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Mestiere di donna e di scrittrice nell’Italia di fine ’800

Argomento: Letteratura

di Donatella Pezzino
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Pubblicato il 10/12/2024 13:49:46

 

Mestiere di donna e mestiere di scrittrice nell’Italia di fine Ottocento 

                               

                                        Donatella Pezzino 

 

 

“ Dio, com’erano noiose quelle serate d’inverno! Sempre i due vecchi accanto al fuoco; sempre lo stesso tavolino un po’ più indietro, colla stessa lampada, e le stesse zie cogli stessi lavori. Sempre mio fratello, imbronciato di non poter uscire a fare il giovinotto, che tirava certi sbadigli da destare un morto. Ed io e mia sorella, sempre occupate a ricamare fiori improbabili ed animali mostruosi, con tutta la precisione possibile, su qualche inezia elegante. 

Ogni tanto esclamavamo:” Oh Dio! Sono appena le otto!Sono appena le otto e mezzo!” 

E così via, di mezz’ora in mezz’ora, finchè veniva un’intimazione superiore del nonno, sempre impensierito del nostro bene, di smettere il ricamo perché ci affaticava gli occhi. 

“ Ma non sappiamo cosa fare” si rispondeva noi. 

“ Leggete.” 

“ Ma non abbiamo libri.” 

“Leggete una commedia di Goldoni.” 

Il nostro capo di casa era un uomo positivo…Appena noi ragazze eravamo tornate di collegio aveva messo l’Alfieri sotto chiave. 

“ Se leggono questa roba, addio lista del bucato” diceva; addio note della spesa; addio testa! Si mettono in mente di sposare un eroe e non si maritano più.” 

Ho riportato questo lungo passo di Maria Antonietta Torriani, grandissima scrittrice novarese meglio nota con lo pseudonimo di Marchesa Colombi, perché è in sé emblematico di una condizione epocale che riguarda tutte le signorine dabbene dell’Italia ottocentesca, senza distinzioni di carattere regionale; semmai dovessimo restringere il fenomeno ad una categoria, potremmo immaginare la scena poc’anzi descritta nel contesto di quasi tutte le case medio-borghesi. 

Il nonno di cui ci parla la Torriani aborrisce i romanzi; filtra tutte le letture, lasciando circolare per casa solo le commedie del Goldoni; reputa l’Alfieri “pericoloso” perché travia la mente delle fanciulle e lo mette “ sotto chiave.” Qual’era dunque la formazione culturale delle donne  e perché la società si mostrava tanto guardinga nei confronti delle donne che leggevano? 

Per poterlo comprendere, dobbiamo guardare nella sua interezza l’Italia di allora, appena uscita da un controverso processo di unificazione, con la sua industrializzazione nascente, con le sue lotte fra clero e laicato, con i primi fermenti del movimento operaio e la nascita di associazioni di ogni tipo; la donna si trova in mezzo, schiacciata da una società a tutti gli effetti maschile, che la considera debole e pericolosa e tenta perciò di ridurla come mai nella storia ad una condizione di penosa subalternità.” Delle donne si parla con diffidenza” scrive in proposito Lucetta Scaraffia ” si attribuisce ad esse, facili a cedere alle lusinghe della moda e delle novità, la principale responsabilità del processo di scristianizzazione in atto, mentre la Chiesa si assume il compito di tenere sotto controllo la loro natura…” Eppure tanta misoginia deve pur cedere il passo ad una visione realistica delle cose: la donna è ormai  l’unica carta da giocare rimasta in mano ad una Chiesa che non si rassegna a perdere terreno nei confronti della riscossa laica e secolare. 

Il Sillabo di Pio IX ( 1864 ) e successivamente l’enciclica Rerum Novarum( 1891)di Leone XIII rappresentano una decisa presa di posizione della Chiesa nei confronti della modernità, della quale i due papi danno una interpretazione a tutti gli effetti negativa. Contro questa “ Modernità” che fagocita le coscienze e le affranca dai pesanti condizionamenti della religione, la Chiesa cattolica non vuole restare a guardare: appoggiandosi sugli strati  più marginali, contadini e donne, getta le basi per la creazione di un “ cattolicesimo sociale”. In altre parole, i cattolici sono chiamati ad una attiva partecipazione alla vita della società laica e alla costituzione di una vivace opposizione. 

In questa situazione così delicata, il ruolo della donna acquista una grande importanza e agli occhi della Chiesa appare fondamentale esercitare su questa categoria sociale un efficace – e quanto mai invadente - controllo. La modernità, come già si è detto, può avere buon gioco ad affascinare la donna, geneticamente frivola e debole: ed è troppo rischioso se la donna si allontana dalla retta via, perché alla donna spetta l’importante e delicato compito di allevare la prole e tenere unita la famiglia. Con estrema accortezza, la Chiesa comincia perciò a far leva proprio su questo ruolo di moglie e di madre per poter riguadagnare il terreno perduto e ricominciare proprio dall’elemento base di ogni società: il microcosmo familiare. 

Tutto ciò prelude alla diffusione, ad opera della agguerrita propaganda clericale, del topos chiave della morale ottocentesca, quello che esalta nella virtù muliebre le doti di angelo del focolare: 

“ La donna in Italia è la regina del focolare e perciò appunto la famiglia italiana è la più morale del mondo. Da noi il santuario domestico non è stato ancora profanato dall’empietà e dalla licenza, perché la donna vi mantiene incontrastato il suo dominio e vi esercita liberamente le sue funzioni.” Così il gesuita Passivich difendeva, agli albori del Novecento, il ruolo tradizionale della donna contro l’incalzare del femminismo contemporaneo. Ed è solo una fra le tante voci cattoliche preoccupate di tutelare questo ruolo così minacciato: non dimentichiamo tanta letteratura didattica e formativa diretta alle donne italiane del secondo Ottocento. La grande fortuna editoriale della manualistica cattolica diretta alle donne dimostra che la Chiesa raggiunse pienamente il suo scopo.Nel 1867 a Milano veniva pubblicato il più diffuso fra questi manuali intitolato La donna cattolica: opera del gesuita G.Ventura, proponeva un modello di donna che fin dall’infanzia “ più che i puerili trastulli, amò le occupazioni proprie del suo sesso” , addirittura “bisognosa di freno nell’applicazione ad ogni genere di donneschi lavori” e per la quale “la volontà del padre era… un oracolo” e, anziché brigare in ogni modo per procurarsi un marito, o, peggio ancora, perdersi in fantasticherie amorose, attendeva “ con indifferenza…dalle disposizioni divine e dalla prudenza e dall’amore dei suoi genitori il suo collocamento.”Una volta sposata, obbediva in tutto allo sposo ed educava i figli secondo i più rigidi dettami della morale cattolica, vigilando soprattutto sulla loro purezza, tanto da farli dormire “ poco meno che tutti vestiti e colle mani accrocchiate sul petto”, staccandosi da loro solo dopo che si erano addormentati. Questa madre che avrebbe preferito i figli morti piuttosto che in peccato mortale ( sull’esempio di Rita da Cascia) , era anche un angelo di carità che si adoperava per i poveri. La propensione femminile  alla commozione, all’irrazionalità e al sentimento veniva dunque incanalata entro tradizionali e rassicuranti schemi comportamentali; un fenomeno che, in definitiva, trovava d’accordo anche gli anticlericali poiché la religione, sulla donna, non aveva tanto un peso politico, ma formativo, regolativo della condotta femminile.  

Ecco dunque che il libro di devozione diventa il libro “ideale” per la donna:” Sono pochi i cattolici, liberali ed illuminati, che sognano libri…che non siano libri devozione” scrive giustamente Michela De Giorgio nel volume della Storia delle donne - curato dagli storici francesi Duby e Perrot  - dedicato all’Ottocento. Dolci affetti familiari, cure domestiche, entusiasmo eroico per la religione e soprattutto vicende esemplari di figlie, spose e madri : questa era la materia che i pochi cattolici illuminati consideravano perfetta per interessare l’intelletto delle donne. Ma nel primo Ottocento siamo ancora lontani, in Italia, dal destinare simili letture al pubblico femminile: solo i libri di devozione e di preghiere dominano la produzione editoriale italiana di questo periodo. Bisognerà attendere gli anni 70 perché anche la nostra penisola possa vantare la sua prima generazione di romanziere nazionali, in aperta concorrenza con le francesi e le inglesi. Da donne, le scrittrici sanno come affascinare il pubblico femminile: non hanno certo vita facile, ma possono contare già da subito su un discreto numero di “fedelissime”. 

Nella seconda metà dell’Ottocento fioriscono Neera, La Marchesa Colombi, Matilde Serao, Contessa Lara: diventano presto degli idoli. La loro affermazione va di pari passo con una nuova presa di coscienza che, soprattutto al Nord, sfocia nei primi movimenti femministi e nella tutela delle donne lavoratrici. Pioniere come Anna MariaMozzoni si battono a favore dell’istruzione femminile e dei diritti della donna: molte sono giornaliste ( è il caso della stessa Mozzoni, e della sua amica e collaboratrice Marchesa Colombi) e animano di vivaci dibattiti svariate riviste come 

 “ La Donna”. 

Tratto comune di queste giornaliste e scrittrici è l’utilizzo di una lingua semplice, lontana da arzigogolamenti “ dannunziani” e attinta il più possibile dal parlato: ciò non soltanto per la mancanza di una formazione umanistica di tipo tradizionale, ma soprattutto per la primaria esigenza di essere comprese immediatamente dalle loro fruitrici, donne di tutte le età, di tutte le classi sociali e di vari livelli culturali. Non dimentichiamo che La Marchesa Colombi ricevette moltissimi biglietti di ringraziamento dalle “serve” quando le difese a spada tratta in una famosa lettera aperta a Matilde Serao. Contro quest’ultima, che aveva in precedenza invitato le sue lettrici a non fidarsi delle loro serve, naturalmente portate all’invidia e al boicottaggio verso tutti i beni delle padrone, La Marchesa Colombi  ribatte indignata: “Signore, che ci chiamano amiche, sparlano alle nostre spalle quanto le umili serve”. La difesa di questa particolare classe lavoratrice si inserisce, nella scrittrice novarese, nel contesto di una più ampia visione della condizione femminile del suo tempo: non solo “ angelo del focolare”, come vuole la propaganda misogina e cattolica, ma anche donna che vive del proprio lavoro. Emblema di questa ferma convinzione è il suo racconto Impara l’arte e mettila da parte, in cui la protagonista non pensa ad un buon matrimonio per il suo futuro, ma parte già dall’idea di vivere  della sua professione.  

Nel quadro di una temperie culturale fortemente permeata dalle correnti veriste, e complici le medesime frequentazioni di circoli e salotti, le scrittrici italiane di fine Ottocento sono più propense ad indagare fra le pieghe del disincanto che non a vagheggiare amori ideali. In Neera, Matilde Serao e Marchesa Colombi troviamo evidenziato soprattutto lo stridente contrasto fra il sogno della giovane donna borghese di un amore coniugale romantico e assoluto e l’amara disillusione che regolarmente le attende : ne è esempio brillante il celebre Matrimonio in provincia  della Colombi 

 ( ma il tema viene ripreso anche in molti dei suoi racconti, con la variante di tutte le possibili reazioni alla delusione, compresa l’automonacazione forzata) . L’infelicità femminile, alla quale spesso la protagonista soccombe, col suicidio o la rassegnazione, è un tratto saliente anche dell’opera di Neera: infelicità verghianamente dipanata in un ciclo di “ vinte”, la trilogia di romanzi Teresa-Lydia-L’indomani. Con ironia dissacrante e amara, Matilde Serao tratteggia dal canto suo ritratti di donne vittime della loro stessa virtù ( è il caso soprattutto della Virtù di Checchina, uno dei suoi capolavori). Altre autrici, soprattutto siciliane, di quegli anni,sono ancora avvolte dall’oblio, complice la mancanza di seri studi sulla loro opera ( consegnata per lo più ad archivi e biblioteche) e la contemporaneità di “titani” come Verga e Capuana, che le hanno offuscate completamente. Nomi come Elvira Cimino Buonafede ( Palermo,1872-1941), autrice attiva soprattutto fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primissimi del Novecento (  Donne americane, 1903; Verso la giustizia, 1909) e Gemma Farruggia, ( Palermo,1867-1930), la cui produzione è fortemente orientata, più che al Verismo, all’opera di D’Annunzio( specie in L’Idea, 1889; Follie muliebri, 1892) sono oggi, purtroppo, ancora sconosciuti al grande pubblico. Ma testimoniano che la letteratura femminile del secondo Ottocento non si ferma alla Serao, nello specifico del sud Italia; testimoniano l’esistenza di fermenti intellettuali  anche laddove il Verismo è per antonomasia considerato “maschile” ed imperante. Testimonia che ,non solo al nord, le donne cominciano a battersi per una maggiore autonomia culturale: non dimentichiamo che è donna la prima laureata in Scienze naturali a Catania nel 1915. Si tratta di ujna suora domenicana del Sacro Cuore di Gesù: ciò non stupisce se si pensa che i conventi hanno sempre dato alle donne  la possibilità ( che, per quanto limitata, era sempre una possibilità negata alla maggior parte delle donne laiche) di coltivare le lettere e di istruirsi, anche nei periodi intellettualmente più oscuri della storia. Negli anni ‘50 del XIX secolo, prima della soppressione delle comunità religiose voluta dallo Stato Italiano, non mancavano nei monasteri di clausura anche storiche che si destreggiavano con i documenti antichi del loro archivio e le opere di storia patria: ne ho recentemente scoperto un esempio in Suor Maria di Gesù Lo Giudice, badessa del monastero di Santa Chiara a Catania, della quale l’Archivio Diocesano cittadino conserva ancora una Storia dei monasteri del suo Ordine ( 1854 ). Niente di nuovo, invece, sul fronte della letteratura di denuncia del fenomeno delle monacazioni forzate: qualche secolo prima l’Inferno monacale della veneziana Arcangela Tarabotti aveva fatto scuola. Nel 1864 un’autobiografia antiagiografica, dai forti contenuti patriottici e risorgimentali, viene data alle stampe da Enrichetta Caracciolo: si tratta dei Misteri del chiostro napoletano, opera critica e politica che parte dalla denuncia della reclusione forzata per evidenziare poi, nel contempo, tutta una serie di comportamenti estremi e paradossali tipici della religiosità del tempo. E anche qui il Verismo fa scuola, fornendo all’autrice i mezzi per  smascherare, a volte con amara brutalità, certe ipocrisie “teatrali” della società in cui vive. 

  

   

  Bibliografia 

                                                                            

  - AA.VV., La Marchesa Colombi, una scrittrice e il suo tempo,                   Novara, Interlinea Edizioni, 2001 

  - AA.VV., Donne e Fede, a cura di L.Scaraffia e G.Zarri, Roma-Bari,              Laterza, 1994 

  - AA.VV., Storia delle Donne, L’Ottocento, a cura di G.Duby e 

                                                 M.Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991 

 


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