brivido, cantando “I never asked to be your mountain” e lasciando il pubblico, quasi tutti fan del periodo fine anni ’60 del vecchio Buckley, a bocca aperta. Conquistò in un primo tempo l’amore di questi, grati di questa viva eredità lasciata dal padre al ventenne Jeff. Ma lui non voleva questo, voleva affermare se stesso con le sue forze e con la sua musica. Non voleva finire nell’ombra del padre, con riconoscimenti sbagliati.
Nel frattempo il musicista Gary Lucas, già attivo nei circuiti alternativi di New York, gli chiese di unirsi in un suo progetto discografico. Jeff iniziò subito questa avventura, anche perché voleva suonare con persone che avessero delle affinità con il suo modo di fare musica. Così nacque la band “Gods and Monsters”. Riuscirono ad incidere alcuni brani, la celeberrima Grace e Mojo Pin, scritte a due mani dagli stessi Buckley & Lucas. Il sodalizio durò poco; per vari motivi il gruppo si sciolse. Allora Jeff ricominciò da solo il suo viaggio musicale. Suonò in tantissimi pub di New York finchè non trovò il suo punto di riferimento, la sua seconda casa, il caffè-letterario Sin-è, un posto modesto ma intimista. Qui trascorse un lunghissimo periodo, dagli inizi del 1992 alla fine 1993. Il locale Sin-è si trovava nell’ East Village, vicino all’appartamento in cui alloggiava ai tempi. Vi tenne dei concerti sia al pomeriggio che di sera; le sue esibizioni erano, per tutti quelli che lo ascoltavano, memorabili. Riusciva a ricreare un’atmosfera unica; il pubblico, tra una lettura e un caffè, si soffermava estasiato, si immobilizzava appena udiva la sua voce, accompagnata solo dalla sua chitarra o dal piano.
Proponeva covers e canzoni inedite; a volte leggeva poesie con una sorta d’innato lirismo. Tra una canzone rock o blues, lo si vedeva anche dietro il bancone del locale a preparare il caffè o lavare i piatti.
Per Jeff, “il juke-box umano”, come lo definirono alcuni in quel periodo, la maturazione artistica fu molto importante anche grazie al Sin-è, che rivisitò, come ospite speciale, anche dopo aver avviato la sua carriera. Di questa sua esperienza rimane il cd, distribuito da una piccola etichetta discografica, dal titolo “Live at Sin-è” con due sue canzoni (Mojo Pin e Eternal Life) e due covers (Je n’en connais pas la fin di Edith Piaf e The way young lovers do di Van Morrison). Nella primavera del 2003 verrà pubblicato un album contenente molte performance di quel periodo, con il titolo “Cafè days” .
Durante uno dei tanti live al Sin-è venne notato da un tizio della major Columbia, il quale gli propose un contratto discografico. Finalmente gli si presentava la possibilità di realizzare il suo album di debutto, un album intero. Di lì a poco riuscì a formare la sua band. Nacque così, in quattro mesi, il grandissimo capolavoro, “Grace”. Dieci sono le canzoni che compongono l’opera (durata di 51 minuti). Questo album è un miscuglio di forza e sensibilità; ogni singola canzone, pur nella sua diversità, appartiene all’altra. Non è solo rock. E’ l’anima di Jeff Buckley fatta musica. “Grace” è stato definito, soprattutto dopo la scomparsa di Buckley, uno dei migliori album rock al mondo.
Io considero “Grace” l’apoteosi onirica del viaggio interiore di Jeff. La sua uscita avvenne nell’agosto del 1994, prima in Europa e poi negli Usa, Australia e Giappone. Dopo qualche mese Jeff cominciò dei lunghissimi e intensi tour nazionali ed internazionali, dall’Australia all’Italia, dal Giappone alla Francia. Partecipò anche ad alcuni tra i più famosi festival estivi organizzati in Inghilterra. Il suo meritato successo fu accompagnato da riconoscimenti tributatigli da ogni parte del mondo.
Durante i concerti scaturiva la sua massima espressione artistica, questo perché in queste occasioni cercava di dare tutto il meglio di sé. Trasmetteva grandi emozioni anche quando proponeva, in versione personalizzata, brani di altri artisti, perlopiù brani degli Smiths, dei Big Star, degli MC5, di Leonard Cohen, di Nina Simone e tantissimi altri.
Sul palco Jeff saltava, ballava, gridava, richiamando alcune emblematiche esibizioni di Jimi Hendrix. Era come una visione presa dal passato, riemersa grazie alla potenza e alla capacità di questo piccolo genio dalla voce divina, che in tal modo lasciava allo spettatore un ricordo indelebile. Un concerto di Jeff Buckley equivaleva ad un rito di pura magia, risultato di tutte le anime lì presenti, che all’unisono vivevano qualcosa di autentico e speciale.
Trascorse molto tempo dalla prima uscita di “Grace”, prima che egli se la sentisse di realizzare delle nuove canzoni per un secondo album. Finchè si spostò da New York alla città del rock’n roll Memphis, la sua residenza definitiva. Qui nacquero parecchie canzoni, che intendeva sviluppare per il nuovo lavoro. Di questo periodo della sua vita si sa solo che, insieme ad amici musicisti, si esibiva in giro per i locali, proponendo anche nuovi pezzi, mantenendo l’anonimato poiché negli ultimi tempi la notorietà lo ingabbiava. Il periodo in questione è la prima parte del 1997. Non molto dopo avvenne la tragedia. In un tardo pomeriggio di primavera, prima di raggiungere degli amici per una cena si fermò, insieme al suo assistente-roadie, davanti al Wolf River. Come di solito, Jeff fece il bagno con addosso i vestiti, mentre il suo amico rimase sdraiato comodamente sulla riva. Ad un tratto il rosso tramonto svanì con il giorno e di Jeff non si vide più nulla. In quei brevi minuti passò anche un battello cosicché le onde si fecero più affluenti. Nei primi minuti del suo bagno, mentre Jeff giocava nell’acqua, la sua radio cantava a tutto volume “Whole lotta love” dei Led Zeppelin.
Il corpo venne ritrovato senza vita il 4 giugno, dall’altra parte della baia, in mezzo a dei rami vicino alla riva. Aveva solo trent’anni e tanto davanti a sé.

Nel suo testamento musicale ha lasciato una promessa d’oro che ancora ha molto da dirci.
Jeff Buckley non deve essere ricordato solo per “Grace”, ma per tutto quello che ha fatto.

Come sempre la musica dimostra quello che è: una delle più cure giuste che esistano a questo mondo. Può abbattere muri, superare limiti, compiere miracoli!
Ascoltando attentamente Jeff Buckley si può assaporare qualcosa che si crede perso: il gusto dell’Eternità.

Nadia LadyHawke
31 Ottobre 2002


DISCOGRAFIA UFFICIALE DI JEFF BUCKLEY:

LIVE AT SIN-E’ (1993)
GRACE (1994)
SKETCHES FOR MY SWEETHEART THE DRUNK (1998)
MYSTERY WHITE BOY “LIVE ‘95-‘96” (2000)
LIVE AT OLYMPIA “1995” (2001)
SONGS TO NO ONE (2002)

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