Grattacaso è uomo che rivolge la sua attenzione verso la vita e le sue fantasiose colorazioni, vive nella cosciente finitezza con uno sguardo di necessità verso l’infinito, inclinato verso il dinamismo pur nella sua staticità, e con la voglia del gioco nel fuorigioco. Egli ha sete di eternità, sottesa alla materia cosmica (“[…] / Oh le stazioni nelle notti timide, / le luci ruvide nell’eternità.” Pagina 38) e contrapposta alla caducità del mondo, del quale egli denuncia il disaccordo con le attese di serenità che si esprimono nel più intimo dell’animo umano. Grattacaso anela a partecipare, pur nella sua quotidianità, fatta anche di espedienti esistenziali, alle dinamiche cosmiche, alla vivacità della vita; nelle sue descrizioni poetiche ne sostiene la bellezza, e lo fa proprio mettendo in evidenza, talvolta in modo ironico, le miserie dell’esistenza umana e la sua inevitabile caduta verso il delirio e la solitudine. Nel tentativo di risollevarne le sorti, egli esprime intenzioni, detta modalità correttive, suggerisce azioni, che forse rimarranno soltanto intenzioni, ma rivelano come ogni uomo sia in realtà, allo stesso tempo, una vita da salvare e un potenziale salvatore.
Che cosa succederebbe se noi tutti avessimo “[…] lo sguardo circoscritto / a poche miglia […]”?
“[…] noi sapremmo solo / il glicine, il limone marzaiolo, / il passero che salta e in un sussurro / il vento tra il ciliegio e il niente intorno, / tutto finito dopo pochi passi, / appena un po’ di cielo, un tenue azzurro / e poi più niente, solo rami bassi.” (Pagina 83).
Mi chiedo: fin dove lo sguardo umano riesce a spingere il suo vedere? A che distanza sono posti i rami bassi che, a differenza della siepe leopardiana, in Grattacaso, coprono completamente l’infinito, ritagliandolo via ed evitando così, o cercando di evitare, il cuor che “si spaura”? Il poeta, in questo incantevole poema – che in parte si trova anche nella quarta di copertina –, richiama contrapposte evidenze. Da una parte, proponendo di circoscrivere lo sguardo a "poche miglia", richiama l’indubbia capacità umana di affrontare una visione ampia del mondo – fisico, sociale, psicologico… –, al di là dei “rami bassi” di un circoscritto interesse (se non è addirittura, in alcuni casi, un vero e proprio disinteresse) per la vita, che per alcuni è provocato dal calare del sipario dell’immediata soddisfazione dei sensi, indotta da un materialismo-consumismo accecante degli infiniti, si tratta di un processo incosciente, di cui magari non ci si rende più conto, così accerchiati come siamo dal villaggio umano dei piaceri. Per altri, invece, un restringimento cosciente della visione significherebbe, finalmente, una pace trovata, una serenità raggiunta, un modo di riposare dalle inquietudini esistenziali – angosciante incertezza o addirittura disperazione – che inevitabilmente il vedere troppo lontano, un ampio orizzonte senza terre, induce. A quest’ultima specie appartiene il poeta, il quale da una parte è, per vocazione, chiamato a sostare nell’interezza del mondo, al centro o al margine dei suoi ampi orizzonti, dall’altra, in quanto creatura, vorrebbe invece sostare in un più immediato e semplificato esistere. Ma anche laggiù, su quello stesso orizzonte che lo rende inquieto, sul confine dell’ampiezza, vi sono “rami bassi” oltre i quali si trova l’ignoto. Si tratta di una sorta di principio di indeterminazione esistenziale, valente nell’infinitamente grande come nell’infinitamente piccolo: avvicinandosi all’orizzonte aumenta l’incertezza degli spazi, nel generarsi di nuovi orizzonti e, quindi, di nuovi confini da superare. Tale indeterminazione rende impossibile al poeta una visione certa del mondo, conviene allora sostare, attendere che nella ciclicità dell’esistenza tornino eventi favorevoli: “[…] Mantenete il ritmo / voi se credete, io invece resto fermo: / tanto ritorna prima o poi l’inverno.” (Pagina 33).
Il poeta sembra che conosca molto bene i meccanismi della vita e i destini, proprio perché la vita stessa ha suoi cicli ripetitivi (“[…] e noi dovremmo andare / ma è tutto fisso nella chiarità, / andare andare ma poi restiamo qua.” Pagina 48), nel suo scorrere stratifica memoria (“[…] / aggiungere capitoli alle trame. // […].” Pagina 54), la quale, in qualche modo, rende il poeta attento e guardingo, capace di intercettare, esperienzialmente, tra i molteplici accadimenti, quelli più significativi: “[…] Andiamo / avanti allora senza intoppi, piano, / quasi da soli per non farci male, / evitando con cura incontri e eventi.” Inoltre Grattacaso, sempre nella poesia di pagina 54, esprime molto bene incertezze e indecisioni delle proprie strategie socio-relazionali, “[…] Cosa / faccio, li abbraccio, me li tengo stretti, / accetto il rischio di una confessione, / me li allontano in fretta e me li scordo / entrato in confusione dopo un passo? […]”. Da tante composizioni della raccolta emerge l’indecisione come elemento discriminante nelle scelte quotidiane, che, per quanto spicciole, hanno sempre un riflesso profondamente esistenziale; tale indecisione, oserei dire, è uno dei leitmotiv dell’intera raccolta. Un modus vivendi che sembra essere parte integrante del carattere del narratore ed è perfettamente strutturato in modo cosciente e positivo, in quanto pone il poeta in uno stato di particolare interesse verso il mondo, tant’è vero che egli afferma: “Se tu lo vuoi, io me lo invento un giorno / che ti sembro deciso, sembro eterno, / so già che fare da mattina a sera, / […] / io guardo sempre avanti se tu vuoi, / ma solo un giorno sennò poi ti annoi.” (Pagina 71). Viene qui associato il concetto di decisione a quello di eternità, e l’indecisione all’originalità, “sennò poi ti annoi”. Interessanti associazioni, è come se le fluttuazioni esistenziali, dovute all’incertezza, fossero responsabili del nostro procedere tra gli stenti della provvisorietà temporale, e un’assunzione di decisione espanderebbe il nostro tempo all’eterno, ma una noia mortale ci prenderebbe, ci sarebbe poco di divertente nella “decisione”, in quanto, per Grattacaso, e in parte mi associo al suo pensiero, pare che l’originalità dell’uomo stia proprio nell’indecisione e nella sua capacità di scelta - in libero arbitrio, dopo il momento instabile dell’incertezza - di caricarsi delle proprie responsabilità, è come se la libertà ci rendesse mutevoli e caduchi, la transitorietà umana è il prezzo della libertà che si riflette in tutto il Cosmo, un pensiero che corre molto prossimo a quello biblico di un peccato originale dovuto alla nostra libertà, famoso agire della “prima coppia” che ci ha resi così instabili tra la vita e la morte.
La sezione con cui inizia la raccolta, intitolata UOMINI E MERLI, si apre con una poesia importante che dà l’imprinting a tutta l’opera. Nel paragone tra il saltellare solitario di un merlo nell’ombra e un sé – dell’autore – in affanno, in cerca di “miracolo” (“[…] Sto in affanno, / in cerca di miracolo, […]”), il poeta sancisce, nel confronto con una gatta – che a più riprese tornerà come simbolo di indipendenza dalle scelte e dall'affanno del mondo, che “sta a guardarlo” ostentando indifferenza, e di pacata intelligenza e sguardo attento e d’attesa, –, l’inutilità di affanni, preoccupazioni e movimentazioni, anche perché per quanto ci si affanni in azioni, si entra comunque in una sorta di stallo esistenziale “[…] / quello che parte e sempre è sulla soglia / […]”, infatti ogni dinamismo esagerato risulta avere una apparenza di staticità, come, per esempio, una ruota in rapida rotazione: “[…], sempre solo il merlo / nell’ombra salta, la gatta sta a guardarlo, / ostenta indifferenza, è la sua scienza, / sceglie lo stallo, mentre gli altri vanno, / uomini e merli, in preda al loro affanno.” (Pagina 13). Grattacaso, infatti, elabora, sempre sull’onda di un procedere tra positive indecisioni, un opposto pensiero rispetto a quello comune che vede di buon occhio il dinamismo anziché la staticità, o cerca di allontanare le proprie paure, di vincerle, elaborando un uomo forte, deciso, ma che in realtà si scopre essere sempre più debole proprio perché incapace di accogliere ciò che realmente è in sé stesso, creatura nell’ignoto: “Le mie paure me le tengo care, / le conservo sott’olio, in salamoia, pronte / per l’uso, se ce ne sia bisogno. Non sono / sano ma non voglio cura, / perché poi in fondo è meglio la paura / che un agire per sempre contraffatto, / un coraggio affannato / e senza requie. […]”. (Pagina 14).
Molto si potrebbe dire del campo espressivo dell’autore, delle vesti descrittive che indossa con velata o evidente ironia che ricorda a tratti le migliori poesie di Magrelli… ma mi avvio alla conclusione dicendo che l’intera raccolta è perfettamente congegnata e le poesie, correlate tra loro, si richiamano l’una l’altra, sia nei significati che nei suoni, nei testi non mancano assonanze e rime che, opportunamente distribuite, in qualche poema a mo’ di cantilena, amplificano una sorta di ripetitività esistenziale che emerge particolarmente da alcuni testi. Il poeta sembra volutamente ritagliare via dalla propria vita i luoghi comuni, definendo un proprio campo d’esistenza dal peso specifico minore che emerge dalla pesantezza delle convenzioni sociali, almeno come pensiero, anche se poi l’azione risulta sempre imprigionata nel recinto del buon senso della convivenza civile: “[…] / E tutti gli altri che vanno, dove vanno? / Che vita li accompagna, in quale arcano / destino il treno li abbandonerà? / Vorrei seguirli, prenderli per mano, / dirgli che il viaggio e tutto il resto è inganno, / ma resto fermo, mentre tutti vanno, / io non li seguo e loro spariranno, // per sempre spariranno dalla vita.” (Pagina 58).
Ma ciò che più mi ha colpito è una domanda che si diffonde tra i versi: perché l’esistenza, qual è il senso del vivere e del fare? Domanda che talvolta si eleva decisa come in questi pochi versi: “Il cielo e le sue stelle ed io di sotto, / sguardo ridotto, tutto è senza scopo. // Più vedo e più mi sfugge ogni costrutto: / perché zirlano i tordi, fiorisce il pungitopo?” (Pagina 66). Poesia che lega con soluzione di continuità questa raccolta con le ultime produzioni poetiche dell'autore (se ne possono leggere due qui:
http://poetrydream.splinder.com/ e su questo sito come
poesia della settimana). Egli, dall’incertezza delle azioni quotidiane, si muove verso l’infinito del Cosmo e, “in mutande”, rimane allibito e a bocca aperta davanti al senso – o non senso? – dell’esistenza universale: “[…] / senza pareti o stretto / come una cella, io non so capire, / […] / Intanto alla rinfusa in cerca di ovvietà / in questo posto con fiducia aspetto / si posi ad indicarmi una ragione / una stella cometa o un moscone.” (Pagina 67). Quest’ultima è la poesia che contiene il verso che dà il titolo all’opera qui proposta, “Confidenze da un luogo familiare”; vi si esprime, in grado massimo, l’attesa del poeta di una risposta al suo interrogativo esistenziale, risposta che non potrà che “arrivare” come un dono, visto che “senza pareti o stretto / come una cella, io non so capire”.