Pubblicato il 26/10/2010 12:00:00
Come in molti libri è rivelato, c’è un momento nella vita di ognuno, negli scrittori autentici soprattutto, dove il come e il quando parlare d’altro per dire di se stessi diventa esigenza oggettiva. Non chiedetemi perché. Per lo più si tratta di rifare la strada all’inverso e riscoprire qualcosa (la nostra ragione di essere) che si credeva perduta, o che forse si era perduta e improvvisamente ritrovata, originaria di un tempo in cui pure c’eravamo e guarda caso non eravamo presenti con noi stessi. Qualcosa che allora aveva per noi importanza relativa (al pari di niente), e che pure ci passava accanto ed era parte caratterizzante del quotidiano, ma che proprio perché apparteneva al quotidiano pensavamo non ci scalfisse nel profondo. A cominciare dai desideri tenuti nascosti a noi stessi, ai quali non avremmo mai dato ascolto, come ai sogni che pure dicevamo di comprendere e che non siamo stati in grado di interpretare, fino alle fiabe (oggi diremmo i nostri film) che sempre ci siamo raccontate, che abbiamo inventato a nostro uso e consumo e che, al pari di altrettante bugie, ci è piaciuto (e ci piace) raccontare. In primis a noi stessi e poi agli altri, magari ai nostri amici, ai nostri amanti, ai nostri figli, per dire a loro qualcosa di noi che non siamo mai stati ma che avremmo voluto essere, per migliorare la storia della nostra vita, la nostra fiaba (il nostro film), per ottenere da essi quel consenso che, in qualche modo (non saprei dire quale), ci avrebbe gratificato. Anche soltanto per sentirci protagonisti della nostra vita, in qualunque ambito, singolo, familiare, sociale, e dare così ampio credito alla nostra esistenza, che non sia stata (e che non sia) vana. Ma tutto questo che noi di noi non sapevamo essere (ma che pure conoscevamo), è paragonabile a quegli interstizi, invisibili all’occhio, che pure sussistono tra una spira e l’altra delle connessioni mentali, che tuttavia non permettono allo scrittore di far finta che non esistano, e che col passare degli anni assumono aspetti talvolta dirompenti di vere e proprie crepe. E che fare quando la crepa diventa dirupo, guelta, canyon immenso, soggetto a essere invaso dalle acque torbide che si sono accumulate col tempo, la cui precarietà di tenuta non lascia più vivere sereni, che quasi viene la voglia di un nuovo diluvio. O qualcosa pari a un uragano furioso che spazzi via tutto, quanto è stato finora, e che ci riporti all’originaria limpidezza (peculiare della mente del bambino), alla naturale freschezza della vita (sorgente di bellezza), all’ingenuità di quel “paesaggio dell’anima” che pure un tempo è stato nostro (di tutti noi), di quando non c’era l’imbarazzo delle convenzioni mal sopportate, delle ingiunzioni odiate, degli abusi e dei soprusi creati da menti contorte assetate di potere. Se è vero che il potere delle parole aumenta il senso delle cose, mi chiedo quale scrittore, pur andando alla ricerca di una qualche verità “altra” (non diversa dalla nostra), alla fine, non finisca per fare i conti con la sua stessa esistenza? Ecco, c’è tutto questo e forse tanto altro ancora in questo trattato di Emanuele Trevi dal titolo luminoso e altrettanto inquietante (quasi da farci paura), “Il libro della gioia perpetua”, che forse non avremmo osato leggere, ma che pure, il vero scrittore, mai e poi mai, avrebbe potuto non scrivere.
Nota elettiva: un cammino difficile non sempre allontana dalla meta, talvolta un sentiero nascosto riconduce alla piena luce di uno spiazzo, e il cielo aperto è là ad attenderci per un altro viaggio della nostra “fantasia”. È allora che il racconto prende nuova forma, si dilata, si estende, assume linfa da tutto quanto avevamo abbandonato negli interstizi delle nostre connessioni mentali, che finisce per ricongiungersi con gli altri racconti che non abbiamo ancora scritto, e che pure danno forma al romanzo della nostra vita.
Nota critica: l’indagine interiore dello scrittore crea una cornice eccessivamente marcata in questa storia che mostra lo stupore e lo sgomento dell’infanzia, quasi un voler cercare se stesso in una realtà alla quale forse avrebbe voluto appartenere (?). Una fantasia terragna quella del Trevi scrittore di questo romanzo, che penetra negli interstizi grandi come crepe, dove costantemente, pagina dopo pagina, afferma la propria rigenerazione.
Passaggi: “Il passato non è solo ciò che perdiamo irrimediabilmente, ma anche qualcosa di oscuro e pericoloso, che con pazienza ci aspetta dietro l’angolo, sapendo che prima o poi finiremo col passare di lì”. “Non so come esprimermi altrimenti: il Libro è privo di qualunque significato – ed è in questa purezza assoluta (simile a quella di certi folli) che risiede la sua forza. Ogni libro, in una certa misura, può essere frainteso. Ma per il solo fatto che è possibile fraintenderlo, un suo senso deve pure esistere!”
Accostamenti letterari: Elias Canetti di “Auto da fé”, Claudio Magris di “Microcosmi” e “L’infinito viaggiare”, Orhan Pamuch di “Istanbul”.
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