Pubblicato il 30/07/2010 12:00:00
[ Recensione di Enzo Rega ]
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Il Libro primo del quadrimestrale di letteratura contemporanea e arte “Secondo Tempo” è uscito nel lontano 1997. Ora la rivista, diretta da Alessandro Carandente, edita da Marcus Edizioni di Napoli, è arrivata al suo Libro Trentanovesimo, segnalandosi come sicura presenza nel nostro panorama letterario e culturale e come laboratorio creativo e intellettuale di un buon numero di autori. Non disdegnando inoltre il fecondo intreccio di arti, ogni volume reca in copertina l’illustrazione di un pittore: nel corso del tempo sono state riprodotte opere di Mario Persico, Renato Barisani, Carmine Di Ruggiero, Giuseppe Antonello Leone, Natalino Zullo, Ugo Poli, Andrea Spàraco, Marino Marini, Eduardo Chillida, Ernesto Tatafiore, Vincenzo De Simone, Alexander Calder, Clara Rezzuti, A. Rodin, S. Vitagliano, Claudio Lezoche, Armande De Stefano, Luciano Vadalà, Luigi Franzese, Mario Apuzzo, fino al suggestivo A spasso con l’anima dello “schivo” Pino Latronico per quest’ultimo fascicolo (e in quarta, sempre di Latronico, un particolare da La ninfa impudica mostra il suo verde giardino). Per diversi numeri i redattori non si sono limitati a impaginare i contributi nelle sezioni previste (Testi inventivi, Interventi critici, Recensioni), ma sono usciti alcuni fascicoli monografici destinati così a divenire volumi di riferimento nella bibliografia relativa agli autori analizzati. Se non sbagliamo, otto sono tali fascicoli monografici, dedicati rispettivamente al critico d’arte Filiberto Menna (1926-1989), al poeta casertano-versiliano Elpidio Jenco (1892-1959), al critico e storico dell’arte Giovanni Carandente (1920-2009), al poeta Gianni Scognamiglio (1922-1976), “rimosso dalla critica e sconosciuto alla letteratura italiana”, al matematico Renato Caccioppoli (1904-1959), al poeta Franco Cavallo (1929-2005), alla scrittrice Rubina Giorgi e al filosofo Guido Zingari, prematuramente scomparso nel terremoto d’Abruzzo. Questi ultimi due nomi fanno capire come nelle interazioni care alla rivista rientri anche a pieno titolo la filosofia, non per forza nella sua declinazione estetica. Per quanto riguarda questo recente trentanovesimo fascicolo, esso torna alle consuete rubriche, senza impostazione monografica, anche se, nell’imminenza della sua scomparsa, è sembrato giusto e doveroso “ritagliare” uno spazio per ricordare Edoardo Sanguineti, con il quale, come scrive Carandente nel suo Editoriale, “se ne è andato uno dei pilastri della cultura del secondo Novecento italiano, un protagonista della neoavanguardia” (p. 6). Riferimento questo che fa intendere, se ce ne fosse bisogno, come la rivista sia ancora attenta a quanto s’è mosso tra avanguardie e neo-avanguardia, anche se non tutti i collaboratori più assidui possono ascriversi a queste aeree e a questo tipo di approccio al fare poetico: segno della volontà di dare testimonianza en plein air del divenire delle arti, per l’appunto senza chiusure. Un divenire ulteriore auspicato anche dalla citazione da Sanguineti posta in apertura di fascicolo: “Per legge di natura, è fruitore adeguato della poesia, propriamente parlando, soltanto colui che si accoppia ocularmente con i versi al fine di generare nuove rime e nuovi ritmi, salvaguardando così la sopravvivenza di un genere ormai notoriamente dinosaurico, se non addirittura fenicico” (p. 8). Di pugno di Sanguineti vengono riprodotte sue cartoline (una firmata anche dalla moglie Luciana) indirizzata a Alessandro Carandente e cinque lettere, battute a macchina con firma autografa, inviate tra seconda metà anni Ottanta e inizio Novanta a Franco Cavallo, nelle quali il poeta genovese fa riferimento, tra l’altro, alla rivista “Altri Termini”, gloriosa testata napoletana e a una schiera di alcuni (allora) giovani intellettuali salernitani e napoletani che si occupavano della sua opera. Chi è meno giovane, ma pur sempre e ancora valoroso combattente sul fronte delle lettere e delle arti, come G. Battista Nazzaro, scrive: “Edoardo Sanguineti ci ha lasciato […] portando via con sé una parte cospicua della nostra giovinezza lontana, quella […] delle lotte, perciò, portate su fronti diversi pur di renderla (la vita) libera e degna di esser vissuta nel segno delle tante battaglie combattute, per capovolgere l’ordine istituito nei cagli stessi del nostro quotidiano vissuto e liberarla con una sconvolgente epifania di nuove parole e nuove forme di cose e pensieri” (p. 59). Con un riferimento dunque agli anni Sessanta e alla valenza politica anti-borghese del disordine perseguito dalla neoavanguardia, contro appunto quell’ordine costituito. Il verso lungo sanguinetiano, tale solo per “simulazione sémiologique”, come ancora osserva Nazzaro, introduceva anche, con la pratica di un “linguaggio compromesso” (oppositivo rispetto ai feticci consumistici) all’esercizio d’un pensiero vissuto come “rivoluzione permanente”. Un Sanguineti, come ricorda sempre Nazzaro, che non poteva rimanere insensibile alle Revolverate di un Gian Pietro Lucini, lo “sciancato” e “consapevole anarchico demolitore”, autore da lui imposto all’attenzione della cultura italiana, anche se poi il poeta e critico genovese andava a discettare (gramscianamente e non ) d’un qualche “chierico organico”. Un “chierico rosso”, però, come poi ricorda nel suo intervento Gerardo Pedicini, che di Edoardo Sanguineti dice, prima riassumendo quanto è stato scritto in occasione della sua scomparsa e poi aggiungendo di suo: “Alchimista dell’avanguardia, ideologo del Gruppo 63, versificatore parodico e grottesco, lettore acuto e avventuroso, ironico affabulatore, ragione della fantasia, e via di questo passo. Di certo, Edoardo Sanguineti è stato tutto questo, ma anche altro: tagliente e lucido polemista, attento critico militante, profondo e dotto saggista (mobile e plurale tra Dante, Marx e la psicanalisi), tenace demolitore/rinnovatore delle consuete abitudini narrative. Insomma, un raffinato e colto intellettuale, un chierico rosso, come lui stesso si definiva” (p. 639). Una poliedricità, osserva sempre Pedicini, che non rese certo facile la vita a Sanguineti, dalle incomprensioni con Pavese, Pasolini, Fortini e Eco, all’ostracismo del mondo accademico che lo costrinse a rinunciare alla cattedra vinta a concorso all’Università di Torino per accettare l’incarico di professore straordinario a Salerno su invito di Carlo Salinari. Per quanto riguarda poi gli altri Interventi critici ospitati in questo numero di “Secondo Tempo”, ricordiamo, di Arturo Carlo Quintavalle, Giovanni Carandente: appunti per una vicenda critica (“Scrivere di Giovanni Carandente come storico dell’arte è difficile per molte ragioni: perché ha proposto ricerche sull’antico fin dal tempo della sua presenza in Calabria e in Sicilia, perché ha avuto una posizione di avanguardia nell’ambito dell’arte contemporanea, perché è stato uno dei pochissimi in Italia a mantenere un dialogo con molti dei protagonisti dell’arte in occidente dagli anni ’50 e ’60 in poi. Ma sopra tutto la indagine è difficile perché Carandente ha vissuto in un momento di grandi contrasti ideologici e le sue scelte sono state diverse, non conformiste, attente a una riflessione che non è certo omologabile ad altre”; p. 69); quello linguisticamente funambolico di Raffaele Perrotta, meno ricognizione critica che personale performance, su D’Annunzio fiumano (“un esaltarsi di corpi e anime, l’anfiteatro che abbraccia non più presenti anonimi ma danzatori protagonisti della festa teatrale, dove – festa teatrale – concorso di linguaggi. ¿irripetibilità del giorno solare?”; p. 75); il Viaggio tra memoria e immaginazione che Raffaele Urraro ha dedicato al romanzo Controfigura (Marsilio) di Luigi Fontanella (“[…] anche in questo romanzo Fontanella disvela, proprio come nelle sue opere poetiche, la sua duplice natura di uomo e di intellettuale e scrittore: da un lato la natura lirico-sentimentale dell’uomo del Tirreno, fatta di sogni, di nostalgia della memoria, di abbandono delle ragioni del cuore; dall’altra il senso della concretezza e dell’osservazione del reale, l’oggettività della narrazione dell’uomo d’oltre oceano” (p. 94); infine le considerazioni di Carlo D Legge Sui differenti pensieri dei filosofi a partire dal confronto tra Nietzsche e Heidegger sui temi del nulla e dell’essere e per riflettere su come un filosofo ne interpreti spesso un altro a suo modo, come appunto Heidegger fa con Nietzsche: ma Heidegger stesso teorizzava – aggiungiamo – il carattere inevitabilmente appropriante di ogni interpretazione. Quello stesso Heidegger che osservava che, al di là dei pur differenti approcci, ogni filosofo finiva per pensare sempre lo stesso pensiero di tutti gli altri “colleghi”. La sezione dei Testi inventivi – in realtà posta all’inizio – sgrana una serie di bei nomi: Gianni Scognamiglio (“se tu mi fossi una coltre d’oblio, | un asilo dal vento, dalle ombre, | in te, fiorirebbe il mio viso, | su un albero di ceneri, nel cielo”; p. 12); Gerardo Pedicini (“questa è la via, questa è la casa e questa | è l’aria buona di Napoli | che sigillammo nell’ampolla di vetro | sulle scale della pedamentina di S. Martino”; p. 15); G. Battista Nazzaro (“naviga l’occhio | nell’orbita cava estremo rifugio di torba e di ombre | come la falce all’interno del tempio | fra nicchie e altari resi più freddi dal gelo invernale | per tenere ebbrezze appena stanate tra i lumi dei ceri | e le ampolle deposte sui marmi saturi d’orme”; p. 25); Salvatore Violante (“Fiati di mondo in moto, | cieco vento | che spira e fa da specchio ad ogni mano, | l’occhio che guarda dentro… | lo sgomento | della scoperta, | il peso, | il suo pantano”; p. 33); Alessandro Carandente (“Una volta entravo in classe e dovevo invitare i ragazzi ad alzarsi per il saluto formale al professore. Oggi li devo invitare, e ripetutamente, a sedersi”; p. 39); Alfonso Malinconico (a proposito di Diogene: “Quando dormiva nel portico di Zeus | per riscaldarsi faceva un bel focus | e lì senza vergogna | faceva la bisogna. | Gridava a squarciagola: «Fragramus! »; p. 41); Domenico Cara (“Già, sono stato questo aspetto della sinistra psiche, | quando ho pensato il futuro un intatto pallore, | un conto già sospetto, trascritto per il segreto | destinatario, chissà in quali crinali, o altra rondine”; p. 51). Una bella sventagliata, dunque, di possibilità di pratica poetica: anche qui, in fondo, heideggerianamente, variazioni sul tema di fondo, modalità diverse per giungere al Grund: che sta appunto per fondo, per ciò che conta e che sta nascosto in attesa d’essere svelato, in qualche modo. Infine, con recensioni che talvolta diventano brevi saggi, Alfonso Malinconico scrive di Nadia Cavalera e di Franco Riccio; Salvatore Violante di Daniela Zincone; Raffaele Urraro di Gerardo Pedicini e Regina Cèlia Pereira da Silva di Raffaele Urraro. In centosedici pagine, c’è da leggere.
E. R.
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