Pubblicato il 27/08/2010 12:00:00
Undici, brevi testi poetici, o, per meglio dire, dodici, visto che tale è, a mio parere, a tutti gli effetti quello che viene indicato dall’autrice come nota al libro, e che di esso contiene le chiavi di lettura: cantare la natura femminile del mondo e raccontare l’anima sonora delle parole.
Due obiettivi, all’apparenza, sovrabbondanti rispetto al numero esiguo dei versi, se quest’ultimi non fossero caratterizzati da una forza inversamente proporzionale alla loro quantità, se ogni parola non fosse fatta di una “sostanza accesa” e i versi non fossero, ciascuno, le battute di un dramma, i cui protagonisti sono soltanto due, ma di proporzioni gigantesche e di natura enigmatica: l’anima femminile e la poesia.
Né si tratta di un dramma inteso come contrapposizione ostile, bensì di un confronto amoroso e tuttavia doloroso, poiché l’una e l’altra non sono definibili e la loro guerra è combattuta sul filo della smisuratezza e dell’indicibilità, in nome di uno dei più strani paradossi, poiché nulla di più simile sembra esserci fra l’una e l’altra, femmina e parola, entrambe di natura archetipale, selvatica, primigenia, e nulla insieme di più distante, nel momento in cui, per esprimersi, tra l’una e l’altra si incunea la scrittura, che si prefigura come una spezzatura, un rovello, un limite.
Tutto il mondo interiore della Cabras sembra attraversato da un vento emotivo che tenta la traversata “il fango delle piene / e il fiume / senza barca, né fune”, ma con una scorta di parole infuocate, cieche e insieme luminose, che ustionano come scintille dell’ombra e nell’ombra stessa del dire.
E’ questa consapevolezza, tuttavia, a rendere la parola dell’autrice, che si esprime nel suggestivo, arcaico, sonoro dialetto sardo-nuorese, assai accosta all’infanzia stessa della lingua, alla sua sorgente* La sonorità delle parole vibra con un’intensità febbrile, cerca la coincidenza fra le cose e la verità, ferisce insinuando “unghie nello sterno”, ingaggia un corpo a corpo con l’autrice, ben consapevole che tentare di capire “è un problema di carne / e ossa rotte // di marmo cavo e buio”.
Alla fine del suo periglioso itinerario, ancora l’autrice, e non potrebbe essere altrimenti, congeda il suo gesto scrittorio con due capitali domande: “dove il segreto delle domande?” e “dove la pietra più riposta?”: le rispondono i versi successivi con un susseguirsi frenetico di allitterazioni: “nell’attesa di chi sono / sillabando seguo un suono // sibila / la lingua barbarica / scorge la sorgente.”
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