Senza mai vera pace,
torno anche stanotte ai miei fantasmi,
ne ascolto la voce ipnotica, rupestre,
che a poco a poco si fa una e penetra
le imposte, fuori tempo, inarrestabile.
È bastato che morissero i miei,
e i ricordi
sbattono le ali, uccelli neri
che mi osservano, più vigili di un faro,
da un cielo ulteriore, interiore.
All’improvviso
filtrata l’aria Kierkegaard mi appare,
spettro fluttuante fra lo specchio e il letto
che apre le porte dell’Incomprensibile.
Mi parla, scavato dall’angoscia,
e io rimango lì, sospeso a mezza via
in uno spazio ostile fra discorsi e rimorsi.
Poi la sua gobba si trasforma in una nuvola.
La nuvola,
in un punto di domanda.
Chiudo la luce.
E tutti ‒ mamma papà gli uccelli Kierkegaard
la nuvola io stesso ‒
ci inabissiamo dentro a un’altra oscurità,
che non so dire.
da L'opera in rosso, Passigli, 2017, pag. 46
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