Gettata la lira nella siepe,
scesi di nuovo all’inferno:
volevo incontrare Ade,
volevo ancora Euridice.
Caronte, ormai in pensione,
seduto su una panchina leggeva
un libro (di quale poeta non mi disse).
Colpito, mi avvicinai:
«perché qui tutto sembra strano?
perché l’inferno non brucia
come l’ultima volta?»
Prima di consegnargli l’obolo – gli occhi riversi
su una pagina – mi precedette:
«Il fuoco, ciò che un essere umano crea,
resiste se il suo motivo ancora lo alimenta.
Morto il motivo, resta la cenere, la memoria».
Avvilito, mi sedetti al suo fianco.
«Cosa leggi?»
«Leggo versi. Di una strana dolcezza.»
E subito recitò:
«Creare una melodia nell’orecchio
acquieta il dolore e sana la ferita».
Forse pure lui come me subì un destino e
una perdita? Che senso aveva per lui quel verso?
Capii. Era inutile scendere nel luogo dell’ assenza.
Non potevo restare: Euridice non era più lì.
Niente traghettata. Un ultimo saluto,
e presi la risalita.
Alla luce della terra compresi
il mio dolore tanto da amarlo.
Lei mi disse:
«Amami fino a dimenticarmi!»
Pesava più il dolore o la coscienza?
Entrambi!
Galanteria del tempo:
ridonare senso a ciò che è stato.
*
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