A Joaquín Pérez Villanueva
«Icaro dove sei? Icaro, Icaro…»
Così gracchiano gli uccelli oceanici
sbrindellando burrasche e nei chiarori,
nei pozzi di verde cielo frugano
e lontano si perdono, sbandano,
e rimangono trapassandoci i timpani
l’eco a mulinello: «Icaro, Icaro...»
Fu il mare, il mare solo, il geloso,
che ti perse. La cera si regala
alla bruciante carezza, ma fu lui
che ti strappò rabbioso dal tuo cielo,
lui, il padre immenso, l’oceanico,
colui che dà alla luce la luce, il sole, il fuoco
ed ogni aurora libera, ed ogni tramonto
seppellisce nel suo ventre pauroso.
Tu volevi il cielo, Icaro svelto.
Per l’azzurro nascesti. Ali bellissime
di invisibile piumaggio in arcobaleni
sognavi, colmanti insenature
tra remi e tronco, ed il frustare
dell’impeto ascendente nel tuo udito
batteva accelerati i suoi primi colpi.
Volato avresti con le tue sole braccia,
le ali della fede, per te solo.
Ma l’ingegno ti obbligò a indossare
timone-guida ed a vestire altrui
ali di misurata tessitura
e a ungere di cera instabili cerniere.
Volavi con tuo padre. Solcavate,
scalavate azzurri scivolosi
– tu sempre più in alto, Dedalo, Icaro! –
Ed il mare, là sotto, vi invidiava.
Tu, giovane, senza le tue ali di fortuna,
senza tempo per aprire quelle del sogno,
solo precipitasti nell’abisso.
Allora non fu il mare, ma la montagna,
la terra ferma e gravida che rompe
le sue viscere di roccia per ghermirti,
blocco inverso, nel suo solido grembo.
E t’abbraccia in una boscaglia priva di graffi
e ti spegne di neri levigati
e ti bagna di linfe in te sgorganti,
favola di te stesso e del tuo tuffo.
Laggiù lontano rimescola l’oceano
le sue lastre, cercandoti senza tregua,
e divide scogli, disordina fondali,
combatte con le rocce furibondo,
fruga nelle sue risacche, sonda sabbie,
ma non ti troverà, mai ti ebbe.
E sempre, tra uno scrosciare di spume, torna
il gracchiar senza fine: «Icaro, Icaro...»
(Traduzione di Manuel Paolino)
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