LA FORZA DELLE FRAGILITÀ
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PREFAZIONE
Prof. Federico Cinti
A inoltrarmi tra le liriche di questa silloge, in cui ogni elemento è ossimorico, a partire dal titolo, La forza delle fragilità, ho respirato l’acre amalgama dello straniamento, sono riuscito a far combaciare le tessere d’un mosaico che spesso sembravano non collimare, ho saggiato la ruvida morbidezza d’un tessuto di tanti fili colorati. Due autori, Martin Palmadessa e Sante Serra, per un incongruo gioco della sorte, incrociano le loro penne e cominciano a volare. Per gioco, appunto, per sfida, duellando a colpi di versi, di strofe, di illuminazioni decostruiscono e costruiscono un mondo, il loro mondo. Svelano e velano, a un tempo stesso, la mutevole realtà d’un sentire, d’un percepire, d’un divenire inestricabilmente complementare. Inequivocabile indizio di ciò, inciso all’ingresso del labirinto, a epigrafe, sono le parole di Eraclito per cui non solo tutto l’universo è lo scorrere d’un fiume in cui non ci si bagna due volte, bensì soprattutto la sentenza per cui il conflitto è padre di tutte le cose. In questo confliggere, urtarsi, scontrarsi continuo sta una delle metamorfiche sfaccettature dell’opera. Impossibile non avvertirne il fascino e il richiamo.
Mi sono ritrovato, a un tratto, sulla soglia d’un insolito giardino. Una brezza soave seguita da una ventata più forte, quasi rude e sgarbata. Voci lontane, eco di un’eco tra gli alberi e le siepi. Un attimo di smarrimento, il mio, e le voci sono divenute parola. Ciò che all’inizio appariva un confondersi indistinto, quasi indecifrabile, si è fatto a poco a poco dialogo, scambio, confronto. Il sogno ha ceduto il posto alla realtà: al canto rispondeva un altro canto, in un’incessante melodia modulata al ritmo dei ventricoli, delle pulsazioni, dei sospiri. A un suono rispondeva un altro suono, ad amplificare o a smorzare i toni in un’inquietudine di domande spesso senza risposta. Una discussione, a volte animata, a volte placida. Ho così distinto due amici, all’ombra delle fronde, con in mano gli strumenti dell’arte. Il giardino era un’immensa pagina bianca. Due uomini scrivevano, ognuno a proprio modo, della vita, della morte e di altre sciocchezze. Suonavano a quattro mani lo stesso spartito. Luci e ombre, tutto qui, la terra e l’aria, il fuoco e il vento, la pace e la guerra.
Nei tre tempi di questa sonata, le tre sezioni che compongono questa silloge così particolare, la pacata voce meditativa di Sante stempera quella ruvida, primigenia, di Martin. Provocazione e conciliazione allo specchio, riflessi di riflessi in cui tutto si spiega e si dispiega con una naturalezza sconcertante. È il caso dell’amore, cantato in 8 marzo, in cui Martin si scaglia contro le convenzioni sociali che mercificano il senso e il ruolo delle donne cui risponde Sante, con Presunzione d’infinito, in cui l’immagine d’un fiore, il tulipano, si fa analogia d’un amore che non muore né può morire. Già in questa ouverture si squaderna all’occhio attento l’andamento alchemico delle liriche. Poi, sul palcoscenico, è di nuovo il turno di Martin, che continua il suo grido. A Silvia richiama il più noto componimento leopardiano; eppure, il tono della poesia allude al montaliano Forse un mattino andando in un’aria di vetro, riprende i pascoliani «brividi brevi di vento» (Lapide, 20), tra altre e più cangianti diffrazioni. A questo punto, nel quarto componimento, si giunge finalmente alla svolta, alla chiarificazione, al testo eponimo dell’intera raccolta, La forza delle fragilità. Sante risponde al disperato spleen baudelairiano, rievocato dalle «sbarre della rabbia opprimente», tuttavia divelte nell’accettazione di adeguarsi alla realtà. La forza di cui parlano i versi è l’intera raccolta, la poesia che filtra per illuminazione con l’unico raggio che passa attraverso l’intrico del rovo, in una dimensione d’assenza, «senza te», di giorni infuocati ormai spenti, ma vividi nel cuore. Così l’immagine del tramonto si fa occhio che si chiude, simile al crepuscolo serale, ma in un’effusione di speranza. E potrei proseguire, così, lungo tutta la sezione, dedicata all’amore, perlopiù in assenza, lontano, sofferto, disperato in Martin, d’affetti, di nostalgie, di sguardi retrospettivi in Sante.
Dal magma intimo della prima sezione, composto di sentimenti primordiali e raffinati, la prospettiva poetica s’allarga alla denuncia della violenza, sulle donne prima e della guerra poi. Sul limitare un’altra epigrafe, presa da Maya angelou. Già l’ultima poesia del primo tempo, la luna in mezzo ai rami, anticipava in qualche modo il cambio di passo. Sante, un padre, come tanti, che non ha potuto scegliere il destino dei propri figli, vaga tra i lampioni: tutto intorno è una stanza di carcere da cui evadere, mentre intesse con la luna un dialogo che si fa monologo, in attesa della figlia assente. Dolore, questo, che cresce fino a farsi universale davanti all’insensatezza e alla brutalità di chi trasforma un preteso amore in brutalità, in ansia di possesso, in sottomissione. Nella prima lirica della seconda sezione, A morire fu il rispetto, Sante ricostruisce finemente la psicologia femminile che si fa indignata presa di distanza da uomini indegni di questo nome. Il controcanto di Martin, Non toccate le donne, trasforma i gesti in un caleidoscopio immaginifico in cui le api infeconde vengono vinte dalla luce buona degli sciami operosi che insegnano a vivere.
Così la guerra, da dentro a fuori di noi, davanti ai nostri occhi, nelle orecchie incapaci di resistere, si fa grido straziato in entrambi i poeti proprio attraverso gli sguardi di madri, mogli, figlie. L’Ucraina è il campo di battaglia su cui lottano la civiltà e la barbarie, in cui la poesia è un fiore che a stento riesce a germogliare. Eppure, diviene l’unica speranza d’un mondo in cui vige solo l’interesse, la vile legge del mercato. Qui batte il cuore di questa silloge. L’impegno etico-civile si fa protagonista d’una realtà che esce dallo stretto perimetro del sentimento individuale. Nulla può essere invano, nulla può essere lasciato agli ingranaggi sociali che stritolano i più deboli, i più indifesi. La ricerca lirica si fa, in tal modo, bisogno di verità, bisogno di giustizia. Ecco che, in Orrore inaccettabile Martin avverte sinesteticamente che, nella camera mortuaria nera, si spande un profumo blu, il sorriso impertinente di un bambino, del poeta stesso: «La biro spara inchiostro dolce / i carri armati sparano morte / su inermi famiglie in fuga». La risposta di Sante, attinta direttamente a Uomo del mio tempo di Quasimodo, non lascia dubbi, non lascia spiragli: «Tutti si aspettano qualcosa di nuovo / ma l’uomo-demone non cambia / spara oggi come sparava ieri» (Donbass, Capodanno 2023).
Nella terza e ultima sezione, cui s’accede attraverso le lenti di Lev Rubinstejn, ritorna a spirare la speranza sull’abisso. È una poesia del tu, del dialogo trasognato e malinconico. Ricordi e nostalgie affiorano e si dissolvono, tra le nebbie e i tramonti. Simbolo eterno di un’assente presenza è un San Marzano tra le rotaie d’una stazione, luogo non luogo, in cui Sante attende un ristoro che non troverà, né lì né altrove (Di ristoro non c’è traccia). e, mentre un poeta parte dopo una sosta involontaria, l’altro assiste sgomento alla fuga irrequieta di chi sa che più non tornerà: «Difficile altalena / questo vai e vieni. / tamburi sul cuore / come diamanti nuovi / percorrono il tuo corpo / in verticale. / Scivola piano il tuo dolore / vecchio, / frantumato per terra / per i nuovi colori / poco fuori dalla finestra / del viavai delle sofferenze. / stai scivolando via / con garbo e pudore / mentre io sono impietrito / e sento il tuo ultimo saluto / colare fino al tuo sorriso / ora inarcato in basso» (29 settembre). Non tornerà, certo, quel tu, che forse è l’io del poeta che si distacca senza requie dallo specchio delle proprie vanità.
È molto difficile allontanarsi da questo giardino poetico. In tanta parte della poesia, di quella che abbiamo letto e studiato a scuola, s’assiste al dialogo di personaggi: i pastori nella dimensione bucolica, i cavalieri nella poesia epica o cavalleresca, gli innamorati d’ogni epoca. In questa silloge, invece, che ho avuto il privilegio di sfogliare in anteprima, il campo da arare si è fatto verziere di passioni e di discussioni. Il titolo ha mantenuto la sua promessa, ha retto il gioco e il travaglio dell’imperfezione. Nulla si dà mai per caso, se il tempo sfugge dalle mani e dalle penne incrociatesi un giorno e separatesi per sempre. non era forse un gioco, bensì una necessità. La parola poietica è stata ancora, come dalle origini dei secoli, in grado di creare e ricreare. Il cerchio ha ricomposto la sua figura e continua a percorrere il suo spazio all’infinito. La poesia, in fondo, vive di vita propria, forte e fragile allo stesso tempo, allo stesso modo. Martin e Sante ce lo hanno dimostrato senza tema di smentita.
Prof. Federico Cinti
PREMI RICEVUTI
3° Posto Assoluto
II Premio Internazionale Letterario
“CITTÀ DI MONTEVARCHI 2023”
Sezione Silloge Edita di Poesia
(Montevarchi, Arezzo, 19 Settembre 2023)
Premio della Giuria
X Premio Internazionale di Poesia e Narrativa
“I FIORI SULL’ACQUA”
Sezione Silloge Edita con
(Imola, 11 Ottobre 2023)
Informazioni bibliografiche Libro:
Titolo del Libro:
La forza delle fragilità
Autori:
Martin Palmadessa, Sante Serra
Editore: Setteponti
Collana: Ilvolo della fenice, Nr. 21
Data di Pubblicazione: 2023
Genere: Letteratura Italiana
Pagine: 100
Peso gr: 300
Dimensioni mm: 210 x 0 x 0
ISBN-13: 9791281005372
PER CHI DESIDERASSE ACQUISTARLO:
ALTRI TITOLI DI MARTIN
- Tanta roba di me
(Silloge poetica, Aletti Editore, 26 Febbraio 2021)
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(Saggio di Economia Motivazionale, Edizioni Setteponti, 26 Agosto 2021)
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- Gocce di sangue blu sotto al ciliegio viste dalla balaustra del mio giardino
(Silloge poetica, Edizioni Setteponti, 26 Novembre 2021)
- Tsunami
(Silloge poetica, Edizioni Setteponti, 26 Maggio 2022)
- La Teoria delle lucertole
(Saggio di filosofia, Edizioni Setteponti, 26 Febbraio 2023)
https://www.larecherche.it/testo.asp?Id=3283&Tabella=Articolo
Aggiornamento dettagli principali:
Imola, 22 Febbraio 2024
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