Pubblicato il 24/01/2009 17:53:29
La ragazza che gli sorrise sotto le palpebre viola aveva occhi celesti e labbra di fuoco che sapevano di zucchero filato. Una fitta nebbia avvolgeva il parco cittadino con un cotone sporco e grigio. Le luci del lunapark, il suono della musica gli pareva giungessero da lontani spazi interstellari. “Vuoi provare?” Gli disse “Ci sono ricchi premi” Era uscito per fare una delle solite passeggiate senza meta, e senza volerlo s’era diretto verso il giardino pubblico, forse attirato da quei misteriosi fumi, bagliori e suoni che promettevano un mondo diverso dal solito fatto di case basse, strade rettilinee, piazzette spoglie che costituivano i quartieri della città oltre torrente. I ricchi premi consistevano in un pupazzo di stoffa dall’espressione malinconica, un pesciolino rosso in una bolla di vetro, poco più di un bicchiere, una grancassa di latta in miniatura. Se avesse avuto un figlio o dei nipotini, avrebbe avuto almeno un motivo per sparare a quei cavallucci di plastica dalla forma malamente abbozzata, che costituivano gli inermi bersagli del gioco. Pensò di tentare ugualmente per mettere alla prova la sua abilità di tiratore scelto, così lo insignirono da militare, ma erano dieci anni che non imbracciava un’arma. Sparò dieci colpi: naturalmente il fucile era truccato e i cavallucci poterono continuare la loro corsa scandita dalla triste musica del carillon. La ragazza rideva scotendo i riccioli biondi scarmigliati: “Non avete fortuna stasera” “Pare proprio di no, ma potrò rifarmi al gioco della pesca” disse deponendo il fucile sul bancone. Il gioco della pesca era nel banco successivo. Bisognava pescare con un retino i pesciolini di plastica che nuotavano nell’acqua di un piccolo stagno agitata dalle pale di un mulino. Il gioco era governato da un ragazzo che non doveva avere più di venti anni al cui viso due grossi baffi conferivano un’ambigua maturità. Lei lo fissò con occhi improvvisamente seri: “Se vuoi, quando arriva mia cugina a darmi il cambio, puoi accompagnarmi a casa, non dovrebbe tardare” Alfredo si fermò al tirassegno. Era passato dietro al bancone e porgeva il fucile ai giocatori. La ragazza metteva su la musica e ritirava i soldi. Adempiva a queste funzioni con ammirevole serietà. “Questa la dedico a te” disse quando cominciarono le note della colonna sonora del film “Il dottor Zivago”. Lui non rispose. La musica irrompeva a tutto volume evocando immaginari campi innevati dove la slitta del dottore scivolava divenendo sempre più piccola e nell’allontanarsi lasciava posto nella sua mente, con una fitta di nostalgia, all’immagine della spider rossa dello studente di Medicina che gli aveva portato via Gisella, l’unica donna della sua vita, se di donna si poteva parlare, Gisella infatti era poco più di una ragazzina, aveva allora sedici anni e lui non ne aveva ancora diciotto. Studiavano nello stesso Liceo. Ogni giorno facevano insieme la strada di casa. Quando lei s’accomiatava dalle amiche, camminavano in silenzio, scambiando ogni tanto brevi commenti sulla giornata, frammenti di una conversazione che non decollava mai, forse perché lei non aveva argomenti e lui era troppo timido. Non aveva avuto il coraggio di chiederle di uscire al pomeriggio, di andare al cinema o altro. Fino a che un giorno, all’uscita di scuola, mentre lui aspettava che lei salutasse le amiche, Gisella gli fece un breve cenno con la mano e salì su una spider rossa che la portò via. Da allora tutte le mattine, all’uscita di scuola, c’era quella spider ad attenderla, il cui proprietario, seppe poi, era uno studente di Medicina alcuni anni più grande di lui. Alfredo ne sofferse moltissimo. Odiò a tal punto gli studenti universitari che dopo il diploma non volle continuare gli studi, con grande disperazione della madre che voleva fare di lui un ingegnere navale, come il padre, che era morto schiacciato da una putrella d’acciaio nel cantiere. Quella musica gli metteva tristezza e pure quel gioco semitrufaldino lo amareggiava. S’era pentito di aver promesso alla ragazza d’accompagnarla a casa. Quando arrivò la cugina, una moretta che sprizzava un’incontenibile allegria dagli occhi nerissimi, la ragazza gli fece cenno col capo che potevano andare. Si avviarono per il viale, tra i giochi del lunapark. Molti gestori salutavano la ragazza che procedeva a testa alta, felice forse di sfoggiare quell’accompagnatore dall’aspetto distinto. “Dove abiti?” Le domandò Alfredo “In fondo al parco, al limite del bosco” A nord il parco si continuava con un bosco di betulle abitato da ghiri e scoiattoli. Un luogo che evocava nella mente d’Alfredo le fiabe dell’infanzia. Passato il lunapark s’inoltrarono nella nebbia appena rotta dalla luce dei fanali sempre più radi che rischiaravano il marmo delle statue neoclassiche. Procedevano mano nella mano, come due innamorati, scambiando pochi sorrisi. “Non mi hai detto nemmeno come ti chiami!” “Maria. Anche io non so il tuo nome” “Mi chiamo Alfredo, come quello della Traviata. Conosci l’opera? Mio padre era un fanatico di Verdi e quando sono nato mi ha messo questo nome. Amami Alfredo, quanto io t’amo!” si mise a cantare. Era felice, come non era mai stato in vita sua. Forse camminare in quel mondo sfocato dalla nebbia, con l’orizzonte tangibile a non più di due passi, in compagnia di una ragazza, perfetta sconosciuta che gli stringeva la mano, lo compensava del lunghissimo tempo di solitudine a dialogare con se stesso, a scambiare scarne parole con la vecchia madre, e poi neppure quelle. Maria rideva: “Davvero dice proprio così: amami Alfredo?” “Certamente: amami Alfredo, quanto io t’amo. Violetta era una prostituta e Alfredo, giovane poeta, s’era innamorato di lei. Anche Violetta infine l’amava. Ma il padre di lui le impose di lasciarlo” “Tu ce l’hai un padre?” Domandò Maria fattasi seria “No, mio padre è morto che ero piccolo. Tu ce l’hai invece?” “Io manco l’ho conosciuto. Senti, è bene che ci lasciamo a questo punto” Si guardava attorno pensierosa. “Non vuoi che ti accompagni fino a casa?” Le strinse la mano fino a farle male “E’ meglio di no” “Perché? A me fa piacere. Hai detto che non è lontano. Su, proseguiamo!” Aveva notato l’improvviso cambiamento d’umore di Maria e s’era pentito di averle parlato della traviata. “Perché sei triste? Fino a poco fa ridevi, poi, improvvisamente, ti sei rabbuiata” Maria sorrise. Erano arrivati al limitare del bosco e s’inoltrarono per un sentiero appena segnato tra le siepi di bosso e le betulle. “Ti prego lasciami, ritorna indietro!” Più s’inoltravano nel bosco più Maria era agitata. “Potresti voler bene a Violetta, anche se è una prostituta?” gli domandò a un tratto. Al cenno d’assenso di Alfredo aggiunse: “E se fosse una ladra?” “Che importa. Se lei mi amasse…” “E se fosse un’assassina?” avrebbe voluto aggiungere, ma la lama del coltello fu più veloce della sua parola. Alfredo, trafitto al ventre sorprese un’espressione di dolore negli occhi della ragazza. Caduto a terra sentì il calore del sangue che inzuppava la maglia sotto la camicia, vide l’ombra di un animale selvatico o forse di un ragazzo dai baffi neri, dall’espressione troppo seria, sul petto le mani incredibilmente piccole e sottili di Maria che gli sfilavano il portafoglio nella tasca interna della giacca. I due si allontanarono nella nebbia, mentre il bosco risuonava d’infiniti richiami e il freddo del suo corpo fu un tutt’uno col ghiaccio che induriva la terra.
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