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di Rosanna Pasculli
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Pubblicato il 28/01/2017 10:20:24

La spiaggia assopita scopriva le sue nude spalle, mentre la luna osservava l’eterno scialacquio del mare che pareva lambire ogni angolo della città. Quell’arcano connubio di quiete e purezza offriva sconfinate visioni di infinito: un dipinto animato solo dal venticello di una notte di primavera, da contemplare forse da una finestra. Ed io ero lì.
C’era una casa accanto a quella distesa di sassi e sale, una palazzina bianca con tante finestre addormentate; solo una, delle due rivolte al mare, quella notte emanava una flebile e pallida luce. Con le braccia immobili sul davanzale, osservavo il moto costante delle onde: ognuna di esse avvolgeva i miei pensieri e li trascinava lontano, nell’immenso. Li conduceva sulla sponda opposta dello stesso mare, dove avevo lasciato una parte del mio cuore. Laggiù, dove le acque non accarezzavano riviere soleggiate e affollate di giorno, ma coste di nuvole grigie e macerie; non nidi d’amore di notte, bensì letti di morti.
Vagavo con la mente tornando al giorno in cui avevo attraversato l’orizzonte nel tentativo di sfuggire al caos di una patria che abbandona i propri uomini. Solo tanta confusione e pianti; poi la nuova terra.
Quando si è distanti dai propri cari ogni singolo anno pesa come decenni, eppure la vita deve andare avanti: questo mare ha accolto la mia speranza, e inebriata di essa, ho assemblato i cocci della mia anima ferita.
Il mio nome è Safiya. Nella mia lingua significa pura e tranquilla, proprio come il mare che si offriva a me quella notte. Mi nutrivo dei suoi profumi e mi addormentavo cullata dal suo canto; mi consolava l’idea che la stessa nenia accarezzava mia sorella, la gemella che avevo lasciato a casa. Da piccole io e Faiza correvamo al mare; le risa si confondevano tra spruzzi e abiti bagnati, e le ombre si allungavano sulla spiaggia oltraggiata dalla guerra.
In un terra straniera non era facile per me; una donna dal cuore grande, però, seppe comprendermi e aiutarmi, mi offrì un lavoro, volle che l’aiutassi in cucina, nella sua piccola trattoria. I suoi occhi castani mi ricordavano mia madre e solo in lei, trovavo la forza per ricominciare. Si chiamava Beatrice.
Con i bruni capelli raccolti e un velo leggero sul capo cominciai a lavorare; era piacevole accostarsi ai sapori tipici della nuova terra. Così appresi in fretta quel che c’era da imparare e con Beatrice al mio fianco trascorsero due anni.
Quando la trattoria volgeva il cartello sulla porta, se triste e insonne, ero solita andare al mare, questo anche d’inverno. Lasciavo che il mio petto fosse investito d’aria pungente, amavo quel vento che soffiava sul mio volto, immaginando che avesse attraversato le acque che bagnavano anche Faiza.
Fu così che una sera di gennaio le onde fremevano e urlavano e io con loro; un uomo passava di lì e accorgendosi che piangevo mi porse un fazzoletto. Bevemmo qualcosa in un piccolo bar lì vicino. Era bello. I suoi occhi blu mi fissavano preoccupati e un cappello di lana palesava qualche ciocca di grano dorato. Mi accecò come il sole dopo l’oscurità.
Un anno dopo festeggiammo insieme i nostri trent’anni e la vita mi regalava tante gioie, rese meno dolci dall’assenza di mia sorella. Sentivo che avrebbe dovuto raggiungermi.
Il giorno del nostro addio disse piangendo che non avrebbe potuto lasciare la sua terra e l’amore. Questo sentimento l’aveva colta appena tredicenne, rafforzandosi nel tempo e nello spazio di due ragazzini che la guerra aveva reso precocemente adulti.
Era il momento giusto per riabbracciarla; anche il suo uomo avrebbe avuto buone speranze di lavoro qui da me. Qualche buona amicizia avrebbe portato il messaggio lì, se mia zia non mi avesse trovata per prima.
Era zia Fatima, sorella di mia madre, una donna rigida e taciturna. Il suo volto era scarno, gli occhi segnati dal viaggio. L’accolsi gioiosa, la strinsi a me, ma non diceva nulla. Si affacciò alla finestra, quella che dava sul mare, e iniziò a parlare: la voce tremula disse cose che non capivo, intanto le onde torturavano i sassi che rotolavano sulla riva. Ad un tratto, fuori tutto si fermò, quei marosi furenti schiaffeggiavano solo me: mia sorella era morta. Un’ennesima esplosione, frutto marcio di quel mondo deturpato dalla guerra, le aveva strappato la vita, e assieme alla sua anche la mia.
Smisi di lavorare. A nulla servirono medici e farmaci; nulla poteva l’amore, al punto che lasciai andare il mio uomo.
Ferma in una dimensione astratta, il mio corpo esisteva solo in prossimità del mare: qui l’aria fresca alitava in me la vita. Diventavo un tutt’uno con quell’altera distesa d’acqua e, ancora una volta, la sua nenia mi consolava. Forse mia sorella ormai sfidava le onde e poteva afferrare i raggi del sole.
Un pomeriggio di primavera, a riva scorsi un lieve riflesso. Mi avvicinai e vidi la fonte di quel barlume tremolante: era una bottiglietta sepolta tra i sassi. Mi alzai convinta a seguitare, ma ripensandoci la raccolsi liberandola dalla sua prigione di pietra. Al suo interno c’era un foglio ripiegato e tutto sembrava tremendamente assurdo; era inverosimile pensare che si trattasse di un autentico messaggio in bottiglia. Vinta da maggiore curiosità, non senza fatica, estrassi il foglietto, lo aprii e con immenso stupore vi lessi questo messaggio e che interamente riporto qui:

«Accogli il mio riposo, finché un alito di brezza sulle acque risale; golose di vento virano vele varate dal piacevole tormento, mentre lento il mio corpo cerca l’infinito, lo trova e riemerge. Mi culla con la vecchia melodia, riflette la sua essenza nella mia.»

Era scritto in italiano, lo rilessi più volte senza estinguere in me l’assurda convinzione che appartenesse a mia sorella. Quelle parole solo a lei mi facevano pensare, e come era possibile che proprio io avessi ricevuto quel messaggio? Presumibilmente erano versi dedicati al mare che pareva essere l’unico destinatario. Un messaggio di un suicida forse?
Stanca di queste riflessioni tornai a casa col foglio misterioso nella tasca.
La stessa notte alcuni sogni mi turbarono: ero dispersa in mare e a tratti scorgevo mia sorella tra le onde; cercavo di afferrarle le mani, ma il moto impetuoso delle acque ci separava.
Sconvolta e decisa indossai una giacca e corsi verso il mare furioso. Cercai tra le onde: l’acqua era fredda e l’oscurità immensa. Mi lasciai vincere. Intanto la finestra dalla flebile luce osservava i marosi agitati.

Si raccontava una leggenda nel mio paese, quello che mi accolse, la storia di un legame indissolubile e del potere del mare: nelle notti di primavera, con l’alta marea si scorgevano due donne dai capelli corvini giocare tra le onde e gli spruzzi, creature quasi eteree che, poco dopo, svanivano negli abissi, mentre la luna silenziosa baciava il mare.
Ed io ero lì.

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