Umberto Bellintani ovvero l'essenza delle origini
Umberto Bellintani di se stesso scriverà: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Fu allora che sentii poeticamente che avevo le mani, e avevo tutto il resto; fu allora che mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii di parlare ad erbe e a fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi”.
Ecco perché è fondamentale, nella sua opera, parlare di terra nel senso pieno e delle sue radici ineliminabili, dell'unione del poeta e dell'intera vita sua con la primordialità della natura e conseguentemente con la quotidianità, senza incantamenti. Il suo rapporto con la natura non è il normale confronto come “...il rosseggiar di peschi e albicocchi...” alla Pascoli, perché la sua visione della vita è differente da ogni narrazione precedente.
Nella poesia “sono un topo di campagna” infatti Bellintani disegna il suo ritratto nella bassa mantovana: con la Luna, la Casa, (tutti in maiuscolo), in quella fetta di terra, a Gorgo, dove visse la maggior parte della sua esistenza.
Sono un topo di campagna
Forse un giorno partirò dai campi miei,
dal gorgheggio delle passere di luce
per la grigia città. Me ne andrò
alle pallide ombre dei vicoli,
nella folla dei monotoni passaggi
delle ore sui viali, alla muraglia
delle case contro il cielo delle lodole.
Non avvenga. Lasciatemi all’aperto
mattino, al cammino sulle orme del passato,
alla luna ch’è la Luna al mio paese,
alla casa ch’è la Casa.
Sono un topo di campagna, sono il grillo
che nel cuore mi ricanta ogni sera
se l’ascolto dal paterno focolare.
Forse lo spaventa persino lo spazio illimitato della pianura e allora si àncora di più nel recinto amato, memore di quel che diceva il suo conterraneo Virgilio “dalle piccole cose nasce il grande”.
Per questo la sua vita sottolinea il legame indelebile con le origini e gli impone di non abbandonare mai il borgo natio.
Onnipresente, nella sua narrazione, è il fiume, non solo come presenza fisica ma una pienezza spirituale che lo compenetra. Ed è nominato semplicemente fiume, quello che dà la vita ma che spesso ghermisce abbozzi di esistenze lasciandone però sempre una scia a ricordare che nulla della vita è mai completamente perduto perché basta stare ”sempre lieti al core sulla riva”. Così si evidenzia il potente filo conduttore della poetica di Bellintani: la morte! La sua concezione della morte, rifiutata come finale, è unica, perché c'è sempre un'altra vita e anche se questa ti afferra lascia che il ricordo resti come testimonianza.
L'eterno ritorno: giorno, notte, sole, luna, vita, morte.
Ma non si trema mai davanti alla morte, “povera madre che soffre”, anche perché “in noi s'alterna timore d'essa e quieta attesa del suo riposo”. Ed è certamente nel vivere così intensamente il rapporto con la sacralità della vita che chiosa:
“...soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce”
con l'inesorabilità delle stagioni, legate magneticamente all'incorruttibilità della natura in ogni suo aspetto, che resta ancora potente la spiritualità del messaggio di questo concreto visionario che nonostante il suo proverbiale silenzio ed il suo carattere ispido, ha lasciato per noi un monito duraturo da tesaurizzare.
Umberto Bellintani è nato a San Benedetto Po il 10 maggio del 1914 ed è morto, dov'è nato, il 7 ottobre del 1999. Nonostante fosse appassionato di poesia sin da ragazzo, si diploma in scultura a 23 anni a Milano.
Successivamente si trasferisce a Firenze dove farà parte di una cerchia di artisti fra cui i poeti Alessandro Parronchi, Giorgio Caproni ed il pittore Ottone Rosai al quale dedicherà una poesia alla sua morte. Di quella sua fase rimangono solo alcune opere che testimoniano il suo impegno per realizzarsi come scultore.
La guerra e poi la prigionia in Germania per 2 anni interromperà ogni suo progetto. Ritornato a San Benedetto Po, dopo un periodo d'insegnamento del disegno, viene assunto come applicato, alla locale scuola media, dove rimarrà sino al pensionamento.
Assieme al disegno e allo studio dei maestri, che non abbandonerà mai, inizia a comporre poesie. Partecipa felicemente ad alcuni importanti concorsi, facendosi presto apprezzare dalla critica. Pubblica anche alcune poesie per Elio Vittorini e Roberto Longhi.
Dal 1953 al 1963 pubblica tre libri: Forse un viso tra mille, Paria e E tu che m'ascolti, vincendo anche due prestigiosi premi letterari. Nel 1963 nonostante continue sollecitazioni, smette di pubblicare, ma non certo di scrivere, pur mantenendo contatti con poeti e letterati.
Si trattò quasi solamente di rapporti storici, perché in lui la ritrosia per la modernità, la famigliarità col silenzio dominavano ogni suo agire.
Seguirono 35 anni di oblio editoriale, nonostante il suo nome fosse ormai ben conosciuto ed apprezzato. Quando pareva acconsentire ad incontri poi sfuggiva deciso, come quando inviò una serie di disegni ad una mostra a Firenze per poi precipitosamente ordinarne la distruzione. Oppure sfuggire ad un Quasimodo che s'era recato appositamente a San Benedetto per incontrarlo.
Negli ultimi due anni della sua vita, pressato ulteriormente, pubblica “La grande pianura” un'antologia delle sue opere con un'integrazione di nuove opere e “Canto autunnale”.
Rilevante fu il suo epistolario, per un credente della sacralità della terra come lui, con il suo vicino don Primo Mazzolari, “La tromba dello spirito Santo in terra mantovana”. Così come non stupisce il rapporto, anche cinematografico, con il regista Franco Piavoli, il poeta dell'immagine. Per lui partecipa a Voci nel tempo con cinque poesie ed un disegno.
La poetica di Bellintani, non aderisce all'ermetismo ma non è comunque inquadrabile in nessuna delle correnti allora presenti. Si tratta di una poesia dell'essenza, scarnificata di orpelli, che va diretta al cuore dell'ispirazione. È una testimonianza del ciclo eterno della vita ed i legami esistenziali col grembo della Madre Terra che nutrono ogni essere vivente accompagnandolo sin dalla nascita, sempre.
Non è affatto maligna
Non è affatto maligna la morte
è una povera donna infelice
che ti passa la mano sul capo
e gli occhi ti serra e il cuore
te lo ferma e ti dice amorosa
di dormire, di nulla temere.
Non ha falce ne teschio la morte
è una povera donna che soffre
e che attende ogni figlio che muore
e ogni volta che un figlio le muore
e la mamma dolente che piange
questa povera morte affettuosa.
Dolce chiude l'ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d'anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v'è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s'alterna
timore d'essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l'ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Continuare
Bisogna continuare a credere nella poesia,
a vivere la vita.
Bisogna uscire dalla folla,
credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,
tornare alla contemplazione dei fiori,
della luna, delle piccole e grandi cose.
Lasciamoli agli altri gli stadi
le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze
dove si infolla l’essere e muore.
Se uccidi un grillo, quale strada
può accogliere il tuo piede, quale cielo
il tuo occhio?
Quale cavallo la tua mano, quale fiore
il tuo sorriso?
Tutto è così difficile, impossibile… Ma chissà.
È nel mistero il clamore bianco della gioia.
Alberto Gaetano Castrini
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