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La solitudine della neve (frammento1)

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 16/12/2016 18:21:33

Ecco, stiamo per partire. Finalmente. Dall'altezza dei miei centosettanta centimetri senza tacco inquadro la scena con occhio critico. Perfetta. Il grigiore, quasi nero, sconsolato incipit di un giorno freddo e ghiacciato e poi la frenesia della partenza stessa, alle cinque del mattino, con l’inquietante divieto di essere accompagnati dai parenti, come se fossimo degli ostaggi a cui vengono negati perfino i saluti, gli ultimi addii smarriti davanti all’incognito, tutto mira ad accentuare lo stato d’animo sconvolto che traspare nell’aspetto della protagonista: labbra livide, serrate in un tumulto soffocato di sentimenti, guance pallide, orfane di vita, sguardo arido e febbrile, le mani che tormentano il lembo della sciarpa, le ciocche pietose che scendono da sotto il basco rosso, alla francese, l’unico accessorio civettuolo che brilla come un’offesa in mezzo alla massa opaca e deforme dalla foschia. Un concentrato desolante e lugubre di percezioni che grafia la vista come un urlo.

“Julia!”

Sussulto. La voce imperiosa cerca me. Forse è meglio che chiarisca subito. Mi chiamo Julia Vieru, sono moldava, ho trentuno anni, fino a ieri ero una insegnante, oggi mi appresto ha diventare un numero dentro la statistica sul traffico di vite umane, un misero anello nella lunga catena di servi che collega le due sponde dell’Europa.

“Julia! Che hai? Sembri imbalsamata. Dai, avvicinati!”

Il capogruppo ridacchia, muovendo le braccia un po’ per incitarci, un po’ per il freddo che taglia il respiro. Vari occhi si posano su di me. Evito di inciampare nei loro sguardi interrogativi. Non ho niente da spiegare, non potrei neanche se volessi, penso, mentre mi sposto verso di loro, cercando di mascherare l’inquietudine dei miei passi. Ogni passo, ogni respiro in più mi svuota dalle certezze su cui avevo edificato finora la mia esistenza.

Parto. Sì, mio malgrado parto. Dopo giorni di code sotto le ambasciate europee ad aspettare il visto Schengen, dopo respingimenti amari, dopo rinnovi frettolosi di certificati e passaporti, dopo altre infinite file sotto le ambasciate, eccoci finalmente qui, accanto a questo pullman vecchio, che sputa fumo nero nell’aria gelata e immobile di un freddo mattino invernale. Ognuna di noi ha in tasca un visto turistico di sette giorni per l’Italia, ma sappiamo benissimo che lo violeremo, che non torneremo presto, perché questo visto è soltanto un mezzo per entrare in un Paese europeo alla ricerca disperata di un lavoro. Smarrita dietro le riflessioni, mi perdo quasi interamente il discorso pomposo del nostro organizzatore turistico.

“Voilà, Julia, non mi piaci per niente oggi!” mi ammonisce a voce alta il responsabile del nostro viaggio, nascondendo dietro ad un sorriso sottile lo sguardo ansioso. Per darsi più importanza si fa chiamare Michail Ivanovici, alla maniera russa, come un vero nostalgico dei vecchi tempi dell’occupazione. Mi stavo giusto chiedendo perche mai dovrei piacergli e perché fosse così spaventato, non parte mica lui, quando, per dare più peso alle sue parole, o forse per scaricare la tensione che grava in aria, lui aggiunge anche una pacca sonora sulla mia spalla. Pacca che fra l’altro, gliel’avrei restituita volentieri se non fossi stata così attonita, persa ad osservare, oltre i fiocchi di neve che scendono abbondanti, oltre le voci striduli che si sovrappongono, oltre tutti questi corpi tremanti ed isterici, il proiettare vago e minaccioso di qualche cosa di indefinito che mi si apre davanti, un’immensa disperazione sul punto di ingoiarmi. Devo fare uno sforzo veramente grande per tenere a bada il mio desiderio di fuga e i denti che battono in una cadenza di marcia funebre. Dunque, incasso il colpo senza reagire, nemmeno il principio di rivolta che mi spunta dentro sotto forma di una vampata, riesce a scuotermi. Resto imbambolata nella mia paura, incapace di muovermi, incapace di parlare, incapace di pensare. Una paura pura e crudele che mi assale da tutti i lati. Paura per quello che lascio. Paura per quello che troverò.

Sospendo il fiato per non far passare dell’altro tempo che preme per aumentare il divario fra ieri e oggi, e rimango con gli occhi fissi, intontita. Nella mente come una macchia si dilaga l’aspro senso del tradimento di cui vittima sono ad ogni modo.

Il peso di un torto. Il panico si mescola ai violenti, strazianti sensi di colpa: i figli. I miei figli. Lasciati. Dispersi oltre la lontananza. Mi sento confusa, svuotata, un fantoccio con i fili rotti, spinto in avanti dalla corrente. Michail Ivanovici mi inquadra con disapprovazione, storce il naso, poi si volta verso le altre donne immobili, altri fantocci, raccolte una contro l’altra in un tumulo innevato di emozioni:

“Forza, ragazze, siate allegre e rilassate. Non dimenticatevi che siete turiste, partite per visitare Venezia, la più bella città del mondo!” le sprona e ride in gorgogli acuti, quasi femminili, battendo le mani con finto entusiasmo in tentativo di disperdere lo spettro di una crisi isterica.

Chiacchiere. La sua voce rotola come un sasso nell’aria ghiacciata per finire in fondo al pozzo dell’indifferenza o dell’impassibilità: nessuna di noi gli risponde, nessuna accenna una reazione qualsiasi. Semplicemente lo ignoriamo. Non badiamo più a lui, non ci interessano più né la sua persona, né le sue chiacchiere. Soltanto il cuore trepida irritato: stupidaggini! Altro che turisti! Dalla Moldavia partono i servi. Tutti i giorni. A migliaia. Per capirlo basta guardare le facce delle mie compagne di viaggio, dove si legge il panico puro e lo smarrimento. I vestiti consunti o a volte troppo nuovi, ancora con l’odore dei negozi dentro, tradiscono la povertà, accentuano la disperazione. I gesti frenetici, insensati con cui vengono spostate le valigie da una parte all’altra svelano i sentimenti che ci tormentano. Ci guardiamo frastornate in giro; occhiate appannate e fugace su dei visi che si sforzano di dare l’impressione di una apparente normalità che in quel momento non c’è.

Per sei mesi avevamo rincorso le promesse di Michail Ivanovici di ottenere un visto Schengen; anche se lo detestavamo profondamente ci siamo lasciate spennare, ingannare, trattare male, mancare di rispetto, umiliare; l’avevamo adulato, pregato, implorato, imbonito, sopportando con stoicismo le sue prediche, lamenti, bugie, sfuriate, perché solo lui, il corruttore, il signore delle bustarelle e delle amicizie giuste era l’unica via di uscita, l’unica possibilità che avevamo. A parte questo non ci lega niente altro; noi abbiamo avuto un bisogno e lui, in cambio di tanti soldi, ci ha offerto la risoluzione. Tutto qui.

Ora abbiamo il visto; ora possiamo partire, ma non sento nessuna gratitudine verso quest’uomo “risolvo tutto io”, anzi, per essere sincera, la sua vicinanza mi ripugna, come un odore nauseante e fastidioso. Non posso avere rispetto per un uomo corrotto. Non posso stimare un approfittatore. Sono ingrata? Siamo ingrate? Può darsi. Non mi importa. Non lo voglio più vedere. Ho altro a cui pensare.  Indifferente gli giro le spalle. Fingo di non sentire le sue ultime battute.

Salgo in cerca di un posto. Dentro l’autobus c’è un caos totale; donne, che si affannano a sistemarsi, vociferano e si agitano, si spingono frettolose, spostano cariche di valigie e borsoni, incuranti delle imprecazioni dell’autista arrabbiato.

“Silenzio!” urla, aumentando ancora di più il baccano con la sua voce rauca e minacciosa. Ora ci ha prese in consegna lui, dunque vuole farci capire subito chi è che comanda. I piccoli occhi scuri, affossati sotto la fronte bassa ci scrutano una ad una come se fossimo merce, solo carne, carne e basta. Non si preoccupa neanche di nascondere il disprezzo che trapela prepotente nel suo sguardo, probabilmente il nostro aspetto, il nostro modo impaurito non sono di suo gradimento, di conseguenza egli storce le labbra schifato e ogni tanto sputa sul pavimento, direttamente sotto i nostri piedi, come per sottolineare il grande disgusto. Decido di ignorarlo. Capisco che il suo gesto cerca uno scontro frontale con la nostra dignità. Mi aggroviglio come un riccio sotto l’arsura della offesa e a fatica domino la rabbia. Evito di guardarlo.

“Eh, tu! Tu con il berretto rosso, muoviti!” il suo latrato sovrasta gli altri rumori. Forse si rivolge a me. Non voglio saperlo. Non reagisco. Mi sento di pietra. Sono soltanto un blocco di pietra. Pietra. Le pietre non hanno emozioni. Resistono. Tacciano. Sui loro fianchi il tempo scolpisce la memoria. Sono fatta di ricordi. Ricordi. Croste di tempo. È tutto quello che mi resta.

Avanzo, dissipata in mille attimi conclusi. Riesco ad inserirmi nel fiume umano che scorre dentro il pullman; mi muovo lenta, schivo un braccio alzato, scavalco un borsone abbandonato nella corsia di passaggio e frugo con gli occhi dentro questa massa mobile di corpi e valigie in cerca di un posto.

 “È libero?” chiedo ad una piccola donna che sta seduta pensierosa, con il volto nascosto fra le mani.

Con un sussulto alza la testa, gli occhi arrossati mi inquadrano per un attimo, mi mettono a fuoco lentamente, come un obiettivo fotografico cieco, infine mi risponde di sì con la testa e mi cede il posto accanto al finestrino. Infilo il borsone sotto il sedile e mi siedo.

“È fatta.” respiro sollevata. “Finalmente!”

La donna resta in silenzio, come se non mi avesse sentita.

“Mi chiamo Julia.” mi presento educatamente giusto per rompere l’angoscia che mi soffoca.

Un altro sguardo spento che si spinge oltre la mia corazza tremante. Mi attraversa come se fossi una lastra di vetro, senza il conforto di una parola, di un sorriso. Niente. Soltanto un stramaledetto silenzio lungo. Devastante. Assurdo. Faccio in tempo a chiedermi se ho fatto bene a sedermi accanto a lei: tre giorni di mutismi sarebbero troppi anche per una di poche parole come me. Alla fine, emersa da chissà che abissi, la donna mi risponde: “Nina.”

E basta. Niente altro.

Con uno sforzo dei neuroni impazziti spremo un po’ di ottimismo e mi adagio sopra. Mi sta bene, penso, neanche io ho voglia di parlare. La gola mi si stringe dall’abbondanza di sentimenti. Troppi per poterli decifrare in una volta sola.

In breve l’organizzatore resta solo sul marciapiede, avvolto nel suo cappotto impellicciato. La luce opaca del lampione diluisce il suo sorriso sazio. Michail Ivanovici batte i piedi sull’asfalto ghiacciato e mastica in solitudine la propria contentezza, simile ad un pasto solitario e penoso sotto gli occhi di mille bocche affamate, perché di contento pare che sia solo lui. L’osservo da dietro il vetro. Il sorriso gli si spegne di colpo, appena le porte del pullman si chiudono. Grida ancora qualcosa all’autista che muove la testa in segno di consenso e se incammina veloce verso la macchina con i vetri oscurati, parcheggiata in modo arrogante sui marciapiedi.

Una nuvola di fumo nero invade l’aria. Il pullman parte. Il respiro si perde da qualche parte e mi lascia in apnea. Il cuore martella in gola. A spasmi cerco di ingoiarlo, di mandarlo giù al suo posto, ma lui resta incastrato fra la faringe e l’esofago. Ognuna di noi si sforza di mascherare le proprie paure, ma non è facile farlo, quando le mani tremano, il volto si increspa in una smorfia che fatica ad assomigliare ad un sorriso e la voce si spezza. Non c’è nessun posto sicuro, dove nascondere le lacrime. Abbasso gli occhi per non urtare contro le altre paure. Altri sguardi. Sguardi fissi. Sguardi vaganti. Sguardi persi nel vuoto. Sguardi sciolti dentro la paura. Sguardi che si aggrappano disperatamente all’ultimo bacio, rimasto orfano sulla guancia, il cui sapore salato pizzica ancora la pelle. Sguardi che cercano un appoggio, un appoggio qualsiasi per resistere.

Resistere.

Combatto contro la voglia di piangere. Fa freddo qui dentro. Troppo freddo.

 “È rotto il climatizzatore,” ci avverte l’autista con fare aggressivo. Poi aggiunge con tono di beffa: “Questa è. A chi non piace la carrozza, madames, può anche scendere.”

La battuta vola come una bolla carica di marcio, nessuno la raccoglie. Sensi paralizzati. Sentimenti repressi. Chiudo dentro i pugni l’urlo che mi gonfia il petto. Le unghie si infilano nei palmi, piccole semilune intagliano la pelle. Nel cuore l’unica cosa viva è la disperazione. Davanti, tre giorni di viaggio e duemila chilometri.

Un salto nel vuoto. Tante domande. Nessuna certezza. I ricordi che pulsano. Vivi. Ferite aperte. I figli. Sospiro. Il mio sospiro si intreccia con quello di mia compagna e resta appeso sopra le nostre teste. Solidificato, condensato di dolore.

Premo le mascelle per non battere i denti. Il tremito mi prende il mento, poi anche la fronte e l’intero viso. Mi tremano le mani; mi tremano i piedi; qualcosa trema dentro lo stomaco. Mi lascio andare in un monologo sordo con l’autista. Dai, cammina, penso. Vai avanti, purché si arrivi presto, prima possibile. Muoviti e lascia stare le chiacchiere, non mi divertono. Senti, non mi divertono proprio!

Mi raccolgo come una palla dentro il giubbotto per conservare meglio il calore.

Meno quindici. Un cartello luminoso lampeggia fiacco la sua informazione. Nevica. Lentamente scompare la miseria triste, senza speranza sotto il velo casto. Scompare il fango e il sudiciume delle periferie popolari; scompare l’immondizia abbandonata lungo le strade; scompaiono i tetti grigi di eternit corroso da anni; scompaiono le strade piene di buche.

Nevica. Una nevicata abbondante come la manna celeste che copre tutto, nascondendo la faccia della città con la sua gente triste e stanca, con le sue piazze deserte, vetrine vuote, vetri ghiacciati, vie infangate, vite cancellate. Tutto viene celato sotto una maschera bianca e pulita, creando l’illusione di un’immacolata bellezza.

Nevica. Ma non c’è niente di bello. È una nevicata volgare e irritante, mi fa pensare al volto rugoso di una vecchia, nascosto sotto un strato denso di fondotinta.

La neve scende silenziosa, come una minaccia fastidiosa e massacrante. In un paese come il mio la neve non fa mai rima con le feste e le vacanze bianche; la neve è soltanto il presagio sinistro dei disagi che si inaspriscono, della fame, del freddo, tanto freddo, delle difficoltà che aumentano. E della disperazione.

La disperazione. Quante volte ho sentito questa parola negli ultimi tempi! Come una maledizione è entrata nel nostro vocabolario, nel linguaggio comune di tutti. La nominano i giovani, la sussurrano i vecchi, la gemono i malati, la maledicono i poveri, la storpiano i bimbi ancora prima di imparare a parlare bene.

La disperazione. La mancanza della speranza. Quando ti prende di mira, non hai scampo. Una sensazione terribile. La percepisci con lo stesso senso con cui gli animali percepiscono il pericolo, mentre essa, la disperazione si avvicina con passo furtivo come un ladro e ti penetra lentamente. L’avverti un po’ alla volta nel cervello, nei muscoli, nelle ossa, nel cuore, in ogni cellula del tuo corpo. Comincia a dominare i tuoi sogni, a condizionare i tuoi pensieri, finché ti rende senza fiato per l’angoscia. Non puoi fare a meno di pensarla; non puoi fare a meno di temerla, ma non te ne puoi liberare; anche se lo desideri con tutte le forze non puoi scappare, ovunque vai essa ti insegue, perché fa parte di te ora e ti rode, ti rode in continuazione come un tarlo, e non ti molla, fino a quando non ti fa crollare, come crolla un albero corroso. I rami nel fango, le radici esposte al vento.

Si combinano brutte cose spinti dalla disperazione, perché si mette in moto un incontrollabile meccanismo di autodistruzione. La gente cerca soluzioni nella delinquenza e nella prostituzione, si rifugia nella droga e nell’alcool, dalle nostre parti, soprattutto nell’alcool. Si beve per dimenticare; si beve per non sentire; si beve per non pensare; si beve per stordirsi. Si beve per illudere le disgrazie che simili alla scabbia ti si attaccano addosso e non ti mollano. Si beve per placcare il senso di rabbia e impotenza che padroneggia nel cuore. Vari motivi e un unico scontato finale: il degrado.

Ho deciso di scappare. Parto per disperazione. Fuggo prima che essa mi distrugga. Prima che ci distrugga. Prima che il coraggio mi abbandoni. Prima che sia troppo tardi. La mia terra è una terra impregnata di disperazione. La respiri con l’aria, la ingerisci con l’acqua. La trovi dappertutto. Basta guardarsi attorno. Basta volerla vedere.

Imprigionato nella solitudine condensata della neve, un cane randagio urla solitario. Al nostro passaggio alza il muso congelato verso il cielo e invoca aiuto. Il suo lamento come una lama spacca l’aria. Un brivido freddo percorre le vene. È un richiamo di disperazione il suo; probabilmente si è perso, ha freddo, fame, paura, è stanco di correre lungo la città, non ha più forza, né speranza. Il pullman gli passa accanto, a meno di un metro, continuando imperterrito la sua lenta avanzata. Il cane scompare, resta indietro, inghiottito dal nevischio impietoso e dall’indifferenza.  

Mi sento come quel cane, sopraffatta dalla paura, vorrei urlare anche io, ma mi il mio orgoglio che mi impedisce di piangere. Con i denti riesco ad afferrare la parte interna della guancia e la stringo, la schiaccio, la mordo più forte che posso, finché sento il sapore del sangue in bocca. Niente lamenti! Niente lamenti, Julia! Con un ultimo residuo di una forza che non sento mi costringo ad alzare la testa, anche se mi fa male. Molto male.

 


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