“Di dove sei?” – mi chiese Sergio, commensale occasionale.
“Sono livornese.”
“Strano, non parli come i livornesi, non hai quell’inflessione dialettale.”
Lo presi come un complimento per la correttezza del mio parlare.
“Io sono di Firenze, anch’io non ho l’accentuazione tipica fiorentina, ma io so anche il perché.”
“Detesto il dialetto fiorentino perché lo lego a un episodio della mia infanzia.
Nel 1943, mentre con la famiglia ero sfollato sulla montagna pistoiese per la guerra, arrivarono in paese dei fascisti per un rastrellamento. Ricordo quelle voci forti, la confusione e la paura di quel giorno.
Parlavano un dialetto con una fortissima accentuazione fiorentina che si mischiava al nero delle loro uniformi e al tedesco di un gruppo di ss.
Il nero delle divise, le urla miste nelle due lingue, la polvere e le grida disperate di quel giorno mi sono rimaste, come marchio d’infamia che per me ha avuto quel linguaggio scurrile e sanguinoso.
La polvere, il sangue, le mosche, l’odore e quell’orribile parlata.
Il fiorentino non è mai stato, per me, la lingua di Dante, ma le orrende grida di quella gentaglia!
Me l’hanno fatto odiare per sempre!”
Mi accorsi che parlava senza enfasi, non c’era emozione nelle sue parole, mi raccontava un fatto tragico come se lo avesse vissuto un altro.
“Mi hanno fatto odiare una parte di me e ora che sono cieco, li odio ancora di più.”
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