Pubblicato il 19/02/2016 13:50:12
E' la prima volta che vengo a trovarla, da quando l'hanno portata in questo ospizio a causa di quella sua crudele demenza senile. Mi pare ieri che la portarono via di casa, ma ne sono passati di mesi. Chissà se si ricorda ancora del suo Gennarino. Io credo, o spero, di sì. Arrivo davanti ad una grande porta in vetro scorrevole, con telecamera. E' questo il suo reparto. La fotocellula non funziona, e la porta non si apre. Rimango in piedi come un allocco, e guardo dentro. Sì, perché c'è sempre un dentro e un fuori, non solo in questo luogo triste. Di là del vetro, dentro, c'è un uomo, seduto per terra. Mi guarda come se non mi vedesse. La sua faccia è immobile, una maschera. Anche le rughe sembrano disegnate. Gli occhi sono belli, hanno dentro tutta la vita passata, anche se io non riesco a leggerla. Ma sono chiari, luminosi; parlano, anche se sono muti. Ci guardiamo fissi, lui non fa la classica piega, a me invece viene il magone. Per fargli capire che voglio entrare insceno una mimica: fingo di non accorgermi che c'è il vetro e ci sbatto la testa. Mentre me la gratto, lui si alza, preme un pulsante e la porta si apre. Entro e mi accorgo che ha una divisa da ospedale, o da carcere: pigiama a righe, ciabatte, calze pesanti. Sorride, sorrido. Ora vedo meglio i suoi occhi, e riesco a leggere qualcosa ma è un racconto scritto in una lingua che mi è straniera, la lingua degli anni che passano e corrono più lunghi dei passi. E' gentile, come lo può essere un fiore che appassisce senza lamento in un giardino dismesso. Lui torna a sedersi davanti alla porta di vetro, forse la sua anima ha bisogno di luce, o forse ha bisogno di un contatto fisico con il fuori; io mi incammino nel lungo corridoio in cerca della stanza, la numero 17, che nella Smorfia napoletana è La sfortuna, 'a disgrazzia. Spero tanto che zia Carmela non se ne sia accorta, lei che giocava sempre al lotto. In fondo al corridoio scorgo una vecchina minuta e curva, con una borsetta al braccio. Cammina a piccoli passi, svelti, come fa il passero quando cerca briciole di pane sulla neve. Poi si ferma, guarda nelle stanze, e riprende il suo viaggio, sempre con le stesse movenze. Anche lei mi sorride, e mi guarda. Mi piacerebbe tanto sapere cosa pensa, ma nei suoi occhi non vedo la strada, né la gente. Non c'è confusione, quella del mercato per dire, non c'è disordine in quello sguardo, non c'è vita. E' come se si guardasse dentro, a ritroso, specchiando i suoi occhi nei miei, trasferendo il suo vissuto nella mia giovinezza. Le chiedo di zia Carmela; lei mi guarda e sorride. Io sorrido, e comincio a capire quel che mi aspetta in questo “mondo dentro”.
La stanza diciassette è l'ultima, in fondo al corridoio. Entro, e mi accorgo che regna la penombra. Le persiane tengono fuori la luce di questa giornata di sole. Anche per il sole c'è un fuori e un dentro. Alla mia sinistra, un letto con le sponde in ferro. Sembra vuoto, tanto è esile il corpo che gonfia le bianche lenzuola. Poi intravedo un testolina piccola, esce appena, sembra un uccellino nel nido che si guarda intorno stupito, e spaventato. Sulla destra l'altro letto, vuoto. Zia Carmela è in un angolo, seduta davanti ad un tavolino. Una luce illumina a malapena la sua figura, e il cuor mi balza in petto perché la vedo invecchiata di colpo. Mi ricorda la nonna, prima di morire. Sta cucendo il vestito ad una bambola di pezza, e la sua figura curva mi dice tutto della sua fragilità. « Ciao zia, come stai ? » , dico senza convinzione, come se fosse una frase obbligata dalle circostanze. Lei non si volta nemmeno. « Buongiorno dottore... mi porta al mare, oggi? » Mi avvicino e comincio a parlarle, e mi rendo conto che il groppo alla gola mi impedisce di dire parole sincere. Parlo, ma più per assecondarla che per dirle cosa provo. Mi viene in mente che zia ha sempre amato il mare e le barche a vela, quella passione non l'ha scordata. E nemmeno le bambole, ne aveva di bellissime e le cambiava spesso, le metteva sedute sul letto come se potessero far da guardia alla camera. E per ognuna aveva tanti vestiti, tutti diversi. Mi chiedo come sia possibile che quella stupida malattia che l'ha colpita faccia dimenticare le persone alle quali si vuol bene, e invece ti lasci il ricordo delle cose. Che significato ha: che siamo più attaccati alle cose che agli affetti? Esco dalla stanza amareggiato, anche se sono contento d'averla vista. In fondo al corridoio c'è l'uomo seduto. Si alza, mi apre la porta di vetro e mi sorride. Io gli sorrido, e non so quale dei due sorrisi sia più amaro. Forse il mio, il suo è quello di una maschera. Non è un sorriso.
Fuori è una giornata di sole; dentro non ci sono più giornate: solo attese. Alzo gli occhi alla finestra e vedo l'uomo della porta di vetro. Io lo vedo, ma lui no. Mi guarda, ma il suo sguardo non è rivolto alla vita, è perso nel vuoto. E' uno sguardo dentro, e in quel dentro chi mai può dire cosa c'è.
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