Pubblicato il 06/09/2015 13:23:07
Il gatto che non sapeva uscire
I gatti, si sa, s’infilano negli anfratti e quel giorno io avevo lasciato una breccia di porta socchiusa. Era un gatto piccolo e nero, di pochi mesi, uno dei tanti che battevano il giardino, metà selvatico, metà domestico, un gatto cresciuto senza anagrafe che aveva già imparato a conoscere la stenosi aortica dell’inverno.
D’improvviso sentii il suo miagolio salire le scale, inspessirsi di paura fino a compattarsi in un’aria da soprano. Lo scorsi correre con le zampine che derapavano sulla cera del pavimento in palladiana. Provai a riaprire la porta e a dispormi al lato opposto per indicargli la prospettiva, come un crepuscolare vigile urbano. Ma un demone gli mordeva la corsa e come un ossesso spingeva l’atleta a doparsi di slancio. Pazientai seduto qualche istante poi disposi un piatto di crocchette lungo la direzione della porta per sottolineare l’esistenza di un varco. Ma fu tutto inutile e il tempo invano passava e, dovendo uscire, pensai di lasciare la bestia dove stava. Mi ero già infilato il cappotto quando incrociai il suo sguardo atterrito, stranito, selvaggio e scorsi un vago terrore di figlio. Strano a dirsi, ma accadde allora uno scambio di vasta portata, un pareggio d’evoluzione un reciproco confidare nell’altro. A breve la sua corsa perse d’angoscia fino a placarsi in una specie di coltre calma rappresa. A passi pazienti mi avvicinai fino a toccargli il respiro. Adesso giaceva immobile e le vibrisse erano libellule in precario equilibrio sul dorso di un lago febbrile. Solo un passo ci separava e quando mi inginocchiai scorsi il suo sguardo soppesare l’azzardo. Allungai una mano fino alla pellicola delle ossa. Si ritrasse, ma solo per malcelata abitudine. Lo accarezzai dolcemente e sentii la schiena tremolare come il bucato dell'insonnia. Restammo a lungo sospesi a questa distanza, due soldati protesi in allerta. Non si mosse neppure quando, adagio, lo raccolsi per posarlo in giardino, il cuore ormai tutto incarnito al tenue costato d’uccello. Appena fuori lo lasciai e lui si divincolò leggero voltandosi due o tre volte come un condannato che non crede alla grazia.
Da quel giorno, ogni mattina, mi aspetta sull’uscio e mi scorta fino all’incrocio. Anche quando ritorno a casa con ritagli di sgombro e coda di rospo lui resta in attesa al suo posto. Come un portinaio di Manhattan conosce il disporsi degli insiemi e non manca mai di lanciarmi, da sotto il colbacco peloso, un felino cenno d’intesa.
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