In uno dei miei non rari sogni mi trovavo sul Monte Ararat apparentemente teso a trovare non proprio un tesoro, di quelli classici (anche perché da quelle parti, che si sappia, non è mai finito un pirata) ma qualcosa di più prezioso come ad esempio conchiglie fossili custodi di chi sa quali segreti. Ne avevo già dissepolto tra grandi e piccole molte migliaia tanto che accumulate – e da lontano – potevano ben dare l’idea di un nuraghe. Non mi bastavano però; prima di iniziare l’opera di demolizione (essendo noto che una volta aperte, le conchiglie, perdono qualsiasi valore) volevo scovare la custode di tutti i misteri dell’antichità e sopratutto di quello che attiene alla nascita dell’alfabeto. Qualcosa mi diceva, mi imponeva quasi di dovermi trasformare in archeologo perché solo così avremmo messo un punto fermo nella vera genesi. Era intuitivo come essa non potesse non essere apparsa su quel monte, al di là della facile narrazione secondo cui la sua fama è legata all’Arca. Sarà pure vero, mi dicevo durante lo scavo, che attraverso quell’imbarcazione e quell’ubriacone di Noè sono state salvate le specie animali, ma i fossili? Eccomi allora lavorare con più lena finché – ormai esausto – picchiando sodo e soltanto con le nocche sento un rumore sordo, un richiamo. “Ci siamo”, mi sussurro. Non posso però continuare, sono stanco per effetto di una notte insonne passata a disseppellire conchiglie e pietre (scambiate per conchiglie). “Meglio rimandare a domani”.
Stavo quasi per cedere alla tentazione allorché, ricordandomi di come, mai si sia saputo di un sogno che abbia avuto un seguito il giorno dopo (ai sogni non si comanda! esattamente come al cuore) decido malgrado tutto di proseguire nell’opera di scavo: e cosa scovo dopo poco? Un intero blocco di arenaria a forma di cassaforte con tanto di maniglia tipo volano e con sotto una stampigliatura. Incurante del pericolo – essendo la stampigliatura composta di numeri e lettere, tra cui molto ben visibile la scritta Achtung – aziono la maniglia secondo le nostre solite modalità, e niente. Riprovo nel senso inverso, stesso risultato. Mi sfianco addirittura nel provare tutte le possibili soluzioni a ciò che sta diventando un mistero nel mistero, nulla da fare. Ormai infastidito; allo stremo; all’estremo della pazienza lascio perdere e mi avvio per la scarpata. È a questo punto che dalla sommità più alta dell’Ararat mi arriva un suono che percepisco e traduco immediatamente in una vocina. Mi dice: “Non arrenderti, il tesoro è là che ti aspetta. Pronuncia la parola magica che hai già appreso, che ti ho insegnato sebbene non abbia voluto praticare il suo stilema. Vedrai. Basta questo e la parola poesia, quasi fosse un grimaldello, ti aprirà la porta della cassaforte”.
Che scemo! È vero! Chi sa quando e chi sa dove avevo letto di POESIA, POESIE, POETI, MENESTRELLI (persino guidandomi ma questo non credo proprio si attagliasse a quel genere di composizione in versi, e talvolta in versetti: almeno all’inizio). Come non averci pensato. Ovvio che se la cassaforte resiste all’effrazione è perché vuole continuare a proteggere il mistero. Vuole cioè che tanti altri ci provino a svelarlo senza però mai riuscirci altrimenti addio poesia. In verità la voce del santone – se era un santone – non è che mi fosse stata perfettamente udibile, decifrabile. È possibile infatti che mi dicesse altro come ad esempio “Rinunciaci, oppure svelli quel pezzo di montagna dove ti sembra di aver trovato la chiave della sapienza poetica; caricatelo sulle spalle e portatelo a casa per quindi lavorarci sopra non proprio di bulino o con la fiamma ossidrica bensì con quella poca pazienza che a voi genere umano è rimasta”. Non nego che presi alla lettera tale suggerimento. Lavorando più con le unghie che con le mani, e servendomi invero anche di una valva di conchiglia (l’unica aperta, piena solo di sabbia e di nient’altro) estrassi quella che si preannunciava come una cassaforte, e invece di caricarmela sulle spalle (non essendo io forte come Sisifo) la feci rotolare lungo la scarpata.
Mossa intelligente, frutto non so se di esperienza o di mancanza di mezzi diversi per aprirla. Alla fine del rotolamento quel blocco di pietra si scardina, lascia apparire una fessura ma ancora non basta a consentirmi di fare luce sul mistero (ovvio che intanto anch’io sono finito a valle). Ci vogliono ancora chi sa quanti altri sforzi. Bisogna perciò che mi riposi. Mi colloco pertanto ai suoi piedi (piedi tanto per dire) e prendo sonno. Non passano però che pochi istanti e riapro gli occhi, le orecchie e la mente. Mi arrivano infatti dei suoni simili a quelli del violino che presto si trasformano in un concerto accompagnato dalla voce di un solista, intervallata da quelle di un coro a bocca chiusa. Non capisco bene se sia un concerto o un concertato ma fa lo stesso; mi dice che devo riprendere la marcia verso la verità (confusa, però, a mio parere, per disvelamento del mistero POESIA). “Non perda tempo: c’è chi aspetta di conoscere le regole; chi di liberarsi delle angosce esistenziali; chi è tormentato dall’indecisione, dal to be (poet) or not to be.
Mi commuovo. Capisco che da me, dal mio sforzo, dipende la vita di tanti poeti in fieri o già tali senza tuttavia ancora il crisma dell’ufficialità che solo potrà essere dato da ciò che contiene la cassaforte. Riprendo dunque il lavoro con nuova lena usando questa volta per grimaldello la parola chiave che mi era stata insegnata dal sapiente, un tempo maestro di Franco Spena.
“Apriti cielo”!, al posto di “Apriti sesamo”, e il cielo si aprì. Lasciò cadere un bel po’ di poesie senza nome apparente ma attribuibili al predetto Spena. Chi ce le aveva messe, per me quella notte, fu un mistero: non diversamente da quando seppi che egli si era dedicato successivamente all’arte moltiplicando all’infinito le funzioni dell’alfabeto, in chiave propedeutica alla creazione di una nuova torre di Babele. Soddisfatto di avere fatto la mia parte lasciai da canto tutte le altre problematiche affidatemi dal sogno e mi misi quindi finalmente a dormire. Col proposito di leggere quanto prima le poesie di cui è fatta la silloge che quel poeta ha voluto spedirmi in anteprima.
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