IL SUGO
Briciole di carne immerse in un pomodoro rosso sole danzano davanti alla mia bocca semiaperta, pezzetti che si spingono impazziti gli uni contro gli altri come a volersi dare spazio in questo tegame troppo piccolo.
Giro con monotona ripetitività il mestolo di legno di mia madre, immerso in un sugo il cui colore comincia già a volgere al tramonto.
La vita umana ha potenzialità illimitate. La mia evidentemente no.
Anche in un genio una parte del cervello rimane inattiva per tutta la vita.
Ergo, io devo essere doppiamente genio, visto che ho quasi tutto il cervello inattivo.
L’ho scoperto da poco.
Una lama penetra nel mio occhio sinistro e mi lascia un ricordo di luce iridescente, dalla finestra semiaperta entra l’ultimo bagliore di un raggio di sole insistente, insieme al profumo intenso del basilico piantato da Livia, appena una settimana prima che morisse.
Mamma ancora deve riconoscermi.
Ormai è trascorso più di un anno dalla morte di mia sorella, la sua assenza non annunciata ha sventrato la memoria di mia madre, riducendola a fotogrammi ingialliti di un passato dove io non ero e non sono tuttora compresa.
Non riuscirò mai a rendere morbida e cremosa questa carne, lei si arrabbierà con me perché, anche questa volta, non ho seguito le sue regole.
Questa mattina appena sveglia qualcosa, dentro di me, non si è incastrato bene con il resto del mio universo interiore, le mie cellule non si sono riconosciute appartenenti ad un unico individuo, si rifiutano di essere, catalogate, soggette anche loro ad un karma che determinerà il loro futuro.
Mi sono sentita come un dado, le sei facce tutte dentro me.
Solo, devo riuscire ad assemblarle, per non fare confusione.
Non ho nome.
Cioè, ce l’ho.
Mi chiamo Leonarda, ma per mia madre sono sempre stata “quella cosa inutile”.
Un quaderno mi porto appresso da mesi, le parole dentro che non escon fuori, non si tramutano in segni che possano lasciare una traccia indelebile di me anche solo su pezzi di umile carta a quadretti.
“Vorresti diventare una scrittrice…tu?” sentivo ridere sguaiatamente mia madre, mentre le spiegavo che non potevo lavare i pavimenti perché prima dovevo finire di metter giù il sempre primo, solo, unico capitolo di quello che a quel tempo voleva essere il mio esordio come scrittrice.
Devo sbrigarmi, devo finire questo sugo, altrimenti sarà vero che “quella cosa inutile” non è in grado nemmeno di preparare un ragù.
Ieri ho portato su in camera di mamma il grosso album di famiglia, una reliquia spaventosa in velluto marrone con inserti in finto oro raffiguranti della frutta.
Polveroso e con una ragnatela attorno che già un anno fa aveva deciso di renderlo proprio.
Un inserto si era staccato mollemente tra le mie mani, l’ho lasciato cadere dalle scale, noncurante.
“Questa chi è, mamma, chi è, eh, la riconosci?” dicevo alla donna grigia stesa sul letto che mi guardava come fossi un ombra cinese.
Livia. E’ Livia, la mia cara, dolce, bella Livia.
Ecco, lei la riconosceva, toccava con le sue dita ossute la foto, quel viso, gli occhi, la bocca sfocata della figlia che non c’era più.
A fianco, abbracciata alla giovane, c’ero io.
Lei mi guardava in quella foto, poi alzava gli occhi su di me e mi chiedeva chi fossi, dentro di me la morte.
Devo fare in fretta, devo sbrigarmi, prima che loro arrivino a prendermi.
Sento puzza di bruciato.
Il sugo.
Inavvertitamente si è attaccato al tegame, creando un caramello amaranto che staccandosi dal fondo si spande, come cellule maligne dentro questa sostanza ormai seviziata da ore.
Lo detesto. Il suo odore, la sua consistenza, si porta appresso la materialità di ciò che non c’è più, un plancton animale parentale di chi… non c’è più.
Questo sugo è vita e morte al tempo stesso.
“Mamma sono io, Leonarda, la tua Leonarda, non mi riconosci?” le dicevo persino che ero “quella cosa inutile” di sua figlia, mi presentavo da sola nella mia essenza, lei però scuoteva la testa, no no, chi è questa donna, chi è.
Non ho nome.
Ecco perché non riesco a scrivere.
Esisto e non esisto. Mi trovo in uno stato che trascende sia l’esistenza che la “non” esistenza.
Sono stata appena percettibile a me stessa, figuriamoci pretendere di essere riconosciuta da una madre!
La verità è che NON HO SOSTANZA.
Da giorni, ormai, mi sono arresa all’arrivo di coloro che recideranno l’ultimo filo che mi tiene legata a questa vita.
Rea, io, di averne recisa un’altra.
Pensavo, speravo, che quella donna di sopra non li avesse più cercati, invece……
Salgo in camera mia a prendere in fretta le mie cose, loro non devono trovarmi qui quando arriveranno.
Ecco, il sugo è pronto.
Ho voluto celebrare così la mia liberazione, mentre per mamma sarà l’ultimo irriconoscibile ricordo della sua amata Livia.
Tutto è a posto, tutto è in ordine, mi guardo attorno e sento, nonostante tutto, ancora una forza che mi attira, non sono sicura di volerlo fare ma poi penso che è tutta mia questa cosa, non mi trattiene nessuno, non si può trattenere chi non si riconosce, chi non si ama.
Ma una cosa sento di volere con certezza e cioè che l’ultima sensazione che il mio corpo vuole percepire, prima di staccarmi da questo luogo, è quella del contatto delle mie dita con una penna e un foglio di carta.
VOGLIO SCRIVERE….. costasse anche la vita.
La vita di chi, non lo so.
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