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La miglior sembianza

di Matteo Bona
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Pubblicato il 13/05/2017 15:53:22

Forse ho sempre avuto la necessità di avere un personaggio con cui nascondere la mia vera identità. 

Forse per vigliaccheria più che per timidezza, e mi rimprovero per ciò. 

Riconosco che le maschere abbiano un ascendente incredibile sulla mia persona, fisiche o metaforiche che siano.  

Ebbene, al fine di capirmi, credo che la forma di assoluta perfezione del nostro stesso ego risieda in qualcosa che ci è esterno, che ci rappresenta e che non ci appartiene parimenti. 

Una conformazione straniera, come un corpo estraneo che si poggia dolce sul viso, che si radica con fondamenta più forti del cemento. 

Quell’illusione concreta ci rende sicuri ed autorevoli, ci rende ciò che vorremmo essere: qualcosa che non siamo. 

Una sola parola: aspettativa

Ciò ci viene imposto, questo ci viene chiesto in quanto cittadini di un mondo che forse, almeno questo, non ci appartiene veramente. Esso appartiene alla totalità, spaziale e temporale, e non si ferma per le necessità di un misero mercante di tele di vita

Io sono in balia di qualcosa che posso portare, che indosso ogni giorno, ma che - per fortuiti ed inconcepibili avvenimenti - non sento veramente mio

Ma cosa diamine è veramente mio?

Parlare di proprietà di spirito mi sembra un sacrilegio unico, se non titanico. 

Ciò che mi appartiene è tutto ciò che non è già stato posseduto da altri, oppure ciò che altri non condividono per morale, etica o buon senso; forse è proprio quest’ultimo a tradire la libertà di cui la vita si dovrebbe vestire, ma credere che la visione comune sulla normalità non influenzi tragicamente la vita di tutti, e quindi anche la mia, sarebbe una stupidissima visione utopistica della realtà. 

Di per sé tutti questi vincoli sono nullaggini, piccolezze ironiche di una mente cinica, paragonate al sontuoso vincolo della vita: nessuna anima che ha marciato su questa terra, e ribadisco nessuna, s’è assolutamente sentita libera per l’intera sua vita. 

Sono una maschera indossata milioni e milioni di volte, e quindi non sono una mia maschera. 

Potessi strapparmi dal volto la pelle, sfigurarmi le carni, sfilacciarmi i muscoli che ricoprono le gote e l’intero viso, sradicare il mio naso sino alle radici ossee, se potessi  farmi uno scalpo sino a raschiare con la lama il cranio: cosa troverei? 

La maschera che veramente tutti indossiamo. La maschera di colei che ci accoglierà giunta la fine vera. 

Siamo tutti profeti di una religione che non ci ama. 

Ciò che gli altri si aspettano da me, quello che veramente anelano dalla mia persona, non posso espletarlo, poiché non sono io quello a cui interessa compiere ciò che mi viene posto innanzi: è la maschera. 

La persona sociale è una maschera della persona stessa nello stantio teatrino dell’esistenza; ma la vera persona, quella inconscia e sincera, non esiste veramente oppure, nella più cara delle ipotesi, è frammentata. 

Spezzettata in milioni di particelle emotive, o effettivamente carnose, che riassumono sprazzi di un individuo inconsapevole. Questi bozzetti divengono le uniche forme di esistenza, le uniche bellissime speranze: le motivazioni più valide per posare, anche se per pochi istanti, la maschera sul comò. 

Forse questo personaggio è un modo per comunicare al mondo che l’identità di ognuno di noi è tutelata da forme esterne di noi stessi, come se una rosa - infelice della propria fioritura - decida, proprio contro Natura, di trasmutarsi in un crisantemo, od in una peonia, od in un gelsomino. Come se le lussureggianti foreste tropicali divenissero troppo timide per compiere il loro arcano compito di polmone mondiale, decidendo così, secondo il volere e la necessità di terzi, di trasformarsi in carta. 

Questa tutela non è veramente sincera.

Io sono una maschera di me stesso, creata ad hoc per la paura dell’atroce aspettativa, generata per difendermi necessariamente contro natura dai miei consimili. Sono un gigantesco costrutto paradossale, un edificio appena edificato che rischia di crollare, il tempio dell’ipocrisia poggiante su esili colonne di polistirolo, tinte con la tenue vernice dell’incoerenza. 

Che sia forse un gioco ridicolmente malato? Che forse sia un pretesto per celare la codardia di tutti noi esseri umani? 

Forse è proprio l’unione di questi che ha creato la famigerata aspettativa; quel veleno maledetto che corrode le identità. 

O che forse sia la vera unica identità di un uomo? 

 

Proprio ciò che mi appartiene è ciò che non mi appartiene assolutamente: la mia immagine non sono io ed io, tuttavia e dinanzi a tutti, sono immagine. 

Un’idea per essere umanamente interpretata, non concepita, deve avere un mezzo con cui attuarsi, rendendosi  leggibile e decifrabile dal compilatore dell’intelletto.

Una forma, una sostanzialità, non può - se non in fortuitissimi casi - divenire idea. 

Parimenti io: se fossi immagine prima d’essere sostanza allora sarei una negazione della mia stessa identità, e diverrei un ludibrio della materia e della logica. 

Ciò che mi appongo è una pellicola umanizzante, una sorta di cellophane costituito da polimeri di incoerenza e di invidia, che - pian piano - si lega troppo vivamente a ciò che sono in verità; e mi trasmuto, dicendo ciò che penso di essere e non ciò che sono veramente. Mi convinco dell’idea della mia forma e non della forma della mia idea. Questa è la differenza assoluta fra essere ed apparire, fra non essere ed essere in forma; allora sono portatore di una voce roca, profondamente lontana, che risuona dalle arcane volte dell’Umanità che conservo in me e che si strozza sommessamente nel timore della propria stessa identità; proprio come un canto smorzato da una lama che recide la trachea del cantore.


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