Pubblicato il 23/08/2016 23:28:05
Su quelle terre del Sannio, sullo spartiacque dell’appennino Campano-Molisano, l’estate era piuttosto breve, e già con i primi temporali d’agosto si poteva ben dire che l’estate fosse finita. Si diceva che le stagioni contassero su “dieci mesi di freddo e due di fresco”… e nei detti popolari c’è sempre qualcosa di vero. Tuttavia l’andamento di quella stagione sembrava smentire ogni statistica o convinzione. Eravamo alla fine di agosto e non pioveva da mesi ormai. Qualche sporadico e debole temporale aveva solo aumentato la sensazione di disagio… e fiaccato la speranza. Avevo all’incirca undici o dodici anni ma dimostravo più della mia età. Era la metà degli anni settanta. Una ventina di pecore sbilenche, dopo la tosatura, mostravano ancor più la loro triste magrezza. Poi cerano le quattro mucche e i tre vitelli che non se la passavano meglio. Mio padre, facendo la proporzione con le magre risorse economiche, aveva sostenuto un grosso investimento recintando col filo di ferro spinato alcuni ettari a bosco e prato, perché i nostri animali potessero pascolare liberamente; ma ormai c’era ben poca erba da pascolare. Le povere bestie si arrangiavano come potevano, e tuttavia facevano bene il loro lavoro. Il sottobosco non era mai stato così pulito. L’erba era perfettamente rasata quasi dappertutto, persino nel letto scosceso del torrente in secca, e non c’era quasi più traccia dei piccoli cespugli arbustivi; le minute piante superstiti mostravano i morsi disperati dei ruminanti, ma c’era il vantaggio di poter camminare nel bosco senza alcuna difficolta. Oggi, queste forme d’allevamento sono quasi del tutto scomparse, ed è diventato pressoché impossibile addentrarsi negli stessi boschi, per l’intricata vegetazione di spine e rovi. E’ cambiata anche la fauna tradizionale, con l’aumento delle volpi, la proliferazione dei cinghiali, e persino la ricomparsa dei lupi… di più antica memoria. Come tutti i pomeriggi, assolvevo l'incarico di radunare le bestie nella zona del pozzo, nella radura a valle del bosco dei cerri, dove si sarebbero dissetate prima di ricondurle nella stalla, per la notte. Il sole era ancora alto sull’orizzonte quando raggiunsi il pozzo all’ombra degli olmi. Le braccia dirigevano con gesti precisi la corda e il secchio di ferro nell’imboccatura circolare del pozzo in pietra. Il secchio pieno risaliva rapido, seguendo lo sforzo ritmato delle braccia; la corda occupava posto nella mano sinistra, e la destra rovesciava il secchio nella vasca di pietra, dirigendolo ancora a mordere l’acqua… e così via, fino a quando la grande vasca fu piena. E allora si consumava il rito della sera… quando immergevo finalmente il capo nel secchio dell’acqua sorgiva. Più che un rito, quella era la ricompensa del giorno. L’acqua fredda procurava un bellissimo effetto, e bastava resistere alle punture di un milione di aghi, per riemergere solo quando i polmoni reclamavano prepotentemente il respiro. Quello era davvero il momento più bello della giornata. I sensi andavano alle stelle, la vista acuita, e tutto assumeva un significato più bello. I capelli si sarebbero asciugati presto al sole meno opprimente e mi diressi verso il bosco, accompagnato dal solito canto delle cicale, dove avrei radunato gli animali. Ad ogni passo sollevavo sbuffi di polvere sul viottolo, tra residui di pietosa erba ingiallita, e lì avvenne l’incontro: La vipera era a difesa… immobile… a forma di biscotto. La riconobbi subito per il muso leggermente rialzato e per le pupille verticali degli occhi… che mi fissavano. La lingua biforcuta guizzava saggiando l’aria. Ero armato della mia inseparabile piroccola (un bastone liscio con una grossa protuberanza a una delle sue estremità). Il primo istinto fu di colpirla, ma qualcosa mi trattenne, e quel qualcosa… era l’occasione! Il ragionamento fu istantaneo: Perché ucciderla, quando invece avrei potuto catturarla? Già, ma perché catturare un animale così pericoloso? La domanda… ma di fatto non ragionavo come ora e, in ogni caso, nessun bambino pensa come un adulto. Allora mi consideravo come un essere potente e invincibile… forse persino immortale. A tal proposito m'immedesimavo molto nella figura del mio eroe preferito, ovvero il mitico ZAGOR dei fumetti (za-gor te-nay, dal linguaggio indiano, che sta per LO SPIRITO CON LA SCURE). Il fumetto mensile che acquistavo al prezzo di 200 lire. Beh… io mi sentivo forte come lui, non avevo una scure come la sua ma la mia “piroccola” faceva il suo dovere, ed ero capace di passare da un albero all’altro proprio come faceva lui. Insomma, il rischio era la mia occupazione preferita. Poi c’era la mia amica cornacchia, che mi osservava dalla cima dell’olmo. L’avevo prelevata l’anno prima, dal suo nido, quando era molto piccola, e l’avevo allevata con tanto amore, cercando di addomesticarla. L’opera era riuscita solo a metà perché, in effetti, la furba ormai si avvicinava soltanto quando le davo da mangiare… senza mai farsi prendere. Poi capitava, come in quel momento, che mi seguisse nei miei spostamenti, quasi come un’ombra, e questo mi dava comunque un grande soddisfazione. E perché non provare ad addomesticare una serpe? La vipera ruppe gli indugi, scivolando a zig-zag nella polvere, e l’adrenalina ormai aveva invaso il mio cervello. Gli occhi avevano la presa completa su ogni suo movimento, e guidarono con precisione millimetrica il piede sulla sua testa, senza premere troppo per non schiacciarla, ma abbastanza da impedirle ogni via di fuga. Con il laccio una scarpa legai la coda, e il gioco fu fatto. La guardavo allegro e compiaciuto, mentre la portavo a spasso… penzolante e indispettita. Tenendola per terra avvicinai il piede, e osservai lo scatto fulmineo, la bocca aprirsi, e i denti ricurvi mi parvero troppo lunghi, rispetto alla dimensione della testa, mentre intaccavano la suola… sulla punta della scarpa. I successivi esperimenti dimostrarono che il rettile, che sapeva solo mordere, aveva esaurito le su energie e non reagiva più alle mie sollecitazioni. L’adrenalina era finita. Era diventato un gioco stupido e banale.
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