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Il viaggiatore incantato

Narrativa

Nikolaj Leskov
Einaudi

Recensione di Claudia Ciardi
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Pubblicato il 06/07/2010 12:00:00

Si è detto, è una riflessione di Alberto Arbasino, che il romanzo, e dunque la letteratura occidentale moderna, finisce sul corpo morto dello starec Zosima nei “Fratelli Karamazov”.
Altri hanno parlato di una notte di ottobre ad Arzamas dove il conte Tolstoj descrive la paura di morire come “l’orrore bianco” dentro una stanza quadrata.
Nel 1873, l’anno in cui esce “Il viaggiatore incantato” di Nikolaj Leskov, l’arte del narrare sembra godere ancora di ottima salute. Walter Benjamin, la cui voce non casualmente viene ad avviarci alla lettura di questa storia tradotta per Einaudi con piglio vivace e ironico da Tommaso Landolfi, scrive un’apologia dell’epica del racconto ispirandosi proprio al métier di Leskov. Questo russo dalla vita e dalla penna itineranti sa raccontare in modo da non immobilizzare la spontaneità dell’actio nella forma di romanzo né impegolarla nella sua tormentata anamnesi interamente orientata dall’individualismo psicologico. Piuttosto è perfettamente in grado di restituire la semplice leggerezza della fiaba, l’improvvisazione fantastica che innesca i suoi innumerevoli cambi di scena, le sue improbabili allusioni in grado di esercitare un richiamo irresistibile sull’immaginario degli ascoltatori; come non manca di osservare il narratore, “dopo questo tutto da noi andò in fretta come in una favola.” Ciò suggerisce qualcosa anche riguardo al ritmo della narrazione. Sulla corrente del Ladoga, vicino a S. Pietroburgo, il narratore si manifesta ai passeggeri e inizia così una fluente cronaca di viaggio e di vita, incalzata dalla curiosità dei suoi uditori.
Questo asciutto resoconto articolato tra fantasticherie e stralci di un’ipotetica realtà corre veloce come le acque di un fiume, fatalmente il señal del passaggio degli anni che si gettano all’inseguimento del giovane Ivan Fljagin fino all’inesorabile farsi largo dell’ultima stazione del cammino, o per meglio dire rêverie.
Il costante avanzare del nostro perfetto novellatore che si sente dominato da una forza a lui estranea, la quale assume diverse forme, dalle visioni del monaco ucciso quando era adolescente, al potere del magnetizzatore, all’amore di Gruška scaturisce dalla profezia annunciata all’inizio della storia, secondo cui “dovrà molte volte perire e mai perirà”.
E ogni cosa procede lungo il corso mutevole dei fiumi o nell’impeto forsennato dei cavalli, perché proprio in questi animali è riposta la più intima e particolare comunione sensibile e visionaria del narratore incantato.
Le folle selvatiche reali o sognate che scuotono la trama, simili alle genti della Scizia descritte da Erodoto o, a detta dello stesso Leskov, a quelle che popolano le favole di Eruslan e Bova Korolevič, con un richiamo scoperto ai suoi probabili modelli fantastici, le personae mythicae che non appartengono a nessun tempo e luogo ma sono ovunque e si danno dappertutto come forze motrici del racconto, ci riportano agli antichi cicli narrativi, alla peregrinatio della parola che nel passaggio dall’uno all’altro episodio è essa stessa materia dinamica, corrente che attraversa veloce le diverse sponde dell’immaginazione, e nel suo costante cambiarsi tesse le innumerevoli possibilità di un viaggio letterario altrettanto infinito.
Le affascinanti serie combinatorie che giocano la tragicommedia di Ivan Sever’janyč Fljagin sul filo del grottesco, talora affidandosi ai toni dell’elegia, come nel caso delle considerazioni sulla “malinconia senza fondo” della steppa o l’invocazione alla bella e infelice Gruška sulla riva del fiume immerso nel vespro, rivelano la loro essenza nei contrasti visionari e paradossali che ne alimentano il vorticoso alternarsi sulla scena.
Al suono di un “pti-com-pe” un guaritore esorcizza la notte di Kursk, e Ivan scivola attratto dal magnetismo e non può arrestarsi, va via trascinato dalle formule incantatorie che il suo tempus mirabile gli recita attorno, ritualmente abbandonandosi al flusso. Così il viaggio approda all’agnizione finale, che coincide con il compiersi della profezia, nella quale non è solo il risveglio cosciente di Fljagin ma anche l’emergere di un’intelligenza ossessionata e acuta che fa presagire la perdita del mondo.
La fine dello smarrimento comporta per il viaggiatore incantato la chiarezza. Vede il suo popolo vacillare e piange, Ivan-Fljagin-Ismail, l’uomo dall’identità viandante, che sulla pace appena conquistata sente insistere nuove visioni e farsi largo la minaccia della guerra. La leggerezza e la fluida grazia che sostengono la dizione epica di Leskov improvvisamente si trovano smorzate dal confronto con una labilità ineludibile. Proprio qui, nella chiusa, si affacciano le lunghe ombre del tramonto in cui Benjamin ha visto aggirarsi il narratore. Nello stesso istante in cui l’autore solleva il velo scoprendo che pure la realtà ha un volto ostile e incerto, il racconto entra in affanno.
Dieci anni dopo, dalla bianca stanza delle “Memorie di un pazzo” Tolstoj sembra voler recuperare a una concretezza visiva le angosce del Signor Fljagin.
Forse Leskov non sentiva già scricchiolare qualcosa nella Grande Russia?
Il vagare senza posa del suo protagonista trova la principale sponda in un amaro sconcerto profetico, in parte riflettendo i rovesci di sorte dei singoli o di intere nazioni che al lettore più tardo non possono non evocare la prima guerra mondiale, il cui spettro pare nutrire come falda sotterranea il nero disincanto col quale si chiude il secolo del progresso.

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