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Cane Bianco

di Raffaele Sergi
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Pubblicato il 06/06/2015 00:30:10

Cane Bianco
(Morte di un clochard)

Voglio dirlo: non è stato che un momento per lui,
piccolo e insignificante
            – molte volte deve averlo lasciato cadere –
ovvero un respiro chiuso,
un respiro gelido in equilibrio dentro un occhio cieco.
Eppure
un solo colpo di luce, lineare,
o un frammento senza tempo
e un mondo intero è crollato
in coriandoli di cristallo e colori
        – come gioia infinita, come luce, luce soltanto.
    Esattamente un viso degno del tempo il suo,
esattamente un viso sacro
        – a immagine e somiglianza di Dio, dicono,
– ma, reale in assoluto, un viso scontato,
scavato, modellato dal grigio dei muri e scolpito,
un viso digerito in sordi sospiri come un frastuono
che si perde lontano,
    sempre più lontano;
una morsa al fiato, un dolore dentro i polmoni,
e il ricordo di un magnifico rivedersi, fotografarsi,
    respirarsi che non ha fine
dentro i locali sotterranei
    in cui filtra la luce radiosa che dal vetro
trafigge il corpo e dice: “Sei tu!”
    Sei tu, ovunque ti possa trovare,
sei tu quando ti affacci
alle sudicie vetrate – ed io, vilmente nascosto, lo vedo –
sei tu e può dirlo chiunque.
Chiunque!
Anche Cane Bianco, nel suo angolo sbadigliando,
lo nomina – e lui lo ama da sempre.
Lo amano da sempre il bicchiere, la porta chiusa
e il giornale di domani, il silenzio che brucia il tempo.
Il tutto (Sei tu? Perché mai, mio Dio?)
staccato dal muro, con un grido,
con al polso un orologio rotto, dal tempo perpetuo,
con tamburi e ritmi frenetici della sua musica,
reminiscenze degne d’un Déjà vu
– come gioia infinita, come luce, luce soltanto.
Il sole ha le sue cadenze, ad ogni gesto e non-gesto,
date da case sepolte ad esempio, da vicoli senza nome:
vi sono templi marmorei, costruzioni oblunghe come bare
in una città come Torino,
in una città come il deserto del Sahara,
colme di frenetiche sagome
in attesa nelle Stanze di Sicurezza,
            nei Dormitori e nelle Saune Pubbliche.
Cane Bianco si curva,
posa il muso sopra una lastra di ghiaccio
– è un convalescente nella penombra
        di una stanza sepolcrale;
Cane Bianco si lecca un avambraccio
                    piantato nel fianco
nel centro d’una città come Utopia
o Saint-Pierre in mezzo al mare.
“Fuori, fuori più in là, fuori dalla cornice,
è là che vado
Signora della Luce!
Certamente porto lo stomaco in una carriola qui,
ma io so aspettare, so meditare, so digiunare”
– alzando gli occhi vede un cadavere simile a se stesso
sdraiato sulla terra battuta
con lividi al posto degli occhi:
il freddo lo sbianca, lo sbianca,
        il freddo lo sta sbiancando;
fra sagome attorno ritagliate teppisti
dipinti sui muri di cartapesta
distribuiscono volantini con su scritto:

Pregasi automobilisti
essere più prudenti,
ai migliori
una Bibbia rilegata
in omaggio

    Il cane non ha nulla a che fare con Lui.
Cane Bianco del resto attraversa la strada noncurante,
ha sonno, è stanco
    – Lui non ha sonno, non è stanco.
E se voglio dirlo,
    ridirlo, ripeterlo ancora, ecco:
        si sorprende senza più voce né corpo,
fumando sigarette al sapore di mandorla amara,
rammentando labbra sigillate di nemici
in un dissipato sentiero di guerra.
Si guarda il pelo lanoso che cresce,
                    bianco e candido,
lentamente sulla scia stradale della schiena
e pensa anche di scodinzolare.
Ma (ripeto)
Cane Bianco oltrepassa un viale alberato di libertà
mentre Lui si è addormentato
            sanguinante sul letto della terra.

27 marzo 1979


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