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25 - Un dubbio inquietante

di Alberto Rizzi
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Pubblicato il 05/05/2016 09:49:27

25. UN DUBBIO INQUIETANTE

“Le sirene continuavano a sentirsi, ogni tanto,senza che potessero suggerire una direzione precisa.”

(Periferia e centro città, 04-05/11/1979)

 

 

“La cosa migliore è trovare un posto in periferia, dove ciascuno si fa i fatti propri. E più gente c’è, meglio è. Anche a questo ci pensiamo noi.” Così gli aveva detto Marco.

 

E adesso Walter era lì, nell’appartamento al terzo piano di un condominio appena fuori città, affittato da un prestanome del fratello di Buio, con accanto una varia umanità di piccolissima borghesia e proletariato che avrebbe fatto la felicità di qualsiasi agit-prop della sinistra extraparlamentare. Dove, per inciso, ciascuno si faceva i fatti propri.

 

Dal telefono a gettoni fuori dal Vikin-go! Dario gli aveva biascicato che la macchina di Campice era partita e che gli altri le stavano dietro. Poi era salito sul motorino ed era corso a spararsi in vena la generosa dose che suo fratello gli aveva messo in mano (solo dopo la telefonata) perché si sforzasse con la maggior professionalità possibile di far da palo.

 

Avevano fatto qualche prova, alcune notti prima, e Walter aveva calcolato più o meno bene i tempi: in auto, ci voleva una decina di minuti dal luogo dell’agguato al rifugio. Presto si erano sentite diverse sirene, da quella zona, segno per lui che ci avevano almeno provato: ma loro avrebbero dovuto esser già lì al sicuro.

 

Non fece caso ai primi cinque minuti di ritardo. Quando salirono a dieci s’innervosì. Ai quindici si rese conto che qualcosa doveva essere andato storto e si buttò fuori dall’appartamento a testa bassa, giù per le scale, fuori del portone, via di corsa in strada e poi a nascondersi nell’androne di un’altra palazzina, cinquanta metri più in là. Il tutto con addosso la precisa sensazione del fiato sul collo di una mezza dozzina di digossini, che lo avrebbero inchiodato a terra infilandogli la canna d’una Beretta in bocca.

 

Non accadde nulla del genere e, quando riprese un po’ di lucidità, si rese conto di aver fatto più o meno la cosa giusta: se qualcosa era andato davvero storto, rimanere nell’appartamento significava cacciarsi in trappola da soli. Beh, lì in strada uno come lui non passava inosservato, ma per fortuna non c’era nessuno in giro anche se non era ancora l’una di notte, neppure l’ombra della pula e, da dov’era, poteva tener d’occhio benissimo l’ingresso del palazzo, casomai gli altri fossero arrivati.

 

Mentre i minuti passavano, rimuginò sul da farsi. Telefonare a qualcuno del gruppo, nemmeno a parlarne: l’unico telefono fisso che avrebbero dovuto usare stava nell’appartamento, per il resto solo cabine pubbliche. Andare a casa, neppure: se la Digos si stava muovendo, quello sarebbe stato il primo posto in cui avrebbe cercato. Lara, no: abitava per conto suo, ma lui aveva avuto la massima cura di tenerla fuori, malgrado le sue rimostranze sulla base del classico ritornello che “quando c’è da far qualcosa di serio, che non sia scopare, i compagni non considerano alla pari le compagne”. Fuori o non fuori, la Digos si sarebbe occupata anche di lei, al momento giusto: meno sapeva, meglio era per tutti, lei per prima.

 

Gli balenò un pensiero: “Cazzo, sono in clandestinità!” Certo, in mezzo a quella faccenda in clandestinità ci si sarebbe trovato automaticamente, ma a lui non era mai accaduto di non avere un tetto fisso sopra la testa, di dover preoccuparsi di cambiar posto una notte sì e una no per poter dormire. Una cosa è pensarci, magari mitizzando le gesta di chi in quel modo ci aveva passato anche mesi, un’altra è trovarcisi in mezzo all’improvviso, dopo aver assunto il ruolo di quello che rimaneva chiuso nell’appartamento a “interrogare” il prigioniero, finché non avessero deciso se mollarlo o spostarlo più lontano, e aspettare un riscatto. Questo sarebbe stato un èscamotage e doveva servire a mantenere i rapporti con Marco, che avrebbe man mano deciso sul da farsi.

 

Decise che comunque non poteva starsene lì; andò su e giù per qualche strada, sempre riparandosi nelle ombre di un portone, quando sentiva avvicinarsi un’auto, e cambiando marciapiede se avvistava rarissimi passanti che gli venivano incontro. Le sirene continuavano a sentirsi, ogni tanto, senza che potessero suggerire una direzione precisa: “Stanno facendo i posti di blocco,” pensò. A ogni macchina che sentiva arrivare o che vedeva, si stringeva al muro, ma ne vide una sola dei Carabinieri, e senza nemmeno il lampeggiante; né notò, per quello che gli parve, qualcuna di quelle auto civetta che si sapeva potevano essere in giro. Si ritrovò a chiedersi se fosse un buono o un cattivo segno.

 

Per altro quel “dottor Brusiani” era stato molto chiaro: se gli altri fossero stati presi, doveva riuscire a superare la notte e fiondarsi appena possibile presso lo studio del più noto penalista locale, col quale si sarebbero concordate le modalità della sua consegna, questi erano i patti. Fondamentale era perciò che gli sbirri non lo beccassero prima. Doveva passarle da qualche parte (magari in un bar, visto che la colazione era un aspetto da non trascurare, pur essendo in clandestinità?). Dove e come poteva passare quella notte, visto che oltretutto poteva muoversi solo a piedi, visto che le macchine le avevano lasciate in posti diversi e lontani da lì, perché dopo il rapimento si sarebbero mossi solo con moto o motorini?

 

Dopo un’altra mezz’ora di girovagare si ritrovò nei pressi di quei giardini dove era solito incontrarsi e parlare con Riccardo e decise che sarebbe stato meglio per lui ritirarsi lì, su una panchina fuori vista, meglio se non lontana, per precauzione, dalla ferrovia: scavalcò con goffaggine la cancellata contando di aspettare lì l’apertura dei giardini, alle otto e mezza, e di uscirne, vedendo di non farsi beccare dai custodi, per correre all’appuntamento.

 

Sonnecchiò per un po’, in quelle poche ore, tentando di cogliere i suoni del parco. Quando a quei suoni si unirono le voci degli uomini che aprivano il cancello e iniziavano a svuotare i cestini, si alzò e, facendo bene attenzione, riuscì ad allontanarsi come aveva previsto.

 

La città si stava animando, malgrado il cielo grigio. Sì, c’era più polizia in giro, e poi capannelli di persone vicino alle edicole: tutte le locandine dei giornali parlavano a caratteri cubitali del “Rapimento del geom. Campice”, del “Rapimento di un noto imprenditore e politico”, di “Ritorno del terrorismo rosso”.

 

S’intrufolò in uno di quei capannelli, dimentico del rischio, per quanto fosse improbabile che qualcuno lo riconoscesse e avesse motivo per collegarlo a quanto accaduto e rimase a studiare quei titoli per un po’: c’era qualcosa che non capiva, maledizione, se la cosa veniva descritta in quel modo, come se il rapimento avesse avuto successo. Passava da una locandina all’altra con gli occhi sgranati e il cuore che gli montava in gola. Non aveva spiegazioni, solo la sensazione di essere stato in qualche modo fregato, pur senza capire come, da chi e perché. Ma non aveva nemmeno più scelta e proseguì, arrivò al portone in centro senza intoppi, suonò, disse la frase convenuta, entrò.

 

Meno di dieci minuti dopo, arrivò Marco incazzato come una iena, lo prese per il bavero spintonandolo al muro di una stanza vicina e gli urlò fra i ceffoni che gli tirava: “L’avete preso, no? E cosa ci state facendo, adesso, pezzo di merda?” E Walter, come un pezzo di merda, restava a bocca aperta in mezzo a quella confusione di sberle, senza potergli nemmeno rispondere il più classico dei “Non lo so, cazzo, compagno! Parliamone!”

 

 

 

(tratto dal romanzo breve "I pesci nel barile",

Vicenza 2013, Ed. Saecula - anche in e-book)


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