Pubblicato il 15/10/2016 15:20:07
Il ramadan si anima al calar del sole: allora, le moschee di Yadz – labirinto di vicoli di fango, calda da non poterne più – sono in fermento come uno stagno pieno di girini. Una ha un ingresso laterale, sbircio, è l’ora della preghiera, tutti giù per terra, Allahu Akbar, tutti in piedi con le mani davanti alla faccia. Un uomo si fa avanti, aspetta, non entrare, dice a gesti. Quando la preghiera è finita il cortile prende sapore di festa. I bambini corrono di qua e di là, proprio come girini nelle pozze. Farid (si chiama così il tizio che mi ha detto di aspettare) si fa strada tra le gambe dei bambini, in mano tiene una ciotola, dentro c’è una zuppa gialla e cremosa. Nel tempo del ramadan, alla fine del digiuno si mangia insieme. Il pasto della sera si chiama Iftar, lo preparano le donne del quartiere ed è un dono che viene offerto a chiunque entri nella moschea, mi dice. Mangia con noi. Il giorno dopo passo di fianco a un’altra moschea. La porta è di ferro ed è chiusa. Di fronte c’è una donna, una di quelle che capita di vedere, nella città di fango, quando l’arsura del giorno si placa un poco, sedute di fronte a casa. Si alza, liscia il velo verde e sottile, fa un cenno. Apre la porta della moschea e la richiude alle sue spalle: io aspetto. Quando esce, in mano ha un involtino, un pacchettino con dentro pane, formaggio, ravanelli, erbette verdi e datteri freschi. Per mangiare è presto, immagino direbbe se avessimo una lingua in comune, il sole è ancora nel cielo, ma tu sei straniera. Me lo porge e torna a sedersi al suo posto, aspettando che arrivino il buio e la fine del digiuno. (Yazd, Iran centrale)
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