Pubblicato il 29/06/2010 12:00:00
Questo librino della collana Ocra Gialla comprende “Il Licantropo” ed altre prose inedite del celebre ed enigmatico autore siciliano. I temi portanti delle brevi prose sembrano essere la memoria e una sorta di follia i cui lati spesso combaciano con quelli della fantasia e della lucidità creativa. E’ la luna che con la sua luce trasfigura la creazione della fantasia trasformandola ora in una ragione d’essere, ora in qualcosa da cui fuggire, per non restarne troppo coinvolti, per non vedere l’originalità, l’anelito a trasformarsi in qualcosa di scandaloso agli occhi dei più. La fantasia diventa anche luogo in cui rifugiarsi, modo di scacciare i demoni del presente e lasciar intravedere uno spiraglio di fuga in un luogo inaccessibile, sebbene a portata di mano. La luce lunare risveglia i ricordi, fa ribollire gli animi, tratteggia ricordi immaginari, di viaggi e ritorni, notti in camere d’albergo disadorne in compagnia di chi si è perduto per sempre, o non si è mai avuto. Il licantropo è colui che animato dalla vena artistica e creativa della fantasia se ne lascia trasportare incondizionatamente, verso lidi ignoti, che parrebbero essere oggetto di scandalo per la società cosiddetta civile, ma forse è solo una dimensione dell’essere che pensa e crea. L’autore dunque vede la fantasia come confine con la follia, entrambe da tenere controllate, a distanza, ma da cui essere ammaliati. Lasciarsi andare alla follia tentatrice è lecito, ma sino ad un certo punto, bisogna sapersi fermare, sebbene c'è chi vi si sia lasciato andare, ed i suoi vecchi compagni di giochi lo guardano con paura, un terrore dell’ignoto che non manca di affascinare, che mina il conformismo ma dà una visione più ampia, personale, differente sulla vita. In “A Taormina con la nonna” la follia lunare, i ricordi di fantasie sono rifugio dove trovare riparo dalla fantasia di paure, e da stenti reali, al contrario che ne “Il Licantropo” in cui una giovanile vena di follia lascia spazio ad una maturità solida, dove l’immaginazione rappresenta la perdizione, da commiserare ma anche cui guardare con una vena di amarezza per qualcosa che si è perduto, o non si è saputo trattenere. La narrazione di D’Arrigo è fascinosa, talvolta tortuosa, ma capace di tinteggiare con rapide pennellate ampi panorami interiori e del mondo circostante, che danno un gusto preciso dell’istante colto, come : “L’ultima mia lettera è datata da P. e fu scritta in una stanza d’albergo afosa e stretta dove una ragazza cantava stornelli di leciti amori con una voce gradevole da coro, che s’interruppe ad un tratto su rosse fette di cocomero rinfrescante”. Le ventisette paginette della raccolta scorrono dense agli occhi del lettore, piene di rimandi tra realtà ed immaginazione, mondi costruiti per essere disfati in fretta, sempre sotto la luce ammaliatrice della luna, capace di trasformare l’animo, e con esso modificare il mondo circostante. Concludono il volumetto, una nota biografica e una interessante postfazione di Siriana Sgravicchia, in cui queste brevi prose vengono sapientemente collocate nella prospettiva generale dell’opera di D’Arrigo, presentandole come le basi su cui l’autore ha saputo costruire la sua opera principale e più nota: Horcynus Horca.
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