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Sulle orme della libertà

di Mariano Berti
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Pubblicato il 06/02/2017 15:23:40

Era un passista Vito Taccone, un formidabile arrampicatore. Pur non avendo mai vinto un Giro, aveva una marea di fan, molti dei quali andavano ad applaudirlo lungo i tornanti          alpini.

Abruzzese, di media statura, incarnava la tenacia di un’Italia che stava inseguendo quel Miracolo che modernizzava ma anche lacerava la società. Per questo piaceva a mio padre, lavoratore indefesso come lui, che si alzava presto al mattino per andare a rovesciare sacchi di cemento in una betoniera di una fabbrica di piastrelle. Di quel corridore, simbolo di un paese onesto e stakanovista, ero entusiasta anch’io e mi lasciavo trasportare dall’enfasi con la quale Adriano De Zan, telecronista della Rai al seguito del Giro d’Italia, ne narrava le gesta.

Taccone era uno scalatore puro. Pedalata dopo pedalata, dosando il respiro e le forze, inseguiva la sua meta come un lupo affamato, senza mai demordere. All’annuncio dello speaker, un boato si levava e tutti stavano col naso incollato allo schermo o l’orecchio alle radioline a transistor per non perdersi nemmeno un istante di quella che sarebbe stata una nuova epica impresa.

Era il mio idolo, anche se non era farina da far ostie. Quando iniziai a lavorare, il primo obiettivo fu la bicicletta, sportiva, ma non da ciclismo, perché mi serviva soprattutto per recarmi al lavoro. Aveva ugualmente le ruote sottili e il manubrio obliquo, come si usava in quell’epoca di rivoluzione industriale. Così, talvolta, sull’onda delle emozioni trasmesse dai campioni delle due ruote del momento, quali Adorni, Mealli, Zandegù, Van Looy, Anquetil, Merckx, Gimondi, tutta gente con un invidiabile palmares, anche noi quattro amici, di domenica, improvvisavamo delle gare a chi giungeva prima sui colli, inseguendo mete fisiche che rispecchiavano quelle interiori, non sempre facili da raggiungere.

Taccone, il Camoscio d’Abruzzo, come lo chiamavano i suoi compaesani, si allenava percorrendo le tortuose stradine della Marsica, che conosceva a menadito essendovi nato. Mio padre lo ammirava anche perché andava con i ricordi ai tempi in cui nella nostra casa c’era l’impellente necessità di sbarcare il lunario e bisognava arrancare sui sentieri della fantasia per inventarsi ogni giorno il modo di mettere qualcosa sotto i denti. Alfredo, mio padre appunto, aveva meno di vent’anni quando, con mio nonno Giovanni, trasportato sul ferro della bici e due amici imbianchini, partendo da un paese vicino a Treviso, era andato a Figline Valdarno a prendere accordi per lavorare il podere di un signorotto. Erano state le sorelle di mio nonno, Suore Stimmatine, a offrirgli quell’opportunità, ma le condizioni erano proibitive dato che la carenza d’acqua non permetteva un sufficiente raccolto che compensasse l’immane fatica di lavorare esclusivamente a braccia un terreno inaridito, perciò, a malincuore, rinunciò.

Ma la mia famiglia di allora era tutt’altro che inaridita, povera sì ma ricca di quei valori umani di cui si è persa la semente. Vivevamo in una casa diroccata, in affitto, due stanze e un granaio adibito a stanza da letto, privo di finestre e del soffitto, cosicché, d’inverno, il sottotetto s’imbiancava per la brina. Era lì che io dormivo con le mie sorelle. Di suo, la mia famiglia possedeva soltanto un modesto terreno agricolo che non rendeva più di tanto, mentre in stalla teneva una mucca da latte, l’unico vero sostentamento, ma che ai miei genitori costava un immane sacrificio dato che quotidianamente si doveva elemosinare un po’ di erba per il suo nutrimento. Era dura la vita allora, e non solo per la nostra famiglia. Nessuno, infatti, a parte i proprietari terrieri, era così ricco da possedere del sovrappiù, eppure c’era tanta carità, tanta comprensione e solidarietà tra le persone. E non mancavano i sogni da inseguire.

Mio padre raccontava spesso di quella sua epica impresa verso la Toscana, terra dei più grandi artisti rinascimentali. Vi era andato emulando Alfredo Binda, campione del momento, partendo dal Trevigiano, territorio considerato depresso come tutto il Veneto agricolo, una regione che, negli Anni Trenta, vedeva intere famiglie emigrare verso le aree bonificate dal Governo al motto “è l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende, e il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori”. Migliaia furono quelle che lasciarono tutto, quel poco che possedevano, per trasferirsi nella terra promessa dal regime, anche se era tutto da dimostrare che fosse idilliaca come si voleva far credere, famiglie altrimenti destinate a tirare la vita con i denti, ma anche colà non migliorarono il loro tenore.

Fatto è che i quattro amici, inforcata la bicicletta prima dell’alba, partirono alla volta della Toscana con pochi spiccioli in tasca. Si era all’inizio di una primavera a cavallo delle due guerre mondiali. Si fermarono a sera a Ferrara per pernottare nell’antico convento dove era superiora suor Ugolina, una delle tre sorelle di mio nonno. Ben rifocillati dalle religiose, i tre più il trasportato ripartirono il dì seguente e, attraversata la Città della Garisenda, imboccarono la polverosa Porrettana, tutti gocciolanti per la calura e lo sforzo. Fortunatamente sul percorso si poteva beneficiare di un po’ di fresco emanato dalle piante che lambivano la bianca arteria senza asfalto. Pochi erano i veicoli motorizzati che vi transitavano, rispecchiando la modesta economia del tempo. A percorrerla erano principalmente autocarri militari che trasportavano truppe in un’epoca in cui la Patria, influenzava la gagliardia dei giovani per costruire il suo glorioso impero. Era un’illusione.

Fatto è che percorso un buon tratto di salita, con una fatica immane, quando mancavano poche centinaia di metri al passo della Futa, sarà stato che le buche non mancavano e sarà stata la complicità del peso del passeggero, la bicicletta di Alfredo si spezzò in due tronconi, rovinando a terra con i due uomini, fortunatamente senza gravi conseguenze per loro. Che fare?Imprecare non si poteva, perché era tutta gente con timor di Dio. Mio padre non si perse d'animo e adocchiato un vigneto, con due balzi salì su quel terreno, divelse una palina da uno dei filari, strappando pure del filo di ferro, con cui unì alla bell'e meglio i due tronconi della bici così da poter proseguire il viaggio. Non potendo più montare in due sul precario mezzo, a turno si pedalava o si camminava, dandosi il cambio. Giunsero così a Calenzano, al convento dove viveva un’altra sorella del nonno. Il dì seguente, fatta saldare la bicicletta con i pochi spiccioli che avevano in tasca, poterono raggiungere Figline Valdarno, oltre Firenze. Non erano persone particolarmente istruite, ma la necessità e la voglia di migliorare stimolava la loro fantasia.

 

Non deludeva mai Vito Taccone, semmai a deludere erano quelli che governavano perché non riuscivano ad interpretare il bene comune nel periodo di quel Boom economico che si stava ormai allontanando anche grazie ai loro continui dissidi. La media dei governi era di pochi mesi: una vergogna nazionale. Litigavano sempre su tutto: democristiani, comunisti, socialisti, liberali, socialdemocratici, repubblicani, missini, e un lungo elenco di partitini, anche all’interno dello stesso partito, dato che si distinguevano in correnti, per la sete di poltrone e di gloria. Era la democrazia, si diceva, ma non sembrava una corsa a chi voleva avere il privilegio di servire il Paese, anzi. Nonostante ciò la gente lavorava sodo e l’Italia si trasformava.

Mio padre, che ammirava molti leader della DC almeno quanto ammirava Taccone, stravedeva per il partito della croce e si entusiasmava quando sentiva parlare di libertà contrapponendola ai comunisti. Comunista, in un paese veneto di campagna, equivaleva a pecora nera, un’anima irrimediabilmente perduta. Al villaggio dove abitavo viveva uno dichiaratamente comunista, che non andava mai in chiesa, alle funzioni, era perciò additato come un poco-di-buono e soprannominato Vecio Tabaro. Era, questa, una forma di razzismo politico e religioso. Conseguentemente pure la sua famiglia era guardata con sospetto. Aveva tre figlie e un maschio, e questo, influenzato dal genitore, cresceva da vero discolo. Incarnava l’arma di vendetta del padre nei confronti dei concittadini conformisti e soprattutto dei preti che a suo parere plagiavano e assoggettavano la gente.

E venne il Sessantotto. Cresciuto in una famiglia di Chiesa, a vent’anni decisi di iscrivermi alla gioventù democristiana. Non perché mi sentissi particolarmente attratto, anzi, semplicemente seguivo gli amici e non volevo essere da meno. Loro sì che ci credevano veramente. Personalmente la politica che ho conosciuto non è mai stata da p maiuscola, avendo constatato che in quel campo rare sono le persone che hanno veramente a cuore il bene comune. Ho visto tanti rincorrere le poltrone perché sono ben remunerate, non tutti per fortuna.

Gli Anni Sessanta furono quelli in cui democristiani e comunisti si contrapponevano, soprattutto perché ad influenzarli c’era ancora la Cortina di ferro. Il Muro di Berlino era stato eretto da poco e il pericolo di una guerra nucleare era reale, epilogo dell’umanità. In sostanza, si contrapponevano due visioni: la libertà incarnata dal capitalismo americano e il materialismo rappresentato dal comunismo sovietico. Non ci si poteva permettere di essere neutrali di fronte a due concezioni della vita così radicali e contrapposte, sarebbe stato un peccato da confessionale. Sì, perché anche il parroco della mia parrocchia neutrale non lo fu mai: “Ricordatevi di votare bene, da buoni cristiani!”, raccomandava nelle omelie in vista delle elezioni. E qual era il partito cristiano se non quello che brandiva lo scudo crociato? Con quel simbolo la DC avrebbe dovuto rappresentare uno stile di vita etico e morale, e per un bel po’ tenne fede a questa sua vocazione, ma i buoni propositi iniziali nel tempo si guastarono finendo per rivelarsi un tradimento, una delusione. Per questo, pur simpatizzante, io democristiano del tutto non fui mai, essendo per natura uno spirito libero, libero di pensare e di conservare il senso critico. E ancora oggi sono su queste tracce: con determinazione inseguo i valori di libertà e di verità.


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