Pubblicato il 09/11/2016 14:11:22
«Conosco Ungaretti come un allievo un Maestro, da 25 anni, e l’ho visto in tante diverse situazioni di vita, ed anche al lavoro, scrivere, correggere, prendere appunti, tradurre: ma tante volte, in casa, o in tram (la “circolare” dall’Università a casa dopo le sue lezioni: facendo magari due volte di seguito l’intero percorso di tutta la cerchia della città, perchè, perso il senso del tempo e delle persone – della fermata giusta, lì all’Aventino, ai piedi di San Saba, non s’accorgeva), o in viaggio, m’è parso di sentire che qualcosa all’improvviso l’afferrava, entrava dentro di lui: come dicevano gli antichi, veramente lo “possedeva”. Era la subitanea insorgenza dell’ispirazione, e allora, a smaniare, a muoversi, a sussurrare, ma anche a gridare, non importa chi ci fosse accanto, come in un parto sempre lacerante per sforzo e per dolore, fino ad afferrare il verso, a segnarlo, o a dirlo a voce, in tanti toni diversi: nasce così in lui la prima struttura del verso, sulla quale poi, egualmente tormentosa, si scatenerà per quel suo cammino di progressivo avvicinamento al modello, la serie delle correzioni e delle varianti. E so, dai suoi stessi racconti o da quelli dei suoi cari, che talvolta, dopo una quieta sera, coricatosi con calma (magari dopo la partita a “canasta” che per un lungo periodo giocava con la sua cara signora Jeanne) se d’improvviso, il misterioso demone della poesia si impossessava di lui, ma che più sonno, che più quiete!: agitazione frenetica; via dalle lenzuola, a camminare, a smaniare la notte per casa, fino ad avere carta e penna, a cominciare a scrivere, a segnare.» (PICCIONI L., Studi su Ungaretti. Una perpetua poesia maggiore, in UNGARETTI G., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2011 - Prima edizione 1969 -, p. XVIII)
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