Pubblicato il 19/10/2010 12:00:00
La poesia, per Marco Furia, è prima di tutto un luogo di sonorità: i lemmi più comuni, disseminati lungo i versi del poemetto dal titolo così palesemente offerto come chiave di lettura, sono infatti tutti inerenti al campo semantico della musica. Ritmo, melodia, musica e, appunto, pentagramma, danno luogo a delle iterazioni che non diventano formule topiche solo grazie alla varietà dell’aggettivazione, così che i versi sembrano costruiti, come certi brani musicali, intorno a minime variazioni sul tema, seguendo le sfumature dettate dal sentimento stesso della poesia, che costituisce l’unico soggetto d’ispirazione, e su tali variazioni si innesta, a volte, qualche dubbio inquietante, che genera altri movimenti ed esplorazioni e, come in un brano di musica dodecafonica, l’autore utilizza i suoni, puntando più che ad una logica tonale, ad un agglomerato sonoro imprevedibile che susciti, piuttosto, un’impressione di totalità cromatica.
Si aggiunge alla gioia acustica anche quella visiva: una vivida luce accompagna suoni e ritmi dispiegando anche in questo caso una serie di varianti legate all’intensità ed alla durata. Occhio ed orecchio diventano, dunque, i naturali alleati del poetare, proponendosi anche quali punti forti della poetica di Marco Furia, secondo il quale la poesia si offre al pubblico di lettori come una rielaborazione del mondo visibile attraverso un impasto linguistico che del primo trattenga la luce e ne ridica la forza dinamica attraverso la vibrazione melodiose del secondo.. Se, infatti, anche le tenebre e la notte sono evocate, esse diventano territori di ispirazione e perciò anche di conoscenza e di novità creative,
Il poemetto di Marco Furia mi fa venire alla mente la poesia barocca di un Marini, ed in particolare l’elogio della rosa presente nell’Adone, sia per l’abbondanza delle immagini e della metafore, sia per la particolare fluidità della pronunzia poetica; ma c’è da dire che, mentre là si ricercava soltanto la meraviglia ( lemma, comunque, più volte presente nei versi di Marco Furia ) ed il poeta sembrava non avere altro scopo che riprodurre come in uno specchio la sontuosa bellezza della natura e del mondo, in questo testo, invece, come si legge nella prefazione di Mario Fresa, questi strumenti hanno la funzione di disegnare “un dialogo con una dimensione altra e sfuggente”, come se essi fossero specchi da cui le cose si riverberino all’infinito, come in certe prose di Borges.
Ogni tanto, infatti, l’autore sembra perdere la rotta all’interno del suo stesso labirinto di specchi e di suoni ed allora si pone delle domande dalle quali sgorgano altri versi ed altre domande, come a dire che la poesia, posta di fronte alle più profonde problematiche esistenziali, non può dare una risposta definitiva, e tuttavia può offrirsi come strumento di consolazione e di stupore.
Le grafiche di Bruno Conte con i loro sobri e misteriosi ritmi geometrico-chiaroscurali, talvolta sorpresi da inaspettate spezzature, sembrano accompagnare senza alcuna forzatura il dinamismo di luce ed ombra, superficie e profondità, di questo testo a cui il lettore deve abbandonarsi, dimenticando, se vuole davvero goderlo, ogni solito schema di ascolto e di giudizio.
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