Pubblicato il 22/02/2016 18:12:54
La famiglia Pace non era di Napoli, e nemmeno dei dintorni. Venivano dalla Puglia, e il nonno, di professione ciabattino, aveva uno strano nome: Sperandio. Tutti noi ragazzi gli volevamo bene, perché le sue riparazioni di scarpe e ciabatte le faceva fuori dalla bottega, in mezzo alla strada. Era uno spettacolo sentire quei colpi di martello che inchiodavano le suole, una musica speciale, un ritmo che incantava. Non sbagliava un colpo, Sperandio, che noi chiamavamo “ciabatta”, ed era svelto. Intanto che lavorava aveva il tempo di cantare e contemporaneamente farsi pubblicità con la gente che passava. “Scarpe come nuove, in un battibaleno e a poco prezzo”, urlava; poi riusciva anche a sorridere a noi ragazzi e schiacciarci l'occhio, come a dire: visto come sono bravo? Aveva un modo tutto suo di prendere i chiodini che gli servivano per fissare la suola: ne prelevava una piccola manciata da una scatola in latta e li sistemava uno per uno stretti tra le labbra; poi, all'occorrenza, li acchiappava con pollice e indice della mano destra perché a battere il martello era mancino. “Scarpe, ciabatte e stivaletti, uomo donna e bambino, sono il ciabattino più bravo del mondo”, diceva fischiettando e battendo, tagliando il cuoio, stendendo con un vecchio pennello quella strana colla scura dall'odore penetrante, che teneva in una scatola di latta di pomodori. Aveva un banco di lavoro quadrato e basso, una seggiola di legno grezzo con le gambe tagliate a metà per stare all'altezza giusta, e indossava un grembiale robusto, di rozza pelle macchiata, sul quale a volte appoggiava la scarpa all'altezza dello sterno in modo da poter tagliare il cuoio in eccesso, insomma “rifilare” le suole, come diceva lui. Sul banco, che sosteneva si chiamasse “desco” proprio come la tavola imbandita, ed era assai orgoglioso di sapere questa cosa, c'era di tutto: chiodi di ogni dimensione, lesine per fare i buchi, pinze, trincetti, coltelli robusti e dalla lama cortissima, vari martelli, fra i quali uno piccolo per battere all'interno della scarpa, forme in legno adattabili alle varie misure, e una quantità di spago di ogni colore, di quello cerato, resistente. Ma l'attrezzo più magico era uno speciale incudine: il piede di ferro. Aveva una forma strana, a tre sbalzi, e lui ci spiegava che era fatto in quel modo per permettergli di entrare in ogni anfratto della scarpa o dello stivale. Noi restavamo incantati a guardarlo, ma avevamo una speranza: se dopo quel tacco, o quella suola che stava cambiando, non aveva più lavoro in ordinazione, allora ci chiamava e ci faceva “ i trucchi”, come li intendevamo noi, ma lui li spacciava per magie vere e proprie. Carte che sparivano e ricomparivano dalle nostre tasche, o dentro le scarpe riparate, palline di gomma che si metteva in bocca, le ingoiava e poi se le toglieva da dietro, come un uovo, soldi che uscivano in continuazione dalle sue orecchie o dai nostri capelli, e poi il gioco più stupido, il più semplice forse, ma che a noi ragazzi piaceva tanto: il gioco di Gigino e Gigetto. Dunque il gioco era questo: prendeva due pezzettini di carta, magari da un ritaglio di giornale che usava per incartare le scarpe riparate, e se li incollava con la saliva sull'unghia di ogni dito indice. Poi iniziava la filastrocca, che così faceva: gigino e gigetto vanno a scuola, e mentre la recitava batteva alternativamente sul banco le due dita, su e giù, su e giù. Poi veniva la frase magica: vola gigino...e mandava in alto il dito indice della mano destra che poi ricadeva sul banco senza il pezzettino di carta, che appunto era “volato”. Idem per gigetto, incollato sulla mano sinistra...vola gigetto, e gigetto scompariva. Poi ripeteva la litania e diceva, torna gigino torna gigetto, mandando in alto alternativamente le dita che tornavano sul desco con il loro bel pezzettino di carta. Gigino e gigetto vanno a scuola, vola gigino, vola gigetto, torna gigino, torna gigetto... noi quella filastrocca la sapevamo a memoria e, quando “ciabatta” ricominciava a suolare, scappavamo via, magari col nostro pallone, cantandola come una litania. Non abbiamo mai capito come facesse a far volare quei due pezzetti di giornale, e poi farli ritornare incollati all'unghia, saldi come e più di prima. Della famiglia Pace, quello che noi ragazzi non potremo mai più scordare è il figlio primogenito del ciabattino, Felice. Il papà, per dargli un lavoro, insomma per instradarlo come si diceva allora, gli aveva preso con i risparmi di una vita una specie di negozio in fondo alla via e Felice, che era un giocherellone, lo aprì proprio il primo dell'anno, in procinto della festa della Befana. Naturalmente vendeva giocattoli nel suo negozio, e ne aveva di bellissimi, alcuni anche fatti a mano da artigiani locali. Vendeva poco, poveraccio, perché il nostro Rione era di povera gente ed i giocattoli che venivano regalati in occasione della Befana erano di quelli poco costosi, se non riciclati o scambiati fra parenti. La solita tombola, il monopoli, giochi di carte, il meccano e il piccolo chimico, gli immancabili Lego, che duravano anni e annorum, diceva mia nonna. Passata la Befana, il negozio non vendeva più, se non in occasione di qualche compleanno. Sapete allora che faceva Felice, che cominciava a dare segni di un sano e simpatico squilibrio mentale, per farsi pubblicità? Veniva anche lui in strada come suo padre, che nel frattempo si era ammalato, e donava i suoi regali meno importanti a noi ragazzi. Non capiva che in quel modo le sue vendite diminuivano ancor più. Lui, imperterrito, si piazzava davanti alla piccola vetrina e prendeva da un cestone di vimini un regalo. Poi aspettava che passasse di lì una mamma col bimbo in braccio ed allora metteva il pupazzetto, o l'aeroplanino, nelle mani della piccola creatura. La mamma ringraziava e tutti i bambini del rione Sanità gioivano. Felice era diventato il loro idolo, un mito. Chi non gli voleva bene, a Felice. Era una Befana maschio che durava tutto l'anno. Lui faceva felici gli altri e però, nel mentre, diventava più triste. Il suo sguardo iniziò ad essere sempre più fisso e le stranezze aumentarono. Oggi indossava gli scarponi da montagna, ed era estate, oppure veniva in strada a petto nudo ed era inverno pieno. Si vestiva alla cieca, senza cognizione, ed iniziava a declamare l'Inferno di Dante alla sua maniera, occhi fissi al cielo e giocattolo in mano. Un bel giorno non lo vedemmo più; si diceva fosse fallito, ma qualcuno seppe dai suoi parenti che era stato ricoverato in una casa di cura per malattie mentali. Morirà in un incidente in moto, dopo che era scappato dal manicomio con un amico. Andarono a schiantarsi contro una quercia secolare, al lato di una brutta curva. Al suo funerale c'erano tutti gli ex bambini del paese, ormai diventati papà. C'ero anch'io, anche se papà non ero. Gli abbiamo coperto la bara di vecchi giocattoli e pupazzetti, per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio... e il canto funebre “Quando busserò alla tua porta”, in cuor nostro lo cantavamo così: Quando busserò alla Tua Porta, avrò frutti da portare, giochi belli da regalare pupazzetti per bambini dentro il cesto tante cose da portare agli inquilini di quel grande Paradiso col sorriso sul mio viso...
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