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Carlo di Legge sul Manifesto Empatico di Lerro e Pelliccia

Argomento: Letteratura

di Menotti Lerro
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Pubblicato il 21/09/2024 13:13:56

Articolo di Carlo di Legge (scritto il 12 luglio 2019).

Il "Nuovo Manifesto sulle arti" di Menotti Lerro e Antonello Pelliccia e l'auspicio di un nuovo atteggiamento tra poeti e artisti.

(Lancio ufficiale presso lo Storico Caffè Letterario “Giubbe Rosse” di Firenze in data 27 febbraio 2019, h.18.00 - con: Omar Galliani, Giusy Rinaldi, Vittorio Santoianni, Rolando Bellini, Umberto Rovelli, Gisella Gellini, Bernardo Lanzetti, Franco Mussida, Sandro Malevolti).       

- Il Prof. Menotti Lerro, che si trova a compiere una traiettoria d’esistenza anche oggi non improbabile, è un giovane poeta e coltissimo letterato, che, nato nel cuore del Cilento, a Omignano a due passi da Elea, oggi insegna lingua e letteratura inglese allo storico Liceo “Giovanni Berchet” di Milano e altri istituti universitari. Ho avuto occasione di incontrarlo per la seconda volta sabato 29 giugno alla presentazione del “Lunario di desideri” curato da Vincenzo Guarracino (altro colto cilentano emigrato al Nord, oggi affermato critico letterario) per l’editore De Felice, a Vallo della Lucania: nonostante l’orario antimeridiano, piuttosto irrituale, la sala era affollata, a testimonianza della buona organizzazione della Prof. Giusy Rinaldi, nota animatrice culturale a Vallo, e dell’affetto che comunque circonda questi due notevoli – tra molti altri – uomini del Cilento, che lo rappresentano coltivandone la memoria antica e fondante nella storia della cultura occidentale.

Quanto al progetto del “Nuovo manifesto sulle arti” qui riportato in allegato, e che il Prof. Lerro mi ha chiesto leggere dopo l’incontro di Vallo, oltre a condividerne le linee essenziali, aggiungo le seguenti mie osservazioni, come mio contributo, richiesto e che di buon grado offro al dialogo e alla diffusione dell’iniziativa.

  • Lerro scrive che l’arte è solo apparentemente divisibile: non posso che essere d’accordo, con una precisazione: che la poesia, senza per questo nutrire sentimenti di egemonia sulle arti, le riassume tutte in sé. Si pensi alla musica: ma la poesia è all’origine anche suono – della voce – e ritmo. O si pensi alle immagini, quelle della pittura e della scultura: quando si evoca Wittgenstein e la sua teoria del linguaggio “pittografica”, o “rappresentativa” espressa nella versione più nota nel Tractatus, s’intende che alle parole corrispondano cose. Ora, da Ludwig Wittgenstein a Giambattista Vico il passo non è breve, ma la teoria del linguaggio espressa nella Scienza nuova, pur muovendosi in altro contesto, torna proprio a questa tesi. Vico non dice: la cultura nacque dalle arti, ma dice piuttosto: tutte le scienze, a suo tempo, nacquero in forma di poesia, tale fu la zona d’incubazione della mente limpida e pura (nel senso che Vico intende) di fronte ai violenti impatti provenienti dalle forze della natura e dal mondo quotidiano. L’arte è solo apparentemente o anche di fatto divisa, ma la poesia include tutte le potenzialità delle arti. Un giovane non viene sgomentato di fronte a tale “pulsione” di abbracciare la totalità delle arti; un uomo più avanti nel ciclo d’esistenza, come me, non può fare altro che rilevare, quanto alla sua esperienza, come le arti si affaccino, se non tutte, almeno in parte, a prendere corpo creativo (intendendo che anche il suono sia corpo).
  • L’arte non è un momento di espressione gratuita d’una pulsione di creatività non meglio qualificata, quando sarebbe “fondamentale” l’esigenza di studiare, di “ripartire dai classici”. La realtà dell’artista naïf riguarda un’eccezione, o poche, occorre comunque di volta in volta considerarle meglio. L’arte dev’essere qualificata, colta; e non è questione, si badi bene, se tale sapere si acquisti nelle università, o fuori. Dice Lerro: “la poesia ha bisogno di talento ben coltivato attraverso uno studio intenso capace di esaltarlo”. In linea di principio, si può coltivare gli studi ovunque, nelle sedi accademiche o a casa propria. Oppure li si può disattendere, e tradire lo spirito, ovunque, come è sotto gli occhi di tutti.
  • A proposito di studi classici, è un fatto noto che poeti del Novecento (penso a Quasimodo …) siano stati cultori di studi classici, e che molti non lo furono affatto, anzi provengono dagli studi più disparati, e la stessa cosa si mostra anche oggi, quando ci vediamo circondati e attraversati da buoni versi che ci provengono da amici formati certamente nelle università, ma negli studi scientifici, non in quelli letterari (peraltro la loro formazione nelle scuole fu spesso, ma non sempre, nei Licei). La questione non è: il poeta è naif, artisti si può essere allo stato selvaggio ed efficace; la questione è: il poeta ha quale cultura? Forse egli ha avuto contatto con la tradizione classica per un periodo più o meno breve, poi può essersi “specializzato” in ben altro.
  • Da questo punto di vista, e per tacere delle altre facoltà universitarie, direi che è una fortuna che la poesia in Italia sia così “democratica” da essere coltivata in una serie di punti (più o meno luminosi: è la contingenza storica), individui e centri, che non hanno affatto riferimento nelle università, se non eccezionalmente, ma ovunque. Si veda, al contrario, la situazione della filosofia, che si studia in ogni accademia, ma che non fiorisce affatto, né può farlo, dal momento che a pochi brillanti ingegni filosofici universitari, noti in campo nazionale e oltre, corrisponde una massa di mestieranti coinvolti tutt’al più nelle microspecializzazioni degli studi storici, non nella filosofia. Se una volta la filosofia andava povera e nuda, oggi è misera in altro senso; oggi è il turno della poesia ad essere povera ma, lo ridico, forse è una fortuna.
  • La veloce circolazione dell’informazione oggi, dice Lerro, fa in modo che si possa “clonare” ed essere clonati da idee, da persone che si trovano sull’altro lato del pianeta, in tempo reale: bisogna saperlo. Ma anche vederne il positivo: lezioni e studi d’altro, questi davvero a disposizione del genere umano, perché con nostro profitto possiamo assimilarle e nutrirci, ci pervengono presto e bene. Importante il caso esemplificativo che Lerro cita, quello di T. S. Eliot, che viene mediato e “portato” da Praz a Montale rispetto alla tecnica poetica del correlativo oggettivo.
  • Per quanto riguarda la lunga citazione di Lerro ripresa dal critico e fraterno amico Antonello Pelliccia, mi sembrano suggestive le idee della “multidisciplinarità come metodologia essenziale della lettura della storia dell’arte”; dell’artista come “regista … ma anche mediatore tra le varie arti”, che “attraverso il suo lavoro, contestualizza il background storico-politico e culturale della sua epoca”: domando, incuriosito, per saperne di più: in qual modo? Involontariamente testimoniandolo; oppure volutamente interpretandolo; o come?; negli scritti di estetica dei maggiori autori del Novecento questo luogo non è assente, ma diversamente trattato; tutto, credo, in vista dell’acquisizione d’una nuova consapevolezza da parte dell’artista, che sia dotato di strumenti critici del proprio operare individuale-sociale.
  • Mi sembra che già avvenga il “confronto diretto tra l’artista e il visitatore”, che avvenga comunque, anche, sia pure sotto la forma del disinteresse e della mancata risposta del visitatore oppure, se va bene, come suo coinvolgimento in varie forme e gradi.
  • Della massima importanza, invece, l’invito-auspicio a “innescare reti di co-sviluppo riferite alla solidarietà tra artisti e alla interazione produttiva non solo tra artisti, ma anche con altri tipi di professionalità che possono sconfinare in molteplici ambiti”. Ecco, questo mi sembra un punto capitale: manca, io credo, un vero atteggiamento del genere, per quel che posso vedere, anzi sento dire e, nella mia marginalità relativa, a volta posso constatare come dicono, che l’ambiente della poesia è “tossico”. Sono del parere che una cultura della solidarietà tra artisti veri, nonostante notevolissime eccezioni, sia comunque tutta da sviluppare, al di là dell’usanza dei favori prestati o e ricevuti, per cui io guardo all’altro solo come procacciatore di relazioni e di occasioni; tutto ciò va a definire micro-poteri e pseudo-fazioni magari in lotta. Ma per cosa?
  • Si guardino in faccia, dunque, gli artisti-poeti e, come auspica Lerro, si sentano meno soli: facendo anche qualcosa di buono perché questa elegante idea della cooperazione tra artisti, interpretata nel senso più magnanimo oltre che producente, possa superare le brame selvagge, campanilistiche, particolaristiche e individualistiche. Ancora una volta: cui bono? Per cosa? L’arte, come scrive bene Antonello Pelliccia, “ha da sempre influenzato il clima sociale, ha individuato, suggerito e anticipato possibili soluzioni alle problematiche del vivere e del convivere”. Bene: allora quali modelli e soluzioni voglio proporre, se intendo davvero che l’arte e la poesia mi conducano ben fuori dall’eterno conflitto dell’homo homini lupus, che scatta non appena sia stato individuato un suo presunto, piccolo interesse nella cosa di cui si tratta? Di cosa stiamo parlando?

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