Amore, sciogli il ritmo
delle mie acque tranquille,
sappi essere il dolore che trema e soffre,
sappi essere per me l’angoscia che si contorce e grida.
Pablo Neruda
Mentre il treno sfrecciava veloce, Mario inseguiva lo scorrere del paesaggio.
Il suo sguardo si soffermava sui terreni verdeggianti, sugli sparsi casali, sui radi campanili, sui luminosi terrazzi, sulle tegole integre e quelle sbiadite di qualche tetto, sulle rive ora sabbiose e ora ricoperte di sottilissima ghiaia e sullo zefiro del mare che si mostrava a volte tumultuoso e segnato di spuma e in altre placido.
Poi, intanto che i raggi del sole si andavano stendendo più in basso, tornò con la mente alla sua sposa nascosta, sentendola come se veramente fosse per lui profumata cipria sulle piccole e grandi cose che attraversavano la sua esistenza e dolendosi del fatto che non gli era stato possibile comunicarle la sua partenza.
Difatti la telefonata del medico che avvertiva delle difficili condizioni fisiche di suo padre, era giunta alle sette di sera. Cosicché lui, nel discutere sul da farsi con sua madre, aveva perso del tempo prezioso, per poter sperare di mettersi ancora in contatto con chi, specialmente in quel difficile momento, era il loro tramite sicuro, e cioè: con Carlo, il fratello per antonomasia, il consigliere, l’amico di Ilde.
Pertanto era uscito, andandosi a munire dell’orario dei treni e poi, nell’auspicio di vedere spuntare o Ilde o Carlo, si era nascosto nella profonda rientranza di un antico portone posizionato proprio dirimpetto alla porta d’ingresso dei Panara
Lì, aveva atteso tanto a lungo che aveva avuto modo di decifrare il nome di una sconosciuta famiglia Scoti sulla targhetta arrugginita attaccata su quell’uscio. Poi un forte temporale aveva investito le strade, e lui, disperato, era stato attraversato dalla follia di andare a suonare al campanello di Ilde.
“Ma bravo!” si era tuttavia rimproverato: “Catapultala in un pasticcio e poi fuggi lontano. Vattene da tuo padre, fai tutto ciò che ti pare, tanto che t’importa!”. Così pensando, si era diretto alla cabina telefonica, considerando che, se avesse avuto fortuna, all’apparecchio avrebbero risposto Ilde o Carlo. Purtroppo, non era stato così e soltanto il “pronto” gutturale del capofamiglia era giunto al suo orecchio.
“Per oggi è finita” aveva concluso deluso, accorgendosi che nel mentre era spiovuto e il cielo appariva terso. Si era sentito beffato persino dal clima, amareggiato e oppresso per la sua impotenza a contrastare il volere del padre delle giovane, l’ostinato e irriducibile Andrea Panara.
Era stato allora che aveva visto Maria tra un allegro gruppo di conoscenti. Sapeva che ultimamente si era invaghita di lui, e che lui, di conseguenza, aveva provato ad evitarla. Eppure, in quel momento, gli era corso incontro, come se in lei avesse visto l’unica salvezza.
«Sii benedetta Maria che incroci il mio cammino» avrebbe voluto dirle. Ma, contenendosi, aveva mandato in frantumi il suo pacchetto di Malboro e, sulla parte bianca del cartoncino, aveva scritto un semplice messaggio per la sua sposa segreta.
«Ti prego Maria dallo esclusivamente a Ilde e dille che sono dovuto partire di corsa, per favore!» concluse con fare implorante.
Lei aveva ingoiato a vuoto. “Tutto continua!” aveva costatato amara.
«Ti prego. È importante che lei lo abbia prima possibile».
L’altra l’aveva fissato con uno sguardo triste. Alla fine, aveva però preso il cartoncino e l’aveva messo in tasca, assicurandogli che sarebbe giunto a destinazione.
“Chissà se ha mantenuto fede a quanto ha detto?” si chiese adesso Mario, rivedendo la scena. E si sentì piuttosto stupido al pensiero che probabilmente la ricerca di una soluzione l’aveva spinto ad una scelta infelice.
Si continuò ad arrovellare tanto per quel gesto che il suo dispiacere gli diede conferma di non possedere più nulla di veramente suo o inviolato da quell’amore per Ilde. “Sono metà” ammise: “Sono metà e non sarò mai tutto intero, sino a quando non la avrò accanto”.
Poi, sentendosi oppresso, richiuse il finestrino del treno e sedette, ripensando al padre che se ne stava da anni in un ospedale psichiatrico del nord.
Si accorse presto che l’esistenza dell’uomo gli appariva un groviglio, una canna tesa che non aveva speranza di piegare, qualcosa che, suo malgrado, continuava a lacerarlo al punto, da fargli percepire come un pugno attanagliargli le viscere.
Osservò che mollare era un lusso che in quel frangente non poteva permettersi. E nello sforzo di riprendersi, osservò meglio le due ragazzine alquanto ciarliere che erano entrate nello scompartimento, andandosi ad accomodare proprio di fronte a lui.
Stimò che non potevano avere più di quindici anni ed erano molto graziose, ma anche sfrontate e provocanti come fossero il calco della famosa Lolita. Infatti indossavano due vertiginose minigonne che non riuscivano a coprire del tutto le natiche, dei pulloverini attillati che mettevano in evidenza le loro forme e inoltre sembravano fatte apposta per ridere, parlottare, ammiccare, lanciare messaggi in un codice maldestro.
Lui, per tutta risposta, esibì uno sguardo di disapprovazione e richiuse gli occhi infastidito. “Troppe smanie” pensò: “Troppe smanie e poca anima”.
Le due ragazze tuttavia, pur accorgendosi della sua occhiataccia, continuarono imperterrite il loro vacuo cicaleccio accompagnato dalle loro immancabili risatine. Alla fine, Mario comprese d’essere così saturo di sentirle che le guardò torvo e si riaggiustò nervosamente sul sedile.
Stavolta, a vedere quel gesto, miracolosamente le due ragazze si zittirono.
“È tornata la pace” considerò il giovane, tirando un sospiro di sollievo. E cullato dal dondolio del treno, dopo qualche minuto si appisolò.
Quando riaprì gli occhi si faceva sera. Avvertì che la sua pausa non era servita ad arginare la sua sensazione di malessere. Nondimeno, si sentì attratto dai due operai che, stando appoggiati alla porta dello scompartimento, parlavano animatamente in dialetto.
Colse dal loro sproloquio valanghe di imprecazioni contro le ferrovie che avevano soppresso un treno e che, quindi, per fare il loro turno di lavoro, li costringeva a prendere quello su cui stavano viaggiando e che, di frequente, non aveva più un posto libero.
Poi, come a riportarlo a viva forza al motivo del suo viaggio, il suo sguardo andò alla poltrona al limite dello scompartimento su cui stava seduto un distinto signore sui cinquanta con i capelli brizzolati, il volto imperscrutabile, lo sguardo esente da ogni più piccolo moto o sentimento.
“Poverino” considerò Mario, riscontrando nel suo modo di essere suo padre Filippo. E andò così indietro con la mente che rivide se stesso bambino e l’uomo ancora giovane nel blu notte del suo cappotto buono, intanto che lo conduceva alla messa domenicale ad ascoltare le irate prediche di padre Anselmo su quanto accadeva in quei giorni. E quasi riassaporò la fragranza delle caldarroste che lui gli comprava all’angolo della piazza da un’esile fanciulla che si chiamava Rosa: Rosa la poverina, Rosa che vestiva a strati, come un eterogeneo spaventapasseri senza vita.
Poi, allo stesso modo di un vecchio, inarrestabile film, ravvisò sua madre con i lunghi e ondulati capelli trattenuti da due miseri fermagli acquistati in una bancarella del mercato, vide i suoi zoccoli, i suoi striminziti vestitini, il suo paltò di lana beige, la sua espressione di disapprovazione che, allora, gli metteva paura, l’affanno del suo cuore intanto che lo stringeva a sé e, sotto il fragore dei bombardamenti, correva verso i campi.
Gli parve di udire persino la propria voce argentina di quando, strillando di gioia, rincorreva al vento le foglie secche del piccolo orticello che suo padre e qualche altro inquilino curavano, forse, scorgendovi, in quel momento a loro ostile, un piccolo riquadro benedetto.
Quanto tempo era passato e quante cose erano mutate?! Tanto mutate che la umile bellezza di quel periodo gli appariva quasi quella vissuta da un altro, soprattutto, se tornava con la mente alle disarmonie e all’angoscia conosciute in seguito.
Bastò quel pensiero a suscitargli visioni tanto amare da spingerlo a chiudere gli occhi e a riaprirli solamente al decelerare del treno.
Si rese conto che le due disinibite ragazzine e i due operai erano scomparsi e che l’uomo dallo sguardo assente stava raccogliendo le sue cose, per sparire subito dopo al di là del vetro.
Sentendosi infine libero, il giovane allungò le gambe sino a raggiungere il sedile dirimpetto e si preparò a gustare un indeterminabile periodo di pace che tuttavia, lo trasportò quasi inevitabilmente ad un momento speciale della sua fanciullezza: a quando, per festeggiare la fine della guerra, era uscito per le strade con i genitori.
*
In quei lontani giorni di fine estate, un’orchestrina suonava sulla piazza, i giovani ballavano gaiamente, le madri li guardavano intenerite, e i vecchi, evitando l’umido, sostavano sulle panchine sotto il porticato, osservando taciti e con gli occhi lucidi ogni cosa.
Filippo Mendò, preso da quell’aria festante, ammirò il colorato gruppo di ballerini e considerò che la vita era così mutevole che, ora che il tempo delle lotte fratricide e degli squadroni di soldati tedeschi per le vie era finito, gli appariva degna di essere vissuta.
Poi guardò suo figlio che saltellava, gravando sulla gonnella violacea di una loro vicina e si disse che avrebbe dato la vita per vederlo sempre così esultante. Ciò nonostante avvertì un senso di timore al pensiero che, adesso che il conflitto era cessato, sarebbe stato sicuramente più a rischio il lavoro della fabbrica d’armi in cui lui faticava da anni.
Fu allora che osservò Antonietta ridente e, scrollandosi a viva forza da quell’idea, le cinse la vita e la trascinò in un’interminabile danza.
Quella sera, quando loro tre rientrarono a casa, si stesero sul lettone e Filippo scherzò a lungo col bambino, gustando l’agognata serenità di quei momenti, ch’eppure percepiva potesse sfuggirgli, come acqua, dalle dita.
Infatti, come previsto, dopo qualche settimana il suo caporeparto lo chiamò in disparte.
«Il direttore vuole vederti» gli comunicò: «Però non preoccuparti: gli ho già detto quanto vali!». Cosi dicendo, l’uomo fuggì il suo sguardo.
Filippo sorrise amaramente al pensiero che quell’uomo non era avvezzo ad adulare chicchessia: «Quando devo andare?» chiese.
«Subito!» disse l’altro con fermezza, tornando in un istante l’uomo brusco di sempre.
Lui pregò un compagno di sostituirlo. Poi si diede una ripulita alla mani e si allontanò, sino a giungere all’edificio della direzione e suonare ad un’elegante porta all’inglese che non aveva mai oltrepassato prima d’allora.
Aprirono quasi subito, consentendo a Filippo di sentirsi catapultato in un mondo dove le armi e la guerra pareva che non fossero mai esistite ed ogni cosa non era conforme alle sue unghia sporche, anzi, indelebilmente macchiate.
Fu solo un attimo, poi guardando il volto della donna alla scrivania, notò il suo rossetto sbavato e la stanchezza che il sorriso non riusciva a camuffare, e pensò che, lì, ogni cosa era soffusa di lusso e di preziosi cimeli, ma che la verità di chi vi sgobbava era ben lontana da ciò. «Siete l’operaio Mendò?» chiese la donna con fare stizzoso.
Lui annuì.
«Il direttore la sta aspettando» gli annunciò. E si alzò, sistemandosi gli spenti capelli e guidandolo tra tappeti e mobili di classe, sino all’uscio aperto della stanza del capo.
«Ah, eccolo finalmente!» disse il direttore, alzando gli occhi dai fogli e abbandonando la penna. «È Mendò, vero?».
Lui assentì e l’altro, parandosi le labbra con il palmo, si schiarì la voce.
Filippo smise di fissarlo e pensò che quell’uomo all’apparenza mite e bonario, era conosciuto dai dipendenti come una brutta iena abituato a speculare con la vita della gente.
«Siamo costretti a ridurre il personale signor Mendò. La nostra è un piccola industria e, con la cessazione del conflitto, abbiamo ritenuto opportuno tenere soltanto qualche lavoratore del luogo. È per questo che lei sta nel gruppo dei licenziati… ma sa, in fondo ci dispiace: ci è stato segnalato che lei è un buon elemento».
«Anche noi di fuori abbiamo famiglia!» azzardò lui tristemente.
«È deciso dal gruppo dei soci, mi dispiace».
«Capisco, è deciso» ribadì Filippo.
«Ricordatevi» disse l’altro, alterandosi: «che l’azienda non decide mai di buon grado., che ogni cosa fatta è quella giusta. Va bene così: adesso ho degli altri colloqui. Potete andare».
Lui chinò dignitosamente il capo, ed uscì consapevole che, dall’indomani, avrebbe dovuto mettere gambe in spalla e trovare qualche lavoro nei dintorni. Ma durante la giornata assistette ad un continuo via vai da quell’ufficio, assorbì l’aria di lutto che spirava attorno e, comprendendo che non sarebbe stato semplice uscirne, tornò a casa scoraggiato.
«Non temere» lo rincuorò Antonietta: «Abbiamo attraversato tempi peggiori. Non ti pare?». E quella notte stettero stretti, confortandosi a vicenda.
Alla fabbrica, i giorni che seguirono furono accesi da urla, rimostranze, tafferugli che diedero risonanza alle rivendicazioni degli operai in uscita, ma li sfiancarono economicamente e moralmente. Poi, quando Filippo venne irrimediabilmente licenziato, tentò di rimediare al tempo perso, senza malauguratamente trovare occupazione alcuna, poiché in quel momento si respirava un’aria d’incertezza in cui ogni nuova possibilità d’inserimento risultava difficile, tanto che lui pensò di prendere armi e bagagli e tornarsene al suo paese.
«Non ha senso!» affermò Antonietta, ascoltando quell’idea: «Là siamo mare e sabbia, respiro e tragedia; perciò tornare laggiù significa accontentarsi per sempre di un’esistenza di stenti e d’assorbire veleno dal clima ostile che spira dalle nostre famiglie. No Filippo, è meglio restare qui e vedere di risolvere al meglio la faccenda».
Così, sempre sotto consiglio della donna, scelsero di trasferirsi a Milano, giungendo in tal modo ad una fatiscente abitazione periferica, in cui avevano affittato una camera per corrispondenza.
Qui si resero subito conto che le loro speranze erano state vane. Infatti esse s’infransero contro la viscida coppia di proprietari, le presenze ambigue che circolavano in quella casa, le difficoltà create, pure qua, da quella guerra che, per loro, pareva non essere finita del tutto.
Allora, Filippo gironzolò inutilmente per settimane alla ricerca di una attività, tirando avanti stentatamente con le poche lire che racimolava con qualche piccolo servigio nelle botteghe e sua moglie con dei lavori di cucito che, intanto, si era messa a fare. Tuttavia, in quel frangente, il Mendò si mostrò caparbio e resistente e, poiché la piazza offriva poco, lui pensò di sfruttare il suo fisico forte ed iniziò a offrirsi come scaricatore, faticando su traini, vagoni, camion con sopra merce d’ogni tipo.
Nondimeno era nuovo del giro e si vedeva sorpassare dagli anziani al punto che, c’erano settimane in cui il suo lavoro si riduceva a qualche ora al giorno.
Fu in quel periodo che Antonietta cominciò a ripetere all’infinito che in quella stanza ci stava male, che non sopportava le occhiate maniacali del padrone di casa e l’aria mielata con cui l’avvolgeva sua moglie, che aveva il dubbio che lì dentro si combinassero incontri, che non poteva più accettare di lavare suo figlio in quel porcile di bagno comune.
Filippo si sentiva ingabbiato da quei discorsi e spesso reagiva violentemente, dando inizio a battibecchi in cui finanche le cose più intime della loro vita venivano tirate in ballo e poste in discussione, nonostante la presenza del bambino e di chi, all’interno della casa, poteva sentirli.
Mario allora era già in età scolastica e, sebbene avesse vissuto le difficoltà e le tensioni della guerra, era cresciuto in modo armonioso e non aspettandosi di certo le urla di sua madre mentre diceva che era stanca di stare con un incapace, con uno che non sapeva farsi valere e non osava per nulla.
«Tu non sei troppo buono, sei solo troppo stupido!» concludeva spesso la donna, volgendosi al marito. E normalmente, quelle parole scatenavano le escandescenze di Filippo, e costringevano il bambino ad andarsi a rannicchiare nell’angolo dov’era posto il bacile ed a tapparsi le orecchie per non sentirli.
Quello fu l’inizio della fine per l’uomo, il periodo in cui lui iniziò a farsi qualche bevuta di troppo. «Forza amici, ancora un po’ di vino e tanta sconclusionata allegria» era solito dire ai nuovi conoscenti e avventori dell’osteria che aveva preso a frequentare.
Era un’allegria comprata a caro prezzo che gli svuotava le tasche di qualche lira guadagnata con fatica e poi lo lasciava abbattuto e spento. Ma, anche se non era contento di quello squilibrio che viveva, non riusciva a resistere alla tentazione del vino, perché esso gli mutava le prospettive e gli attutiva i dispiaceri.
Tutto aveva avuto inizio con un paio di bicchieri che era andato a gustare in quella bettola con un altro inquilino dell’abitazione in cui viveva. Allora, lui si era sentito leggero; perciò, nella speranza di ricreare quella sensazione, aveva proseguito ad andare in quel luogo e a bere, sino a quando il senso d’assopimento non raggiungeva il suo apice.
Esclusivamente in quel momento si sollevava dalla sedia e, preso da una gestualità sconclusionata, coinvolgeva qualche sedia o qualche vettovaglia e metteva a repentaglio la sua incolumità lungo il tragitto verso casa. Poi, giunto, s’andava a stendere a letto come morto, e al risveglio, definiva la sua ubriacatura liberatoria, rimproverando a quel vizio solamente il diabolico potere di tramutarsi in una cappa vischiosa che gli gravava in testa per parecchie ore del mattino.
Difatti si riempiva di improperi per quel fastidio, ma, cosciente che ormai non sarebbe stato capace di giungere a notte senza accostarsi alla bottiglia, diceva a se stesso che così doveva essere, giacché quel malcostume era così forte, perché troppo disperata era la sua vita.
Neppure il piccolo Mario con la sua carica di tenerezza e la sua ricerca d’amore, riusciva a trarlo fuori dalla sua nuova dimensione e, di frequente, la sera, mentre lui e sua moglie litigavano furentemente, il bambino si nascondeva sotto le coperte e dava sfogo alle lacrime.
Erano lacrime solitarie di cui neppure Antonietta pareva accorgersi; però, a lite ultimata, era lei che giungeva, lo accarezzava, lo trascinava al tavolino, metteva a scaldare il consueto brodo, gli spezzettava il pane raffermo sopra una linda tovaglietta, e gli parava dinanzi la tazza, come se il cibo fosse l’unica ricompensa a quell’andamento familiare malato.
Fu in quei primi e difficili anni vissuti a Milano, che il bambino s’inventò un amico immaginario, un essere etereo e biondiccio che gli donava a tal punto l’illusorio conforto di un dialogo da autoconvincersi che esistesse veramente.
Così, quando il bambino raccontava che il suo amico Fabio era stato con lui ed avevano giocato assieme, tutti quanti avrebbero potuto ripetergli all’infinito che era un bugiardo nato, giacché il Mario tradito, impaurito, indifeso di quegli anni, nonostante fosse troppo piccolo per chiedersi se l’antidoto che si costruisce l’uomo nei frangenti dipende dall’indole che possiede o meno, o se, grazie al riflesso morbido proiettato da quella figura d’amico, egli sarebbe riuscito o no a tenersi lontano dagli sbandati del quartiere, era però certo d’aver bisogno del suo Fabio anti-angoscia. Un Fabio su misura che lui avrebbe potuto chiamare il suo angelo, lo spiritello buono, la luce inviata dal cielo.
Quello era il suo oggi, ma il futuro era l’incerto, era nebulosa all’interno della quale né il bambino, né altri avrebbero potuto intravedere un solo, minuscolo contorno.
*
Infine Filippo Mendò si era ritrovato con un arretrato di diversi mesi d’affitto da pagare e un’intimazione di sfratto da parte del padrone di casa.
«Dovete andarvene» gli aveva detto quell’essere dagli occhietti porcini, consegnandogli la lettera: «Non vi integrate all’ambiente e inoltre non pagate».
Lui si era sentito sprofondare, ma aveva reagito con dignità. «Ce ne andremo volentieri» gli aveva risposto; «Questa topaia non è posto per noi».
Nondimeno quell’avvenimento gli aveva lasciato comprendere che il vizio del bere era da fermare, perché si sentiva troppo spento per pensare al lavoro. Perciò si impose di non accostarsi più alla taverna e ad impegnarsi per racimolare qualche lira.
Ma gli riusciva arduo e si sentiva sovente depresso e infelice: «Non sto bene» diceva alla moglie; «Non sto bene, lasciami stare». Si infilava sotto le coperte e se ne stava a occhi chiusi per giornate intere.
Quando al suo rientro Mario lo trovava ancora a letto, il suo piccolo cuore si stringeva al pensiero che, se il padre non avesse ripreso a lavorare, le liti con sua madre non si sarebbero spente.
Allora lo chiamava varie volte, sperando in un miracolo. Dopo, notando che il suo appello si perdeva nel vuoto, il bambino prendeva posto al tavolino, sentendosi tradito, frustrato, respinto, non amato.
Spesso Antonietta interveniva in difesa del figlio, strillando al marito che era un buono a nulla, che, almeno, in precedenza le sue fughe avevano avuto l’alibi dei postumi lasciati dalla sbornia; ma Filippo non rispondeva: la fissava e si rintanava nuovamente.
In questo modo trascorsero pesantemente oltre tredici mesi. Poi giunse per la donna la tanto sospirata occupazione.
Puliva gli uffici per un’agenzia immobiliare che ne possedeva diversi, ne puliva più che poteva, per saldare i debiti e pagare l’affitto delle tre stanze più servizi, che aveva trovato in un nuovo caseggiato di periferia; e quando rientrava, riprendeva a lavorare per casa, sostenendo che non poteva sopportare che suo figlio vivesse in un ambiente malsano o andasse in giro con gli indumenti sporchi.
Tuttavia, dal momento in cui si era liberata dei due brutti ceffi dei precedenti locatori, il suo lavoro di casalinga lo svolgeva volentieri, ritenendo che, pure se quella dove stavano adesso era una povera dimora colma di miserevoli cose, era però una dimora vivibile.
Ogni tanto, quando ce n’era necessità, dava una rinfrescata a Mario, gli infilava il cappottino marrone che gli era stato donato da una vicina compassionevole e che d’anno in anno gli veniva più piccolo e, dopo avere dato una sbirciata al marito, usciva col bambino, recandosi a fare un po’ di spesa.
Però quella incombenza elementare si tramutava in qualcosa di speciale per entrambi, poiché Antonietta, allorquando si sentiva di farlo, lo conduceva in centro a guardare le vetrine.
Guardare soltanto, perché comprare non si poteva. Lei vestiva suo figlio con degli indumenti smessi che la sua nuova vicina gli faceva avere periodicamente, acquistando qualcosa solo raramente.
La donna, in quelle loro passeggiate rubate al gramo destino, gioiva degli occhi lucidi e del sorriso di Mario, ma al tempo stesso, guardando le belle e eleganti signore che sostavano ai tavolini dei caffé, entravano nei raffinati negozi, ne uscivano con dei magici pacchetti, si sentiva l’ultimo essere della terra.
Infine era diventata dura nei giudizi e indifferente a qualsiasi cosa capitasse agli altri, come se l’unico di cui le importasse veramente fosse quel bambino che era costretta a contenere oltremisura.
Comunque, tra le mille difficoltà e le poche gioie della loro grama esistenza, gli anni di Antonietta e Mario si succedettero caratterizzati da una forte intesa e da una grande voglia di riscatto da parte del ragazzo. Questa, si notava dalla determinazione con cui affrontava lo studio ed il lavoro estivo di cameriere in un ristorante fuori porta. Inoltre, aveva l’innata capacità d’accattivarsi le simpatie dei superiori e dei compagni di classe che tuttavia era costretto a mantenere a debita distanza da casa.
Fu in quegli anni adolescenziali che, tra tutte le conoscenze, il ragazzo fu attratto in modo particolare da una, che per lui si rivelò trascinante al punto, da fargli scordare i problemi che caratterizzavano la sua esistenza.
La persona in questione si chiamava Giulio e, avendo superato da poco i trent’anni, era già un adulto che lavorava come infermiere in un ospedale cittadino. Tuttavia la veste in cui Mario l’aveva conosciuto era quella dell’affascinante giocatore di biliardo incontrato all’interno del “Covo”: il bar in cui si recava durante la ricreazione scolastica e che possedeva una sala giochi sul retro.
Quel bar era parecchio malcurato. Aveva pareti grigio scuro con le parti in basso rigonfie di umido. Per di più la parete libera era consumata da un tavolino dal tovagliato rosso che, quando non era inchiodato al suolo dalle forti braccia del proprietario che lo usava per la sua siesta a mo’ di cuscino, veniva sbalzato contro il muro dall’irruenza dei giovani avventori.
Il luogo, mostrava inoltre, proprio sul fondo, un’alcova rivestita di listelli macchiati con maestria nella tinta del rovere, che immetteva in una sala interna adibita, appunto, a sala giochi. Là trovavano posto un grande tavolo da biliardo, una fila di stecche, qualche flipper, due tavoli di calcio balilla, un juke-bok del tutto fiammante e quattro tavolini muniti di posacenere e contornati da sedie.
Essa era esclusivo appannaggio di una certa cerchia di persone. Questo, perché, sia per la voglia d’aria aperta, che per scambiare qualche chiacchiera durante la pausa scolastica, solo pochi ragazzi dell’istituto tecnico si recavano in quella stanza solitamente viziata dal fumo di tabacco. Tuttavia l’intraprendente Mario, di tanto in tanto, vi aveva dato una sbirciata.
Fu proprio in quell’ambiente che il ragazzo notò per la prima volta Giulio Frisone e si sentì attratto dal suo sorriso, l’eleganza con cui vestiva, i suoi modi mai spiacevoli o indifferenti, i suoi magnetici occhi blu, il carisma del capo che gli consentiva d’avere al seguito un codazzo d’amici, i quali apparivano a Mario simili a degli angeli custodi di quell’essere superbo, forse, caduto per sbaglio in quella topaia.
Col tempo il ragazzo si mostrò così entusiasta dell’infinita bravura che intravedeva nel giovane, che un giorno lo applaudì tra il rigido silenzio della sala, lasciando che il suo gesto risaltasse e che l’altro lo notasse tra tutti.
Non essendo schivo alle adulazioni, a partita conclusa il Frisone incluse quella specie di pulce dall’occhio vivo tra gli intimi e lo condusse a brindare alla vittoria.
Quello fu l’inizio del loro quasi quadriennale rapporto, poiché da quel momento, Mario prese ad incontrarlo durante la pausa scolastica e nelle serate libere, intavolando un intenso confronto in cui l’altro lo plagiava mentalmente, sovrastandolo e trascinandolo, sempre più spesso, tra volti nuovi, gioco di carte o di biliardo e qualche dito d’alcol di troppo.
Il ragazzo era soddisfatto di ciò; e anzi, considerava Giulio il suo conforto, il sospirato protettore, il consigliere di ogni sua azione. Così, quando il Frisone gli fece un discorso sui piaceri che può dare l’esistenza, lui accettò di buon grado di provare sia l’eroina, sia lo squallido incontro con una poverina. E, anche se appagate le sue voglie avvertì in lui un intenso senso di colpa, gli riuscì più semplice definirsi un deficiente e s’abbandonò senza ritegno al travolgente vento di vita che la presenza del nuovo amico gli proiettava.
Da allora, iniziò a rientrare a notte fonda, a studiare di meno, a restare a casa il minimo indispensabile, a sostenere che, al di là dei problemi degli altri due membri della famiglia, lui, se non voleva restarci stecchito, doveva pensare a se stesso. Solamente una cosa pareva essere diventata veramente importante per lui: i soldi. Tanti soldi, soldi con ogni mezzo, soldi a sedici anni, come fossero il passaporto per la felicità.
Palesando quell’esigenza, il suo nuovo protettore riuscì a fargli spacciare qualche dose di droga e a trovargli un lavoro pomeridiano d’addetto alle consegne presso una grossa tipografia, sita in una stradina lastricata che sembrava uscita da una vecchia stampa.
Per questo gli fu affidato un motorino provvisto di cestello anteriore e bagagliaio che lui caricava sino all’inverosimile, per poi andare a fare i recapiti assegnatogli per buona parte del pomeriggio.
Spesso, quando il suo giro giornaliero s’articolava dalle parti del Covo, sostava lì dinanzi e si recava nella sala sul retro in cerca di un altro tipo di clientela. Là consegnava la sua merce maledetta, osservava giocare per un po’ e, infine, ripartiva a malincuore.
Ormai le sue esperienze in fatto di gioco erano divenute rilevanti e si era proiettato finanche nell’ambiente delle bische clandestine, dove le puntate alte gli infervoravano i sensi e lo facevano levitare a tal punto per una vincita che tutti quelli del giro per identificarlo, gli avevano appioppato il soprannome di “Piccoletto Vola”.
Lui quasi si gloriava di tutto ciò e, preso ormai dal vizio, restava tra l’aria inquinata e i volti imperscrutabili dei giocatori, senza tener conto delle traversie che lasciava vivere a sua madre o considerare che, così facendo, stava mandando il suo domani a farsi benedire.
Esclusivamente dopo poco più di un anno, iniziò a rendersi conto di covare esigenze che avevano in loro il sapore dolciastro di un veleno.
Tuttavia nulla mutò, e gli anni si succedettero penosamente, permettendo che Antonietta apparisse una donna di mezz’età sfiorita anzitempo, Filippo si trascinasse nel suo muto delirio, e Mario continuasse a fuggire da ogni cosa, come un treno che corre e non riesce a trovare una stazione. Ogni tanto, in quel pazzo viaggio che faceva, al giovane apparivano quattro case o dei volti nuovi che gli davano l’impressione di intravedere una qualche cambio di binario, una qualche dirittura d’arrivo, ma si accorgeva presto che dentro di lui il mostro andava senza sosta e lo costringeva a ricoprire gli occhi, con il giardino fiorito visto da lontano, con il verde dell’albero cartolina di cui non poteva raccogliere la freschezza del frutto, con le facce abbozzate, le strade sfuggenti, il paesaggio fantastico.
Difatti a quel punto, benché conoscesse il logorio che provocava quel percorso, non trovava la forza di svincolarsene, di chiedersi cos’era il sole e per quale maledetto motivo si era offuscato, lasciandolo in eterno un viaggiatore stanco.
Mario sapeva che non poteva domandarselo veramente, perché nel momento in cui avrebbe svelato del tutto se stesso, sarebbe stato costretto a dirsi che, in quella steppa che aveva seminato, prima di riprendere il chiaro, avrebbe dovuto affrontare l’arsura.
Poi, in una magica notte di luna piena, accadde l’ inimmaginabile.
*
Una sera, dopo essersi giocato la paga di un mese, Mario uscì all’aria frizzante della strada.
La luna alta nel cielo riluceva argentea e la sua aurea s’irradiava nel buio, facendola apparire un’isola di ghiaccio imperscrutabile.
Lui la osservò a lungo, intravedendovi un misterioso volto e fissando anche le miriadi di stelle che, simili a chicchi di uva accesi, parevano fermentare l’indefinibile. Poi, intuendo ridestarsi in lui una voglia di chiaro, si chiese cosa gli stesse prendendo all’improvviso.
Tentando di cancellare quel cedimento del suo essere, osservò a lungo la strada deserta; tuttavia, come se qualcosa di pregnante lo attirasse lassù, il suo occhio tornò a sbirciare lo spazio, mentre la brezza notturna lo attraversava e lo faceva sentire pulito, svuotato, fatto nuovo.
“Com’è tutto magnifico” pensò: “Come tutto è altitudine, misteriosa immensità in cui le nostre miserabili vite sono meno che punte di spillo!”.
«Cosa c’è? Non rientri per la prossima?» sentì che gli chiedeva Giulio dalla porta.
«No. Basta così: mi sono già giocato il guadagno di un mese».
«Non prendertela Piccoletto Vola, è il gioco!» sentenziò l’altro. E mollandolo, se ne tornò al chiuso.
Il ragazzo rimase solo in quella notte ruffiana nella quale il bagliore di lumi lontani si coglieva troppo nitido per non chiedersi da dove provenissero o se significassero qualcosa di più di semplici masse. Poi, con la voglia di sondarli meglio, sedette sulla panchina di pietra addossata al muro e scavò nel turbine che avvertiva. “Come m’appare inutile questo mio percorso… e com’è difficile tentare di capire il perché di questo mio cammino distorto” pensò: “Posso soltanto sperare che qualcuno mi aiuti a cambiarlo con una strada più vera, gente più vera!”. E restò con lo sguardo a scrutare il cielo, fissando in particolar modo tre grandi stelle che formavano, sulla volta puntellata d’altre stelle sorelle, una sorta di triangolo: “So che non è facile, che c’è qualcosa di forte che mi tiene legato alla catena, qualcosa che non mi permette di dire basta!”.
Fu allora che s’accorse di altri piccoli astri lungo la traiettoria del triangolo intravisto in precedenza, e restò a scrutare l’insieme ammaliato dal fascino di quella volta così a lungo, che ricreò, con una lucidità che non gli era più congeniale, le sensazioni di quando si iniettava la dose d’eroina e, finanche, di quando se ne stava seduto al tavolo da gioco. “Entrambe le cose sono una fuga dalla mia misera realtà, la realizzazione di un sogno d’oblio e d’affermazione”. Poi si soffermò su Giulio. “Non è un angelo” valutò, “e neppure un uomo di successo. È solo un povero diavolo convinto d’essere unico e insostituibile. È qualcuno in cui personalmente… ho visto ciò che mio padre non è stato”.
Era finalmente riuscito a trasferire alle parole la realtà delle cose. In pochissimi minuti aveva mollato il paraocchi ed aveva conquistato la consapevolezza del perché era stato sedotto dai suoi vizi e da quell’ammirazione viscerale.
Improvvisamente stanco, si appoggiò contro lo schienale della panchina resa levigata e lucida dal tempo e accendendosi una sigaretta, seguì le volate di fumo.
“Mi sono nutrito di pericolose illusioni, restandoci incastrato a dovere” ammise, “Come un disperato cercavo attorno a me una parvenza di gioia e mi sono catapultato in altri problemi, in altri gineprai”.
Ormai la sigaretta era divenuta un mozzicone. Lui la lasciò cadere, schiacciandola con la suola e sollevando il bavero del giubbotto, s’incamminò nella notte.
Giunse a casa attorno alle tre del mattino. «Qualsiasi cosa senti, non aprire la porta della mia stanza e chiunque mi cerca sono partito» disse alla madre che si era destata come sempre: «Prendimi dell’acqua, dammi il vaso da notte e qualche bacinella e poi chiudimi dentro e basta».
Lei aveva fissato a lungo con le lacrime agli occhi, poi si era incamminata senza proferire parola, ed era tornata di li a poco con quanto chiestole dal figlio.
E Mario da quell’istante aveva affrontato coraggiosamente il suo incubo e aveva toccato il fondo del suo vivere intanto che Giulio e gli altri chiedevano inutilmente di lui.
Esclusivamente quando la donna sentiva che il figlio era un tantino più tranquillo gli passava qualche pasto, disubbidendo al suo ordine; e alla fine, quando lui era uscito all’aria aperta, era apparso molto provato. Tuttavia, aiutato da quel buon uomo del tipografo, aveva ripreso a lavorare, riuscendo anche a saldare qualche debito di gioco.
Ma il suo umore era ancora instabile. Pertanto, provando a fuggire il contatto diretto col Frisone, prese ad inventarsi delle scuse che, nonostante le sue disastrose aspettative, sortirono l’effetto sperato e, dopo un po’, Giulio e il suo gruppo presero a diradare i loro pressanti richiami.
Però l’anima meticolosa di Mario non riusciva ad accettare quella soluzione che gli appariva errata e di comodo, ed egli si accusò, quasi di continuo di essere un uomo senza coraggio e dignità, un vigliacco che non aveva neppure avuto la forza di affrontare un colloquio chiarificatore col suo vecchio compagno d’avventure.
Questo costituì il suo chiodo fisso per lungo tempo, sino a quando un mattino, prese il coraggio a due mani, e durante la ricreazione si recò al covo a chiedere di Giulio.
Fu stupito nel constatare che egli, il suo padreterno di quegli anni, quello che era sciolto di lingua e aveva una battuta pronta per ogni suo più piccolo ripensamento, non ebbe nulla da ridire sul fatto che lui avesse deciso di chiudere con l’eroina; anzi, apparve comprensivo e accondiscendente.
In realtà, egli aveva compreso perfettamente che, sino a quando il ragazzo sguazzava nel fosso era facilmente influenzabile, ma, adesso che aveva già superato la barriera più dura, ogni sua interferenza sarebbe apparsa malefica.
Ciononostante, il Frisone non sapeva quanto fosse vera la scelta del ragazzo; e, non vedendosi più cercato, non si rassegnò a doverlo perdere e ad intaccare il perverso piedistallo su cui si era posto.
Così, in una sera d’inverno, non potendone più di quella situazione stagnante, attese Mario all’uscita dal lavoro.
A quell’ora la stradina in cui era sita la tipografia era semideserta. Qualcuno rincasava, qualche negoziante si accingeva a chiudere la propria saracinesca e solamente qualche rada luce illuminava l’antica via.
Lui andò incontro al più giovane, sbucando dal buio pesto: «Sei diventato prezioso!» gli disse: «Non ti si vede più nemmeno per una partita!».
«Per il momento, ho dei fastidi per le mani» ribadì Mario.
«Già la famiglia!» sentenziò l’altro, fissandolo attento: «Senti Piccoletto Vola, tu della famiglia te ne sei sempre fregato, perciò inventati qualcos’altro».
Lui assorbì il colpo. «È vero. Però, come vedi, si cambia! E sai perché? Perché ho appena vent’anni e credo d’avere già vissuto l’abisso! Ma forse, ho aperto gli occhi giusto in tempo e mi sono intestardito a chiudere un capitolo che mi ha ridotto come mai avrei voluto».
Giulio lo guardò serio. «Secondo te lo hai concluso davvero?!».
«Sì, l’ho concluso».
«Sei un povero illuso, Mario! Soltanto un povero illuso che ha bisogno di sentirsi qualcuno. Ma non temere, Mario: lo squallore in cui ricadrai ti servirà da monito!». Cosi dicendo, lo fissò furente e, voltandogli le spalle, si avviò, mostrandogli, a gesti, tutta la collera di cui era capace.
«Che marcisca nell’anonimato della sua miserevole vita! Mi ha già perso e questo gli servirà da lezione per il resto dei suoi giorni» disse ai due tizi che l’attendevano dietro l’angolo.
Da allora, Mario rimase completamente solo, ma determinato a non mollare ed a combattere l’abbattimento incontenibile a cui andava soggetto. Pertanto, si costrinse a studiare con più impegno e si trovò un inconsueto interesse per il moto.
Così, si svegliava alle prime luci dell’alba, indossava la tuta ed il giubbone e se ne andava a fare footing per le vie deserte della zona, sino alle sei e trenta, sette del mattino. Poi rientrava, faceva una doccia veloce, e si recava a scuola attraversato da un nuovo gusto per le cose sane.
Lì, tuttavia, gli accadeva di vedersi scansato dai compagni e di avvertire dentro un sentore amaro che gli lasciava valutare quanto fosse alto l’onere da pagare al mondo per tentare di far tornare in vita il Mario di una volta.
Pertanto, dovette passare dell’altro tempo, perché lui si accorgesse che qualcuno dei compagni al termine delle lezioni si accompagnava a lui fino alla fermata dell’autobus.
Ciò lo rendeva felice e gli permetteva di notare la diversità di quei ragazzi, dai disperati che aveva conosciuto in quegli anni. Infatti, quei suoi compagni, pure se erano attraversati da conflitti che qualcuno spalmava di baldanza, esprimevano tuttavia dubbi puerili che lui tornava ad apprezzare come acqua.
Infatti, ora comprendeva che, anche se il peso di quegli assurdi anni gli stava dentro, gli feriva il pensiero, lo costringeva a girare alla larga da alcuni luoghi, in realtà il suo risveglio era già iniziato e, forse, ci sarebbe stato ancora un tempo per vivere di luce e amarla veramente.
*
Altri mesi rigidi si susseguirono, mettendo in risalto il reale ritorno di Mario in seno alla famiglia, con l’acquisto di una stufa a gas che il giovane introdusse baldanzoso a casa e che, aggiunta a quella già in loro possesso, li avrebbe aiutati a scaldare meglio il buco in cui vivevano.
Questo suo gesto era stato un tentativo per farsi perdonare quegli anni dissoluti e per smorzare il nuovo, difficile atteggiamento materno che tanto lo ledeva. Tuttavia, esso si era rivelato inutile e l’unico sprazzo di un sorriso, ultimamente Antonietta lo riservava ai Nocino: una coppia sulla quarantina che da circa nove mesi, abitava l’appartamento accanto.
La coppia era molto amabile ed era formata da Lina, una creatura minuta dall’incarnato roseo, occhi di un azzurro luminoso e un bel collo che pareva uscito da un dipinto di Modigliani, e da Nino, un individuo dagli occhi vivi, struttura tozza, pelle incartapecorita dal sole del meridione.
Al contrario di lei: graziosa e riservata, lui era piuttosto goffo, ma attraeva per l’umiltà e per la sua sincerità.
Entrambi lavoravano in un’industria alimentare del milanese e la mattina andavano via col buio. Però, essendo lontani dai loro affetti e desiderosi di calore, al loro rientro, avevano preso l’abitudine di bussare dai Mendò per un rapido saluto.
Molto spesso, porgevano loro del pane appena sfornato o qualche primizia acquistata dal fruttivendolo. Tuttavia, nella serata del sabato, se dai Mendò notavano un clima familiare sufficientemente tranquillo, tornavano dopo cena con dei dolcetti o delle caldarroste da gustare in compagnia. Di solito, quelli erano momenti in cui Lina si appartava con la padrona di casa, e suo marito provava a risvegliare l’interesse del capofamiglia, parlandogli di calcio o commentando le ultime notizie del telegiornale.
Nino faceva tutto questo col suo gran cuore, mettendo a dura prova la sua volontà e ritirandosi di frequente stanco. Nondimeno, l’amicizia tra le due famiglie continuò, giungendo a far legare intensamente Antonietta e il giovane uomo, e spingendo entrambi a rivelarsi.
Fu allora che la signora Mendò venne a conoscenza di quanto costasse all’uomo il fatto di non avere figli; ma immersa nelle sue amare memorie, lasciava cadere l’argomento agitandosi interiormente per quello che riteneva uno stupido bisogno e per l’eterna insoddisfazione che accompagna la vita.
Unicamente, quando era cosciente del fatto che il proprio figlio poteva sentirla, diceva duramente a Nino che, lui doveva essere malato per non godere della tranquillità di cui il padreterno gli aveva fatto dono e per non capire che la carezza dei figli scema strada facendo, lasciando comunque soli.
«Mi stai dicendo che allora il reale motivo, non deve cercarsi in una contropartita?!» osservava l’altro: «Però è strano Antonietta che tu non avverta che questo desiderio è dato dalla voglia di divenire una cellula d’amore che si moltiplica, certamente provocando affanni, ma anche gioia e vita attorno». E a quel discorso, lei si chiudeva a riccio, restando sempre più convinta che lui fosse un povero illuso. Poi, quando a conferma di quel discorso le giungevano le gaie ventate portate da quel figliolo redivivo, le balenava l’idea che il desiderio di Nino non era del tutto senza fondamento.
Ciononostante, quel desiderio dell’amico lei lo viveva stranamente e, nel momento in cui seppe della scelta della coppia d’adottare un bambino, cambiò del tutto il suo atteggiamento disponibile e non si lasciò più andare a confidenze.
Avveniva che i due coniugi sorridevano di tutto ciò, ma essendo delle brave persone, non si allontanarono dalla famiglia Mendò. Anzi, Nino si spinse in tentativi notevoli per spronare Filippo a coltivare qualche interesse.
Sfortunatamente, anche se il malato sembrava gradire la sua compagnia, il massimo che gli concedeva era di stare a guardare assieme la televisione. Tuttavia, non era inconsueto che di punto in bianco si estraniasse e desse il via ad un’angosciante, quanto identica cantilena: «A casa, a casa, portatemi a casa».
«Sei a casa! Sei già a casa Filippo!» gli diceva Nino. Poi, ben sapendo che la casa invocata dall’altro era un qualcosa di diverso dalle semplici mura, lo lasciava con la consorte e infilava la porta dispiaciuto.
Fu in questo modo che quasi un anno volò via e si giunse ad una nuova primavera, in cui Mario apprese che la scuola organizzava una gita scolastica per le quinte. Lui, avvertendo il bisogno di una ventata di respiro, decise di partecipare, pagandosi da sé il canone necessario per quella gita.
Quando infine giunse l’atteso giorno, il ragazzo si alzò molto presto, trovando la madre gelida e taciturna che sciorinava velocemente dei panni prima di correre al lavoro.
Sentendosi oppresso dal suo atteggiamento, si affacciò accorgendosi che l’umido della notte s’infilava nelle ossa e il venticello sferzava a dovere. «Entra in casa; finisco io» le disse.
«Non occorre che ti sacrifichi. Ci sono abituata» gli fu risposto. E lui allontanandosi, avvertì una stretta al cuore per quel muro che lei aveva eretto e che maturava in lui la coscienza di dovere colmare da solo il suo baratro.
Scoraggiato, si preparò e andò via, salutando appena. Poi giunto sul luogo del raduno fu investito dall’allegria dei compagni e sistemandosi sul pullman, provò ad accantonare ogni sensazione spiacevole, senza tuttavia riuscirci, in quanto l’immagine di sua madre e il tono della sua voce gli tornavano dinanzi e nel suo orecchio e lo ferivano ancora.
Intanto, era così immerso nei suoi tristi pensieri che non si rese conto che, intorno alle sette del mattino, quando la rada luce rendeva traslucide le foglie e la guazza della notte faceva emanare attorno l’intenso profumo della terra umida, il mezzo si era messo in moto, dirigendosi verso la Brianza. Si avvide di ciò solamente mentre esso risaliva costeggiando l’Adda. Lì, infine, Mario sciolse i suoi nodi nella poesia di quel paesaggio manzoniano e, colmo di beatificanti sensazioni, si appisolò, risvegliandosi inebriato dall’odore lacustre che impregnava l’aria.
Comprese che si trovavano in quel braccio del lago di Garda, denominato dalla gente del luogo lago di Lecco, e là, a seguito delle loro sollecitazioni, il conducente si fermò, lasciando che Mario e gli altri scendessero, dandosi a corse sfrenate tra le incolte erbacce ed il pantano acquitrinoso dell’argine, e sentendosi vivi. Dopo un po’, ammiravano già ogni cosa dal finestrino del pullman: le case in pietra viva con le loro pile di legname posizionate di fianco, i prati al vento, le arcate solitarie sui torrenti, le valli che s’incuneano tra loro, le cime che svettavano oltre ogni cosa.
Giunsero a Passo San Marco per l’ora di pranzo e, qui, sostarono a lungo per consentire il pasto ad ogni componente di quell’allegra compagnia. Infatti tutti loro si precipitarono sconclusionatamente al bagagliaio, tirando fuori gli zaini con la colazione a sacco.
Mario andò a consumare la sua, stando seduto su un masso e constatando di essere entrato in possesso di un occhio filtrato dal cuore che permetteva ad ogni cosa di assumere contorni immacolati. Un occhi che e gli faceva cogliere persino i particolari lontani di quel paesaggio montano, in cui, su una cima, spiccava una croce distante. “Siamo finestre che assorbono dal mondo e vi si specchiano, traendone il gravo o la bellezza e riversandovi gli stessi, esattamente come li sentiamo in noi” si disse assorto.
Ridiscesero per la Val Camonica che era pomeriggio inoltrato e, nonostante l’ora tarda, alla vista del Lago d’Iseo furono in molti ad avanzare la richiesta di una rapida fermata nella quale si scatenarono, coinvolgendo anche il sostenuto professore di matematica. Infatti, l’uomo una volta ripartiti, dopo avere acceso la sua puzzolente pipa, infettando il limitato spazio del pullman, si sciolse in discorsi gioviali e accompagnò gli alunni in canti sballati che solo raramente riuscivano a giungere a conclusione.
L’ultimissimo tratto di strada fu invece contraddistinto da un silenzio assoluto, forse dovuto alla stanchezza o al rimpianto che l’armonia avvertita nei loro cuori, l’indomani sarebbe stata difficilmente riprendibile.
Infine, quando il mezzo si arrestò, a Mario sembrò così miracolosa quella riconciliazione con la vita che avvertiva che, per gustare ulteriormente quello stato di grazia, decise di fare a piedi il percorso che lo separava da casa.
Eppure, strada facendo, fu investito da un’improvvisa ansia che pensò potesse essere dovuta al ritorno al solito ambiente, oppure al cielo che aveva trovato su Milano e che aveva in sé un qualcosa di opprimente. Così, camminò velocemente e si fermò esclusivamente quando giunse sullo spiazzo del caseggiato in cui viveva.
“Ora posso riposarmi un attimo” pensò; e istintivamente osservò nuovamente la volta celeste, tentando di capire il perché di quel presentimento funesto che aveva percepito a metà strada.
Vide una serafica luna che si stagliava lucente oltre la grande quercia dinanzi l’abitato.
«Tutte baggianate!» affermò riconfortato: «Il mio presentimento del cavolo altro non è che una baggianata».
*
La bomba che a Mario era parsa scongiurata esplose, dopo che lui, uscito dalla vecchia vasca da bagno ricolma di striature di ruggine, aveva indossato il pigiama pulito e si stava accingendo a prendere un libro. Quando l’urlo di sua madre squarciò il silenzio, lui spalancò la porta e corse a precipizio, investendo la lastra d’alluminio della bastoniera a muro. Giunto, gli bastò uno sguardo per rendersi conto che suo padre era immobile, abbandonato sui cuscini, la testa reclinata, la bocca coperta di bava, il respiro pesante.
“Smuoviti ha bisogno di te” gli riecheggiò nella mente.
«Papà, papà!» chiamò disperato. Tuttavia, quando provò a tirarlo su, suo padre si inclinò su se stesso.
Fu allora che il ragazzo si voltò verso sua madre come a chiederle aiuto e, notando i suoi occhi sbarrati, comprese d’essere solo. «Mamma, mamma!» le disse scotendola: «Svegliati. Bisogna portarlo in ospedale».
La donna restò attonita e lui raggiunse velocemente il pianerottolo, e suonò alla porta di Nino.
«È per mio padre!» disse all’amico apparso in canottiera.
«Vengo subito» gli rispose l’altro.
Sulla piccola utilitaria dell’amico, corsero con l’occhio fisso alla striscia d’asfalto e attraversati da una tensione in cui l’unico vocabolo pronunciato era la bestemmia che giungeva puntualmente ai semafori rossi.
“Non morire” pregava silenziosamente Mario, come se quella sua preghiera potesse rifare, piegare, rimodellare il destino.
Quando giunsero sul piazzale del pronto soccorso, il rifiuto della realtà era in Mario così forte che le luci bianche del viale gli apparvero fantascientifiche.
Nondimeno, spinto da una carica inimmaginabile, scese dall’auto e corse all’interno, investendo una donna con una ferita alla mano che aspettava il suo turno nell’androne. Poi parlò concitatamente con l’addetto che stava all’accettazione.
Per fortuna, dopo pochi minuti comparvero nell’atrio due barellieri con una casacca gialla che chiesero dove andare a prelevare il malato.
Lui li condusse alla Topolino rossa e i due estrassero il corpo esanime dell’uomo e lo adagiarono sulla lettiga. In un battibaleno, riattraversarono l’atrio e scomparvero dietro una porta a vetri su cui era attaccato un cartello con su scritto: «Accesso consentito solo al personale sanitario».
A malincuore, loro tre sedettero sulle panche allineate contro la parete e attesero per un tempo che parve loro lunghissimo, opprimente, tagliente come lama; un tempo nel corso del quale videro la porta a vetri aprirsi e richiudersi di tanto in tanto, per alla fine essere attoniti, mentre il giovane infermiere che stava dalla soglia chiamava: «Signori Mendò!».
Loro si scossero dal torpore e si alzarono all’unisono.
«Qualcuno di voi dovrebbe accomodarsi» disse l’altro. E, accorgendosi che il ragazzo si avvicinava, aggiunse: «Sarebbe meglio se venisse uno di voi adulti».
Fu allora che Antonietta guardò il figlio. «Resta» lo invitò: «Andrò io». E incamminandosi, seguì l’uomo.
Mario rimase a guardarla, fino a vederla svanire dietro la misteriosa vetrata.
«Andrà tutto bene vedrai» lo confortò Nino, mollandogli una pacca sulla spalla.
La donna fu di ritorno dopo una mezz’ora circa. I due la guardarono e lei con un gesto lasciò intendere che potevano andare.
Assieme s’incamminarono e, giunti all’esterno, notarono che il cielo era già di un marrone violaceo in cui le stelle andavano sbiadendo e una falce di luna s’attardava nitida.
«È stata una gran notte!» osservò Nino ironico.
Nei giorni seguenti la situazione di Filippo Mendò non ebbe il miglioramento sperato e lui restò tra un groviglio di fili, in una stanza che loro familiari potevano vedere solamente attraverso una vetrata. Solamente, al quarto giorno la prognosi fu sciolta, rendendo ogni cosa meno angosciante, ma tanto sfibrante che il ragazzo prese a detestare fortemente la corsia ospedaliera dove il padre era stato trasportato e che era spesso impregnata da un fetore di feci che saltava fuori in modo nauseabondo da uno dei letti.
Infine una sera, al rientro dalla solita visita pomeridiana, Antonietta si tolse la giacca e sorrise al figlio, comunicandogli che l’indomani il padre sarebbe stato dimesso: «Possibilmente saremo a casa per l’ora di pranzo» concluse.
E assurdamente, lui sentì che avrebbe dato una parte di sé perché tutto tornasse ad essere come negli anni in cui vivevano in Emilia. “Tutto può accadere” considerò prima d’addormentarsi: “E se tutto può accadere, perché non si deve confidare in un miracolo? Perché io, il Mario Mendò che ha vissuto il fosso, tirandosene fuori, adesso, non dovrei sperare che il suo ritorno si possa trasformare in una vera e propria ripresa familiare!”.
Forte di quell’auspicio, la mattina successiva visse le sue ore scolastiche attraversato da un nuovo positivismo e al termine delle lezioni, prese il solito autobus e una volta sceso, piegò per una scorciatoia che da lì si partiva.
Difatti lo slargo dinanzi al fabbricato in cui vivevano gli apparve presto. Era verde; di un verde non compatto, costituito da erbacce di ogni tipo, da fiori di campo che crescevano a macchie disordinate e dalla vecchia quercia che si stagliava maestosa e ondeggiava al vento.
Lui si soffermò a osservare quel gigantesco albero caro al suo cuore che, scombinando le sue fronde alla brezza, creava un fantastico gioco di ombre.
Dopo colmò la distanza che lo separava dall’atrio e sentendosi quasi certo che i suoi sarebbero giunti da lì a poco, risalì lesto le scale e mise a scaldare l’acqua per la pasta.
Pensò che, appena avrebbe sentito lo squillo del campanello, avrebbe rinunciato al vecchio ascensore che andava una volta su dieci e sarebbe ridisceso, caricandosi con gioia la piccola valigia a riquadri, giacché adesso comprendeva che le presenza paterna era per lui indispensabile così com’era.
Pertanto, apparecchiò la tavola e si affacciò, lasciando vagare lo sguardo tra gli alti piloni dell’autostrada, sino a quando non fu distolto dal bollore dell’acqua nella pentola. Rientrò velocemente, notando che l’orologio a muro segnava le quindici e trenta. “Tardano” considerò, tornando d’istinto alla finestra e guardando dabbasso.
Poi, provando a non agitarsi eccessivamente, si concentrò nello studio, rendendosi presto conto di non riuscire e di essere in ansia suo malgrado. “Chissà, perché tardano tanto?” si chiese ancora, andando avanti e indietro per la stanza.
Era trascorsa più di un’ora, quando udì il vecchio ascensore fermarsi sul pianerottolo con un tonfo. “Forse sono loro” sperò. E corse alla porta, aprendola di scatto.
Nino e Lina, che emergevano in quel momento dalle grate di ferro del malandato rudere condominiale lo guardarono seri. «Ah! Siete voi», osservò deluso: «Scusate. Sto aspettando i miei».
I profondi occhi dell’amico lo guardarono dispiaciuti. «Vai a casa» disse alla sua eterea compagna: «Ti raggiungo subito».
Lina annuì, raggiunse la porta, diede un giro di chiave e scomparve alla vista. Invece Mario, comprendendo da quell’atteggiamento che c’era da aspettarsi di tutto, restò impietrito ad attendere.
Il Nocino si schiarì la voce: «Senti Mario, sto tornando anch’io dall’ospedale. Tuo padre ha avuto una tremenda allucinazione. Là sono corsi tutti; è stato un vero e proprio caos».
«Come mai? Non può essere colpa di tutti quei farmaci che gli hanno dato ultimamente?».
L’altro lo fissò profondamente: «Vuoi prenderti in giro, vero?».
«Dov’è ora?».
«All’ospedale psichiatrico» rispose l’uomo, omettendo ogni particolare.
«Perché non lo chiami manicomio?!» esplose il ragazzo. E lasciò andare un pugno contro il muro: «Mi sembra un brutto sogno, mi sembra un incubo che non finisce più, mi sembra che niente vada per il verso giusto e che nessuno riesca a trovare una valida soluzione per questa storia. Solo una cosa so con certezza, e cioè, che bisogna farlo uscire da lì».
L’amico serrò le labbra e, tentennando il capo, ingoiò a vuoto: «È meglio se ti calmi. Per ora non si può. Ha bisogno di cure e di quel tipo di cure se non vogliamo che torni a casa peggio di com’era. Capisci cosa voglio dire?».
«Sì che capisco. Capisco che ha bisogno di noi, della sua famiglia! Non di starsene in quel posto, dove chissà come lo trattano».
«Piano o ti sentiranno tutti» gli ricordò l’uomo.
Il ragazzo, stretto da un nodo d’impotenza, chiuse gli occhi: «Dov’è mia madre?» domandò.
«È passata dal salumiere. Sarà qui a momenti».
«Come l’ha presa, cos’ha detto?».
«Nulla. Che doveva dire povera donna; quasi se l’aspettava!».
«Vuoi dire che non ha contestato, che non si è ribellata al fatto che lo hanno rinchiuso?!».
L’amico lo guardò con tristezza: «Guarda che mi sta dispiacendo veramente che la prendi così! Quello non è un carcere, ma un ospedale, sai?».
«Dai Nino» sbottò lui: «non venirmi a raccontare fandonie. Cavolo! Non sono più un bambino!». E così dicendo, lo piantò sul pianerottolo e infilò la porta di casa.
Adesso si era fatto tardi. Le ombre della sera incalzavano implacabili e avvolgevano i mobili e le suppellettili della stanza in una luce ovattata. Mario s’avvicinò alla cucina a gas e diede con il palmo un violento colpo alla pentola, facendola sbalzare dal fornello. Poi andò a buttarsi sul suo letto.
Si sentiva disperato e solo e si diceva che, pure se qualche altra volta si era sentito in quel modo, ora era una sensazione passata, volata, rivestita da ogni tipo di vento spazzatutto e non certo quel misto d’angoscia e di rabbia vivi, tanto vivi da sentirsene spaccare le budella.
Infine, quando sentì le lacrime scivolare silenziose sul suo viso, si alzò e guardò dabbasso. Si accorse che qualcuno giù in cortile parcheggiava il proprio motorino, qualcuno usciva col suo cane, le fronde della quercia frusciavano al vento, una ciurma di gatti andava in giro alla ricerca di cibo, ed appena una falce di luna faceva capolino delle nuvole bianchicce.
“Tutto continua. Tutto continua sempre” considerò: “Niente s’arresta col nostro dolore. Il nostro dolore sfila in mezzo a tutto e frattanto il tutto crea, rifà, ci sospinge”.
*
Il movimento della gente, la quale sistemava il bagaglio e prendeva posto sulle poltrone rimaste libere, ridestò Mario.
Dopo l’ultima fermata il treno si ripopolava. Dallo scompartimento accanto s’udiva un dolce suono di chitarra, qualcuno che rideva e qualcun’altro che scambiava battute e ironizzava sulla bontà di ciò che stava mettendo sotto i denti.
Mario si scrollò del tutto dal suo stato d’assopimento e uscì nel corridoio per accendersi una sigaretta.
Si rese presto conto che le beffe ascoltate partivano da un gruppo di giovanissimi di cui facevano parte il suonatore di chitarra, una ragazza con un volto triangolare e degli splendidi capelli e, infine, il principale dispensatore di battute che esibiva una scomposta criniera. Notò che il primo portava dei jeans sdruciti e una maglietta con stampato il volto di Che Guevara, la seconda un pantalone a zampa d’elefante e una casacca a fiori, e il terzo se ne stava completamente avvolto in un plaid. Inoltre, proprio in fondo allo scompartimento, vide una donna sui quaranta che, messa in netta minoranza dall’irruenza dei tre, li osservava silenziosa.
“Poverina!” la commiserò Mario: “Sarà costretta a sopportarseli per il resto del viaggio”.
Ma, tornando a fissarla, si rese invece conto che la signora stava sorridendo indulgente, pensando forse alla sua giovinezza, alla loro bella età, alla giustezza della vita o al figlio adolescente.
“Forse il poverino sono io” considerò quando ebbe coscienza che la vista dello spensierato gruppo gli aveva suscitato un profondo senso di rimpianto per i giorni di gioia trascorsi a Castagneto, prima che la situazione sua e di Ilde mutasse in peggio, grazie alla cocciutaggine di Andrea Panara.
E così pensando, riconsiderò ogni cosa, stabilendo che, forse, era stato leggero a non valutare affatto la gravità della malattia del padre, che doveva rivedere molto il suo giudizio su Andrea Panara, che lui, il Mario che sapeva tutto sul male del proprio genitore, sapeva anche che quelle erano malattie che potevano anche essere ereditarie; che, forse, non doveva assolutamente far vincere il loro amore.
Ci rimuginò sopra così a lungo, che sentì il bisogno d’accendersi un’altra sigaretta. Alla fine, sentendosi oppresso e scoraggiato, bandì quei pensieri, si liberò del suo mozzicone e tornò a mettersi seduto, forte dal fatto che, ormai, lo separava poca strada dalla meta, in quel viaggio ricco d’antichi ricordi che avevano viaggiato con più rapidità di quel treno.
“Mi aspettano momenti duri” osservò, “e farei bene a non crogiolarmi più nel nero”. E cullato dallo sferragliare del mezzo, inaspettatamente si addormentò.
Quando si ridestò e si guardò intorno si accorse che era un pomeriggio in cui gli sembrò che tutti riposassero. Per non disturbare, lui restò acquattato, rivedendo con una tale chiarezza il conosciuto personale ospedaliero, che soltanto quando il treno si arrestò si rese conto d’essere giunto.
Comunque, acchiappò immediatamente il bagaglio e scese con gli altri passeggeri.
La stazione gli apparve più viva di come avrebbe voluto in quell’istante: altoparlanti tuonanti, facchini indaffarati, figure raggianti, persone in partenza o che giungevano, operai in camice da lavoro, belle ragazze in ancheggianti sfilate, zingarelle e barboni malandati sparsi un po’ ovunque. Insomma, il solito guazzabuglio da cui lui si svincolò lesto, dirigendosi verso il primo telefono pubblico e componendo il numero di casa. «Pronto, mamma. Sono appena arrivato. Vado alla pensione a depositare il bagaglio e poi scappo immediatamente in ospedale. Quando esco ti chiamo. Sì, sì, mangerò qualcosa; stai tranquilla. Ciao mamma e salutami il nonno».
Mise giù la cornetta e intanto che si accingeva ad uscire dalla cabina, si arrestò, avvertendo un desiderio immenso di sentire Ilde. “Il mio gesto può provocare un enorme danno! Tuttavia, dopo questo lungo viaggio e il pensiero di quello che m’aspetta, non so resistere alla gioia di sentirla”.
E senza stare a rifletterci troppo, compose il numero dei Panara, seguì l’andare del segnale e memorizzò la stanza in cui giungeva, sperando che fosse proprio Ilde a trovarsi nei paraggi e a prendere la cornetta. Però, con suo disappunto, rispose mamma Caterina e lui riattaccò senza proferire parola. «Sei diventata introvabile Cipria!» sussurrò, uscendo tra il caos della stazione. “Domani” si ripromise, “riproverò domani”. E risoluto si diresse verso il primo bar, facendo fuori due tramezzini e una Coca Cola in un battibaleno.
Dopo si avviò verso la pensione che frequentava di solito, notando che stavolta la città gli appariva più inaccettabile dell’ordinario e unicamente quando lesse l’insegna di rame con sopra inciso “Pensione Monterosa” si sentì meglio.
Là, difatti, si sentiva quasi sempre a casa, essendo, questa, condotta egregiamente da una famiglia zelante, e conoscendone, nel tempo, persino l’evolversi dei suoi corridoi e delle nuove camere.
Lo accolse la moglie del gestore che lo abbracciò con calore, assegnandogli una camera con dei mobili dal ripiano di vetroceramica, tendaggi verdi alla finestra e una coperta della stessa tinta.
Mario ne approfittò per fare una doccia veloce, poi ridiscese rapidamente, recandosi difilato in ospedale.
Giungendovi si avvide che qualcosa d’anomalo rendeva l’aria tesa più del solito e comprese che i venti delle nuove idee non avevano tardato a far sentire i loro effetti.
In realtà, lui aveva letto ultimamente di cambiamenti rivoluzionari che equivalevano alla chiusura dei manicomi ed a progetti sociali luminosi che avrebbero ridato spazio ai malati di mente. Ricordò che allora, reggendo quel mensile tra le mani, si era chiesto quanta garanzia d’integrazione avrebbero dato quelle nuove leggi, quando i pazienti, anche se aiutati dall’uso degli psicofarmaci, ne erano ormai talmente schiavi da trascinare in loro una barriera intima difficile da penetrare e soprattutto d’accettare. E, per contro, cosa ne sarebbe stato di loro se avessero sospeso di punto in bianco quei farmaci?
Riflettendoci, concluse che non potevano essere che crude le considerazioni di chi verificava da tempo la sua impotenza dinanzi a certi mali, che quella nuova idea era solare e sicuramente raggiungibile da ogni spirito libero. Ma che la vera soluzione del problema avrebbe richiesto un’indagine troppo lunga e accurata all’interno di ogni essere sano, un’indagine intima fatta dalla maggior parte della conosciuta società formata, come sempre, da così tanti tipi di gente, che, si diceva il giovane, questo riduceva di molto la possibilità di una reale soluzione del problema.
«Deve andare al secondo piano. Lì, gli daranno le informazioni necessarie sul malato» gli disse la giovane donna dietro la vetrata, richiamandolo al presente.
Lui la ringraziò con un sorriso e s’incamminò in direzione dell’ascensore.
Quando ne scese, come se l’avesse evocata col pensiero, si trovò dinanzi l’anziana caporeparto che conosceva da tempo.
Gli sembrò che la notte si ibernasse, che si conservasse così arcigna, intatta, decisa, che sopportò a malapena la freddezza del suo sguardo e il tono distaccato con il quale gli comunicava, che suo padre aveva avuto un altro di quei collassi annunciatigli telefonicamente e che era stato trasportato in rianimazione.
«Di che natura sono questi collassi?» le chiese il giovane.
«Che volete che vi dica! È possibile che lui sia riuscito a sottrarre qualche farmaco che ha determinato tutto ciò, oppure può essere che tutto questo è l’effetto di un crollo fisico e basta. Nessuno può dirlo!».
«Ma non avete fatto accertamenti?!» insistette lui risentito.
«Certo signor Mendò: questo è evidente! I medici hanno constatato che vostro padre ha il fegato a pezzi. Ma, visto che non siamo maghi, l’origine e l’insorgere improvviso del male non è possibile stabilirlo».
Diede le sue spiegazioni, lo munì di un foglietto con le indicazioni dettagliate per raggiungere il luogo in cui si trovava l’ammalato e lo licenziò, dicendogli che aveva mille cose da fare.
Quando Mario uscì tra le mura bianchicce del corridoio era così stordito dalla brutalità di quella donna che la stoltezza umana gli parve che non avrebbe potuto avere un aspetto diverso.
Nondimeno, ridiscese velocemente le scale e si inoltrò verso l’uscita.
«Tieni duro» sussurrò, proseguendo l’immaginario dialogo intrapreso anni prima con suo padre. E per tutto il tragitto del taxi, si sentì angosciato al pensiero che in nessun altro viaggio verso Milano gli era capitato di rivangare il passato come quella volta, che quei ricordi erano tornati alla sua mente, forse, perché suo padre lo stava lasciando per sempre.
Infine trovò l’uomo. Era rantolante ed estraneo alla realtà. Rimproverandosi d’avere sottovaluto la cosa, represse a stento un urlo, e andò alla ricerca di qualcuno che potesse dargli un briciolo di speranza.
Nello studio in fondo al corridoio trovò un medico con uno sguardo luminoso ed un fare gentile. Però, dopo avergli parlato lungamente, guadagnò l’uscita sentendosi più prostrato di prima. “Ma chi sono io e per chi cerco il miracolo?” si beffeggiò camminando per strada: “Sto cercando un miracolo per lui o per me stesso?”.
E si rivide ragazzino, a quando, assistendo ad una scena del consueto delirio paterno, non era riuscito a contenere le lacrime intanto che l’altro lo fissava e gli diceva con una crudeltà inaudita: «Tu non stai piangendo per me. Tu piangi per te stesso».
Quelle erano state parole che erano riapparse quasi di continuo alla sua mente e che, specialmente nella circostanza in cui si trovava, lo sondavano sino in fondo. “In parte aveva ragione lui” concluse, dirigendosi velocemente verso la metropolitana: “Sarei un disonesto se non ammettessi che una parte del dolore era rivolta a lui e l’altra era data dal fatto che tutta quella situazione mi rendeva infelice, ché non sono altro che una creatura impastata d’egoismo, un piccolo essere che non ha ancora imparato cosa è meglio per chi dice d’amare”. E si fermò al semaforo, pensando a Ilde e tornando a domandarsi se avesse agito correttamente, legandola a lui.
Seguitò a rifletterci, sentendola come una carezza, sia lungo il tragitto del mezzo, sia quando emerse dalle scale e si districò tra i passanti.
“Sì ho fatto bene perché lei mi ama” si assicurò infine: “Perché noi due avevamo diritto alla nostra felicità. Vero Cipria?”.
Lo stridere dei freni gli arrivò sulla scia di quella domanda. Vide l’automobile rossa, il chiarore eccessivo dei fari, il volto impaurito dell’uomo al volante. Poi fu notte.
*
Mario non seppe quanto tempo era trascorso dall’incidente. Si svegliò disturbato dalla bagliore del giorno e sentendosi tutto un dolore.
Fece per aprire gli occhi, ma si accorse d’avere la testa pesante.
«Devo provarci» s’impose, avvertendo il calore di una mano. E socchiuse le palpebre, guardandosi intorno.
Accanto, proprio a parare la luce violenta che giungeva dell’esterno, vide sua madre. «Mamma» sussurrò: «Dove siamo?».
«Finalmente!» esclamò lei, ostentando un’allegrezza inconsueta: «Non ci vuole molto a capirlo figliolo! Siamo in ospedale; non vedi?». E fece ruotare il braccio, indicandogli la stanza.
Mario osservò il crocefisso di legno sulla parete di fronte, l’uomo ingessato che leggeva tranquillo di fianco, il comodino bianco con sopra una bottiglia, il lettino rifatto dall’altro lato, un tavolo e un armadio un po’ più in fondo e, stancamente, s’abbandonò nuovamente.
«Hai avuto un incidente, ricordi?» gli chiese sua madre.
«Sì, sì; ora ricordo… » le assicurò, notando che lentamente la sua memoria gli lasciava rivedere la strada, il volto dell’uomo al volante, Ilde nei suoi occhi, e la stanza anomala in cui aveva lasciato il padre.
«E papà?» le chiese, volgendosi.
«Sta meglio» rispose sua madre. E fuggì il suo sguardo.
Lui la fissò, sino a leggerle dentro: «No. Non sei qui solo per me. Se n’è andato, vero?».
La donna restò muta e gli strinse la mano: «È morto» gli confermò infine: «Se non altro, lui ha smesso di soffrire».
Mario sentì un brivido attraversarlo e richiuse gli occhi.
«Tra le sue cose c’era una lettera per te. Però tu lo sai che, da lunghissimi anni, non ha fatto più una cosa che possa dirsi sensata!».
Mario avvertì come un turbine per quelle parole crude, espresse con un tono quasi astioso; parole dette a dimostrare che, nonostante la morte, lei non perdonava all’uomo il disastro della sua vita.
Automaticamente, lui ritrasse la mano e la nascose sotto le coperte: «Mi sento male» considerò. E fece per muoversi, avvertendo un immediato dolore alla nuca e la sensazione d’avere la parte inferiore del corpo come morta: «Non riesco a capire se ho ancora le gambe».
«Non preoccuparti, è l’effetto dei sedativi. Ma ti rimetteranno in sesto, non temere. Anzi, sai che faccio? Ora chiamo l’infermiera e le chiedo se, dopo questo lungo digiuno, possono portarti qualcosa da mangiare».
Così dicendo si allontanò, attraversò il corridoio e infilò una porta semichiusa: «Non posso dirglielo» annunziò al medico dalla barba grigia che aveva conosciuto in quelle ultime ore: «Non posso. È troppo crudele». Poi, senza accorgersi di scompaginare una pila di cartelle, s’accasciò sulla prima sedia che le capitò a tiro e, per la prima volta da quando era giunta, pianse.
L’uomo la lasciò sfogare. «Andrò io non temete» le promise: «Voi andate a fare una passeggiata all’aria aperta. Ne avete bisogno».
E l’accompagnò sino all’uscita, ricordando la serenità in cui aveva vissuto il proprio padre che, sebbene la grama esistenza tra le paludi, anche nei mattini di festa si era alzato presto per il gusto di respirare il profumo della pace e quello della terra umida di brina.
“Già! Ma il mio vecchio era il mio vecchio e io sono un uomo con tutto un vissuto diverso” concluse: “Perciò, bello mio, ora entra in quella stanza e racconta a quel giovane che non potrà camminare più! Diglielo come fosse una barzelletta, una cosa da nulla che non stravolgerà la sua vita; e poi scrollati tutto di dosso, perché stasera la tua famiglia vorrà da te un sorriso, per compensare le tue troppe assenze”.
«Buon giorno» salutò, abbassando la maniglia e avvicinandosi al letto ventidue: «Come andiamo?».
«Non saprei» rispose Mario, fissandolo dolente: «A parte il resto che non va proprio, mi sa dire perché non sento la metà del corpo?».
«Sfido io!» rispose il medico, continuando a sorridere: «Vi siete spappolato la colonna!».
«Che intendete dire?» chiese il giovane, sbiancando.
L’altro lo guardò intensamente: «Sentite amico, non è mai piacevole dare questo tipo di notizie, ma è inutile illudervi. Non credo che possiamo fare molto per farvi tornare a camminare. Tuttavia vedrete che, con una buona terapia, riuscirete a fare molto più di quanto pensiate. Perciò, ora che vi siete ripreso, state su. È il rimedio migliore, credetemi!» così dicendo, gli allungò una lieve pacca sulla spalla: «Adesso vi farò portare un tranquillante e domattina ripasserò» gli assicurò, sparendo dalla stanza.
Mario rimase a fissare lungamente il soffitto, incredulo del suo destino.
Alla fine, abbassò le palpebre e le mantenne chiuse, persino, quando sentì giungere sua madre. Solamente dopo un’ora circa le riapri e fissò sua madre che era accorsa sollecita. «Tu sapevi tutto; vero?» le chiese.
Intanto che i suoi occhi si andavano colmando di lacrime, lei fece cenno di sì..
«Da quando lo so mi sono logorato l’anima» continuò lui: «Ci ho pensato, ripensato, soppesato ogni cosa».
«A cosa hai pensato figliolo?».
Lui sospirò come se gli riuscisse difficile parlare.. Po, fissando un punto imprecisato. disse deciso: «Mamma entra subito in contatto con quelli a cui hai parlato dell’accaduto e fai in modo che non dicano nulla a Ilde. Lei non deve sapere!. Non deve mai sapere. Mai; hai capito?». Cosi dicendo, chiuse gli occhi e tacque, avendo dato fondo a tutto se stesso.
Sua madre restò a fissarlo attonita per un poco. Conoscendolo, sapeva della sua forza di carattere, e si disse che il fatto che se ne restava ad occhi ostinatamente chiusi era eloquente tanto come lo era stato il discorso circa le sue reali intenzioni su Ilde. Nondimeno la sua determinazione le appariva a tal punto crudele, che se non fosse stato per l’amore e per il rispetto che aveva imparato a nutrire per lui, l’avrebbe rifiutata a priori.
Così pensando, lo fisso ancora, sperando di trovare un qualche appiglio che gli permettesse di non agire, di non dover mentire. Per un po’ rimare a guardarlo; poi, notando che i suoi occhi restavano rigorosamente sigillati, comprese l’antifona e si avvio per adempiere al suo difficile compito.
Solamente allora Mario riaprì gli occhi e, come un automa, si guardò attorno non vedendo altro che il suo dolore infinto, profondo, tagliente come lama.
Frattanto, nella camera accanto qualcuno aveva acceso una radiolina a transistor. Si erano sentite le notizie del radiogiornale e la musica finale, poi qualche stacco pubblicitario e ancora musica. Stavolta era l’adagio in sol minore di Tommaso Albinoni ad andare, a riempire ogni spazio, a far pulsare le viscere, l’anima, la mente, il respiro.
Mario stando ad occhi chiusi ascoltò l’intero brano, sentendosi morire al pensiero di Ilde. Pareva fosse fatto di luna e di stelle; o meglio, di stelle cadenti visto il suo stato d’animo!. Chissà cosa avrebbe pensato di lui la sua donna, di certo si sarebbe sentita presa in giro, tradita da chi sosteneva d’amarla intensamente, da chi avrebbe dovuto proteggerla, non fargli pesare i propri, né i suoi problemi!
Si senti così male che pregò il cielo di dargli la forza di riuscire a portare avanti il suo proposito, perché improvvisamente si risentiva debole e insicuro di ciò che s’apprestava a compiere. Se ne senti lacerato al punto di non avvertire per il attimo il dolore fisico, ma solo quello interiore.
Tuttavia sentiva che quel dolore era il pegno da pagare alla giustezza di quell’idea, sentiva che la sua capacità d’amare veramente aveva messo le ali.
Ma dove lo avrebbe condotto quella sua capacità? A vivere d’amore o a morire ancora a se stesso, sempre e soltanto, per amore?
Sapeva che le due cose erano quasi del tutto identiche e interscambiabili, perché il superare se stesso non spegneva la fiamma che sentiva per Ilde, cosi come amarla avrebbe implicato sempre di dovere imparare a morire a se stesso almeno un po’. Sapeva che la sua cipria sulle cose del mondo era lei, la sua Ilde che mai sarebbe mutata ai suoi occhi, ma sarebbe rimasta com’era adesso nel suo cuore per sempre. Per sempre!
Poi s’abbandonò alle cose, come al vento.
[ Questo racconto fa parte dell'antologia proustiana Treni, Aa. Vv., LaRecherche.it ]
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