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La contessina Valéry

di Luciano Nanni
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Pubblicato il 12/01/2016 14:21:49

Cos’è la perfezione dell’orrore? forse immaginazione che non è possibile tradurre nella realtà?

 

I

Se posso raccontare questa storia lo devo a un caso fortuito.

Tre anni or sono, credo fosse il mese di aprile, ricevetti la telefonata di un uomo che si qualificò come maggiordomo.

La sua padrona, discendente dei conti Valéry, cercava un contabile di provata fiducia. Durante un viaggio all’estero aveva incontrato la signora Dario, che io certamente conoscevo, e nel parlare era uscito il mio nome.

Ricordai che per un certo periodo avevo frequentato la signora Dario, poi ci eravamo persi di vista. La mia fama di onestà derivava da un fatto di cui parlarono anche i giornali.

All’epoca lavoravo in un’azienda di trasporti e nel controllare le ricevute mi accorsi di numerosi ammanchi. Ne informai la direzione che inviò un funzionario a verificare.

Risultò che avevo ragione. I responsabili del reparto amministrativo avevano ideato una ingegnosa truffa: caricavano gli assegni dei clienti su un proprio conto e li scaricavano due o tre mesi dopo sul conto dell’azienda, ricevendone in tal modo i cospicui interessi.

L’intero ufficio venne licenziato e io ottenni un aumento di stipendio.

Risposi al maggiordomo che ero disponibile e lui mi fissò un appuntamento.

 

II

La domenica successiva percorsi in auto la statale per circa dieci chilometri, deviando poi per una laterale non asfaltata e nascosta da una folta vegetazione.

Dopo tortuosi giri la strada finiva in uno spiazzo oltre il quale si ergeva la villa circondata da un muro alto non meno di tre metri e praticamente invalicabile.

L’unico ingresso era da un cancello che portava in alto un ovale con l’abbozzo di una strana figura racchiusa nel calice di un fiore, senz’altro lo stemma del casato.

Parcheggiai l’auto e cercai un pulsante per suonare, quando il cancello si aprì.

Entrai nel giardino antistante la villa: era allo stato selvaggio e l’erba cresceva sin presso la porta, da un lato il troncone di una statua ormai irriconoscibile e coperta di lichene.

La villa era impressionante per il tipo di architettura, un misto tra il barocco e il settecento, in origine doveva essere di un colore rosa, ora però era divenuto opaco, le linee e i frontoni avevano righe scure come se nelle varie sporgenze si fosse depositata una secolare caligine e le finestre erano munite di robuste inferriate: nel suo insieme l’imponente edificio incuteva soggezione, quasi fosse un luogo di giustizia.

Scacciai queste bizzarre considerazioni, sapevo che altre ville erano simili per stile, e tuttavia mi rimase un che di incompiuto o segreto, tanto che prima di varcare la porta ebbi una istintiva indecisione.

Mi aveva aperto colui che ritenni il maggiordomo. Non si presentò subito, intuendo ch’io l’avessi capito da solo, ma mi fece cenno di seguirlo.

La sala d’attesa era spoglia, se si eccettua un’erma con la testa di un fanciullo, e il pavimento era lucido come uno specchio.

Lungo la sala, dai lati, vi erano porte laccate d’oro nei fregi: il maggiordomo aprì la seconda a destra e mi introdusse.

Entrato che fui, chiuse la porta, si pose dietro un tavolo massiccio le cui gambe finivano a zampa di leone, mi invitò a sedermi, c’era una sola sedia con lo schienale ricco di intarsi.

Potei in tal modo osservare il mio interlocutore: l’avrei creduto vestito con la livrea di domestico, per quanto di rango, invece indossava una giacca chiara sopra la camicia e senza alcun ornamento. Era sulla sessantina, ma le rughe del volto mostravano un’intima sofferenza: gli occhi liquidi e il naso affilato confermarono l’idea che me ne ero fatta.

“Lei è ancora dell’avviso suppongo,” esordì, con voce rauca “perciò intendo chiarirle le condizioni: la contessina viaggia spesso e vorrebbe una persona di assoluta fiducia, ma so che le sue referenze corrispondono.”

Scossi la testa in segno affermativo. Poi mi pose alcune domande: se ero libero da qualsiasi altro impegno e quindi disponibile per un lungo periodo.

Lo rassicurai: ero vedovo da qualche anno e potevo collaborare a tempo pieno.

A quel punto tolse da un cassetto un fascicolo di alcune pagine. “Lo legga attentamente, se lei accetterà dovrà rispettarne alla lettera le istruzioni.”

Era un contratto in piena regola, il rapporto di lavoro veniva definito in ogni dettaglio e certi punti mi colpirono, per esempio: dovevo parlare con la contessina solo se richiesto, per sedici mesi non potevo per nessun motivo uscire dal perimetro dei muri, mi era però concesso di passeggiare nel parco situato dietro la villa. Le mie mansioni riguardavano la conduzione economica dell’immobile e mi veniva corrisposto uno stipendio il cui importo mi fece sussultare, inoltre se licenziato prima del tempo avrei ricevuto ugualmente le restanti mensilità.

Lessi il fascicolo in un quarto d’ora, poi, preso da un impulso irresistibile, firmai il contratto.

Il maggiordomo aggrottò la fronte, sorpreso da una decisione fin troppo rapida. “Non dovrei, ma le farò una confessione. Son qui da più di trent’anni, prima che morisse il conte, ora sono ammalato, un tumore al pancreas, e so di non averne per molto. La stimo una persona idonea e competente, se in futuro prendesse il mio posto ne sarei felice. Ha già letto le clausole di assunzione, in ogni caso le raccomando di non fare mai domande, la contessina è una giovane riservata e per taluni versi capricciosa e con un carattere non facile, pertanto esegua a puntino gli ordini che le darà.”

Detto questo riprese il suo comportamento distaccato quasi si fosse pentito di una eccessiva confidenza.

Mi accompagnò alla porta fornendomi le ultime istruzioni: avevo tempo dieci giorni per preparare i miei effetti personali, ma per il vestiario o ogni altra necessità precisò che avrei potuto ricevere a domicilio i negozianti.

Al decimo giorno, di mattina, un autista sarebbe venuto a prelevarmi.

 

III

Sistemai i miei affari e mi disposi anche psicologicamente a cambiar vita, ma ero ancora nel dubbio, provando a tratti eccitazione o inquietudine, perciò per ogni evenienza portai con me il cellulare.

Al giorno fissato arrivò l’autista e chiusi a doppia mandata la porta del mio appartamento.

Avrei voluto avvisare qualche conoscente, ma ormai era troppo tardi, e ciò aumentò il mio disagio: era come se volessi consegnarmi spontaneamente a un destino ignoto.

L’autista non aprì bocca per tutto il percorso, io, memore dei consigli del maggiordomo, restai in silenzio. Costui era vestito con la divisa da chauffeur e compresi che doveva trattarsi di un dipendente, forse la contessina non guidava.

Il maggiordomo mi accolse con deferenza, ma lo vidi fisicamente peggiorato, lo sguardo era assente e parlava in un modo stentato e interrotto dalla raucedine, sembrava che ogni movimento gli costasse fatica.

“Per prima cosa” disse “le farò visitare i vari locali, a eccezione del sotterraneo, tenga conto che anche al piano superiore le stanze seguono la stessa disposizione.”

Notò che avevo solo uno zaino col minimo indispensabile: un cambio di biancheria, il necessario per radermi e un’agenda per appunti. Avevo tenuto nascosti sia il cellulare che una piccola pianta grassa.

Nel farmi strada attraversò la sala da pranzo dove spiccavano un tavolo scuro e sei sedie ricche di intagli: in fondo due porte, aprì quella a sinistra per entrare in una stanza decorata con affreschi di scene pastorali, ma il successivo locale era praticamente vuoto.

Da qui partiva una scala nei due sensi e lui cominciò a salire tenendosi al corrimano.

Sbucammo in un ambiente simile all’ingresso di sotto. “La disposizione è a specchio, per cui la reception si viene a trovare dal lato opposto” spiegò.

Aprì la porta che era alle nostre spalle e mi introdusse in una graziosa camera con un letto da scapolo, un elegante armadio, un tavolino e la rispettiva sedia: osservai che la finestra era priva di inferriate.

“Se lei ama la musica, qui abbiamo una discoteca assai fornita, ma ogni cosa a suo tempo, e intanto se si vuole sistemare tra un’ora il pranzo le sarà servito in sala. La contessina desidera che anche il personale si adegui ai suoi gusti in fatto di cucina” e detto questo fece una mezza smorfia che voleva essere un sorriso.

Quell’uomo soffriva, ma cercava di nasconderlo. Io restai in silenzio, comportandomi con la massima naturalezza, benché non fossi tranquillo.

“Penso che lei sia un po’ spaesato dal cambiamento di abitudini, ma vedrà che si adatterà, l’importante è lavorare con calma e precisione. Ora potrà riposarsi un paio d’ore dopo il pranzo che le sarà servito a mezzogiorno. Verso le cinque verrò per un giro dei vari locali, almeno quelli accessibili. Domani inizierà i suoi compiti e per i primi giorni le farò da guida.”

Feci un cenno di assenso col capo e lui discretamente uscì.

Rimasto solo esaminai la stanza. I mobili erano abbastanza recenti. La finestra dava su un vasto parco e il possedimento si estendeva fino ai contrafforti del monte che si alzava a strapiombo coperto di vegetazione.

Fui preso da uno strano languore, più che vera stanchezza. Chiusi la porta a chiave e dopo essermi tolto le scarpe mi distesi vestito sul letto.

Guardando il soffitto notai che a una certa altezza era decorato tutt’intorno con una linea di figure simili al fiore nello stemma ovale, ma in una data posizione si trasformavano in volti umani, per quanto grotteschi.

Quell’ornamento mi ricordò qualcosa, e a forza di pensare mi sovvenni. Dal 1943 e per circa venti anni avevo abitato coi miei familiari in un palazzo di fine ottocento: l’appartamento aveva due camere, in una, in cui dormiva mia zia, c’era una linea con le stesse figure, pura coincidenza mi dissi, un disegno che forse andava di moda in quel periodo.

 

IV

Fu il fissare lo sguardo fuori della finestra a quel chiarore irreale in contrasto con l’ombra del monte sovrastante che mi fece assopire, finché un lieve battito alla porta mi scosse, e mormorai: chi è? Il pranzo è pronto e sarà servito in sala, rispose una voce con accento straniero.

Prima di uscire sistemai la piantina in un punto interno del davanzale ove non fosse visibile e posi l’agenda nel cassetto.

La sala corrispondeva in senso contrario a quella inferiore, con la differenza che era affrescata con vaporose figure, sopra spiccava un lampadario al centro d’un rosone da cui si dipartiva la scena pastorale dai colori sbiaditi, celeste e rosa.

Restai incantato da come il massiccio e ampio tavolo era imbandito: una tovaglia candida, di pizzo finissimo, posate, piatti e bicchieri, certo di notevole valore, erano luminosi, specie le stoviglie decorate artisticamente, e la cristalleria pareva brillare tant’era limpida, nel mezzo poi la luce veniva diffusa da un candelabro a sette bracci.

Di fianco il menu su pergamena, opera di un esperto calligrafo. In vita mia non ero mai stato circondato da tanta ricchezza, ricordai la mia gioventù quando ogni cosa era di modesta fattura.

Diedi una scorsa al menu, raffinato come il resto, poi comparve la cameriera. Abbozzò un inchino e disse che potevo scegliere. Dalle sue fattezze, il corpo robusto e il viso ovale e lentigginoso, ma più per l’accento, pensai trattarsi di una russa o moldava: le ordinai un filetto alla tartara e per frutta un’arancia.

Mentre tornava indietro, riflettei: qui nessuno deve dare confidenza, non so neppure il nome della contessina.

Non ci misi più di mezz’ora a consumare il mio pasto, dopo di che tornai in stanza.

Ero preso da un turbamento indefinibile, quasi che la villa fosse un luogo ostile e chi la abitava avesse qualcosa da nascondere. O ero io a non capire che il comportamento in un ambiente nobile è diverso dai comuni mortali, perciò mi rasserenai, sempre con la precauzione di chiudere a chiave la porta.

Dalla finestra veniva ora un chiarore declinante, la grande ombra cominciò a coprire parte della visuale, incupendo l’area del parco: in stanza mi sentii sicuro, il davanzale non era troppo in alto e da lì potevo fuggire, ma per qual motivo?

Tornai a contemplare i fiori o facce che dir si voglia e disteso sul letto questa volta mi addormentai veramente, ebbi persino sogni di cui mi sfuggiva la logica, per esempio un sentiero composto di terriccio franoso.

L’isolamento del posto e un silenzio assoluto se non rari fruscii o vaghe voci in lontananza mi conciliarono il sonno e appena il maggiordomo bussò per sapere se ero disponibile m’accorsi che erano trascorse più di tre ore.

Chiese il permesso di entrare e questo mi rassicurò, era per farmi vedere che l’armadio da me non ancora aperto conteneva diversi abiti da uomo e nel cassettone in fondo la biancheria, nel caso volessi usarne.

Il resto del pomeriggio passò a visitare i numerosi locali, alcuni privi di finestre, in tutto quarantasei: il mio ufficio era situato sopra per comodità e dotato d’un computer portatile che doveva servire per la contabilità. Non avevo visto in giro televisori o radio, ma evitai qualsiasi accenno al riguardo cercando anche di parlare il meno possibile.

Tuttavia col passar del tempo provai per il maggiordomo una istintiva simpatia: sotto quel suo modo di fare discreto e talora freddo pareva celarsi qualche segreto riguardante il casato avendo servito il conte per tanti anni.

 

V

Iniziò quindi il mio tirocinio regolato su tempi precisi: il mattino era dedicato al lavoro, dopo pranzo ero libero di fare ciò che volevo.

In genere mi fermavo ad ascoltare musica in cuffia nella fornita discoteca o passeggiavo nel parco scrutando il versante della montagna.

I miei compiti erano molteplici: sistemare i conti arretrati e piuttosto in disordine, ma anche visitare i locali e l’area esterna e intervenire qualora avessi riscontrato la necessità di restauri o di normale manutenzione.

Il maggiordomo accortosi della mia competenza mi lasciò carta bianca, di conseguenza lo incontravo di rado.

I giorni volavano poiché mi ero immerso nel clima del posto e mi ero perfettamente adattato a un diverso tipo di vita, una mia facoltà di cui certuni si stupivano, la capacità cioè di adeguarmi alle varie situazioni.

Poco per volta si insinuò in me l’idea che la villa e il terreno intorno erano ormai il mio mondo: se nessuno nel passato ne aveva narrato la storia, io me ne sarei interessato, partendo da una dettagliata descrizione degli ambienti.

Di questo mio progetto non ne parlai al maggiordomo, ma presi ad annotare nell’agenda i vari locali, se accessibili, con le loro particolarità: ognuno possedeva qualche caratteristica che lo distingueva, per esempio l’ufficio dove si era svolto il mio primo colloquio mostrava alcuni tratti peculiari negli infissi, o la stanza del mio computer la cui unica finestra era sormontata da un fregio floreale.

Per prudenza adottai un sistema in cifra che avevo ideato all’età di tredici anni. Si trattava di questo: i segni spostavano le lettere di uno, due o tre posti se le parole rientravano in tre, sei, o nove e più lettere, e per ogni gruppo gli stessi segni erano usati diversamente, sicché quelli di una parola come ape, per fare un esempio, cambiavano nella parola voce.

 

VI

Ai primi di giugno misi in ordine i conti e per i lavori più urgenti chiamai il giardiniere a sistemare le aiole.

Mi fu presentato il cuoco, un cinese abile a cucinare le pietanze richieste dalla capricciosa contessina: si limitò a fare un lieve inchino senza dir parola.

Solo lui e la cameriera, che accudiva in particolare le stanze da letto, vivevano in villa e sembravano felici, io pensai per gli stipendi elevati, sia pure in rapporto al sacrificio di dover rimanere, come me, entro il possedimento, ma non ricordo di averli mai visti uscire o aggirarsi nel parco.

Era un giorno già caldo quando il maggiordomo bussò con la consueta discrezione alla porta della mia stanza: gli aprii, e nel vederlo ebbi l’impressione di un uomo affetto da un grave esaurimento e giunto quasi alla fine.

Mi disse che per motivi di salute si era dimesso dal suo incarico: aveva parlato con la contessina che a malincuore lo rendeva libero e ogni mansione passava a me essendo dopo circa tre mesi in grado di affrontare qualsiasi evenienza, ero cioè un direttore con le stesse funzioni del maggiordomo.

In quel momento la mia curiosità crebbe, non avevo ancora incontrato la contessina, ma ligio ai suoi ordini evitavo domande anche su cose banali.

Gli strinsi la mano, la sua era fredda e ossuta e vi percepii un tremito che interpretai come emozione, lo scrutai nel viso ove era comparsa un’ombra di malinconia e forse di preoccupazione, subito però si ricompose nella usuale serietà.

“Prima che lei se ne vada potrei chiederle qual è il suo nome?” dissi.

“Victor” e detto questo si incamminò verso l’uscita facendomi cenno di aprirgli.

Il cancello si azionava dal piano alto con un pulsante che spinsi, poi mi appressai alla finestra pensando: se volessi scappare non farei in tempo.

Seguii Victor con lo sguardo: il cancello si aprì lasciandogli lo spazio appena sufficiente per passare e rapido si richiuse.

Provai per quell’uomo uno strano sentimento, nato senza dubbio dal suo sguardo inquieto.

Ora ero incontrastato direttore della villa e dei relativi dipendenti, dovevo far tesoro dei consigli di Victor: essere inflessibile e pretendere che le prestazioni fossero impeccabili.

 

VII

La carica di direttore mi diede in certi momenti una sensazione del potere quale mai avevo provato nella mia vita essendo sempre stato soggetto ad altri, però mi resi conto che il potere eccessivo conduceva al sopruso, in contrasto coi miei principi: ad esempio, rimproverai la cameriera per un errore di ortografia nel menu senza considerare che non era italiana e un’altra volta ripresi severamente il cuoco il quale nel preparare un budino aveva sbagliato le dosi.

Nel contempo non riuscivo a scacciare da me un oscuro timore, dovuto forse all’isolamento in cui vivevo, ma tenni ferma la decisione di non porre mai domande: ciò che più mi inquietava era il non conoscere ancora di persona la contessina.

Le giornate scivolavano via rapide, tra la scrupolosa tenuta delle finanze e la volontà di migliorare con accurati restauri l’edificio: trovai diverse infiltrazioni d’acqua che guastavano la tinta o il disegno dei soffitti, per questo mi avvalsi di un esperto. Dopo un suo restauro infatti non si capiva più la differenza tra il vecchio e il nuovo, ma a un occhio attento non poteva sfuggire l’antichità della costruzione, anche se l’aspetto esteriore era del tardo seicento: vi erano residui di epoche più remote, poiché in un angolo rinvenni un tipo di ornamento risalente almeno al cinquecento.

Nelle ore in cui stavo ritirato nella mia stanza mi dedicavo a riportare descrizioni o piccoli fatti quotidiani nell’agenda con la massima cura per non confondere i segni del mio complicato sistema di scrittura cifrata.

Un pomeriggio che distrattamente guardavo dalla finestra il parco, ebbi un tuffo al cuore: una figura di donna, aggraziata nei movimenti, camminava lentamente fra le piante e a un certo punto si chinò come per raccogliere qualcosa.

Era piena estate e faceva caldo, lei vestiva di un abito chiaro a frange e sopra le spalle portava una mantellina grigia: i capelli erano incerti tra il color oro e il castano, ma la luce vi entrava dando loro uno sfavillio delizioso.

Col cellulare scattai una foto sperando che la donna si volgesse per poterla vedere in viso, era indubbiamente la contessina, io ero il solo a frequentare il parco.

Ma non si girò, anzi sparì tra le piante: riparato dietro la finestra attesi a lungo senza esito.

 

VIII

In una saletta del piano di mezzo era situato il secondo computer col quale ricevevo gli ordini dalla contessina e io la informavo di qualsiasi operazione: potevo solo comunicare con lei, in nessun modo era possibile collegarsi all’esterno, a eccezione di una serie di e-mail che si riferivano a professionisti o artigiani di cui avessi necessità, perciò non esistevano telefoni.

L’estate era nel suo pieno, ma non vidi alcun condizionatore: per fortuna la villa, per via dei muri di considerevole spessore, si manteneva fresca, specialmente a piano terra, e vi contribuiva anche la vegetazione del parco, ricca di olmi e fitti arbusti.

Gli ordini venivano firmati con una V. ma non sapevo se era la sigla del cognome o del nome e le mie supposizioni non approdarono a nulla.

Un pomeriggio intorno alle cinque tornai nel parco e per prima cosa esaminai la facciata posteriore dell’edificio: parte del muro era deforme e con sporgenze prive di simmetria.

Inoltrandomi poi fra le piante scrutai il terreno cercando il punto su cui la figura femminile si era chinata a osservare o per raccogliere qualcosa.

Difatti, nei pressi di un rilievo, rinvenni infilato in una crepa un pezzo di tessuto, ma nel toglierlo si strappò e il lembo che mi rimase in mano risultò essere una specie di garza macchiata di sangue, al tatto mi procurò una singolare ripugnanza, ignoravo cosa fosse o a chi appartenesse, forse era capitata per caso da chissà dove o si trovava già nel terriccio sparso per concimare: a un esame più attento il sangue mi sembrò recente, ma era il calore del sole a dare una simile impressione.

Lasciai cadere il pezzo di stoffa e quando toccò il suolo si sbriciolò in tanti frammenti, segno che era piuttosto vecchio.

Proseguii, pur essendo perplesso, facendo un lungo giro per arrivare di fronte alla parete del monte: era facile smarrirsi fra la intricata boscaglia.

Presso una depressione ove scorreva un filo d’acqua scorsi un tronco caduto coperto di muschio e in più punti corroso.

Nel ritorno cambiai percorso e seguendo il lato ovest feci una interessante scoperta: un grande vaso di pietra a forma di anfora e incrostato di lichene si era riempito di sabbia, vi crescevano minuscole foglie, nell’orlo notai delle figure scolpite ma troppo logore per poterne distinguere i particolari.

Allorché mi rifugiai nella mia stanza mi sentii felice per quel ritrovamento, stavo creando attorno a me un mio ambiente, e questa volta mi sovvenne l’idea di possesso, benché non fossi che un dipendente: noi possediamo veramente ciò che non sarà mai nostro, pensai.

Dato che il restauratore doveva ritoccare la sala principale ove si era scrostato l’intonaco, con l’occasione lo condussi a vedere il vaso: lo osservò a lungo, infine affermò che era autentico e risaliva al quarto o quinto secolo.

Più tardi immaginai che la villa fosse di epoca romana, se non più antica.

Programmai un’altra escursione nel parco: volevo conoscerlo a fondo. Ogni tanto mi fermavo per coglierne qualche aspetto non comune, finché giunsi contro il monte: era impossibile scalarlo, poiché composto di roccia friabile, esso marcava il limite del parco a sud, assai più esteso di quel che credevo. Lo costeggiai alla ricerca di eventuali tracce e mi imbattei in una inferriata solidamente fissata nella pietra, ma non esisteva alcuna uscita, toccai la superficie e dovetti convenire che era compatta: che senso avevano allora quelle sbarre?

Fu in quel punto che mi accadde l’incidente: mi ero voltato un istante, e nel rigirarmi scivolai su una radice, tentai di aggrapparmi a qualcosa, invece andai a sbattere con la spalla destra sull’inferriata e mi ritrovai con il braccio piegato in dentro, subendo un forte strappo.

Per circa mezzo minuto rimasi stordito, poi ripresomi sfilai il braccio: sul momento non sentii male, ma nei giorni successivi provai dolore nel fare certi movimenti.

Per almeno una settimana dormii sul fianco opposto e a tratti, tormentato da sogni confusi che non ricordavo mai, indubbiamente dovuti all’infortunio.

 

IX

Dopo circa quattro mesi avevo in pratica perso la nozione di ciò che esisteva nel mondo esterno, né più mi importava di quel che vi accadeva, la mia speranza era di rimanere al servizio della contessina sin che le forze me lo avrebbero consentito.

Mi ero organizzato in modo perfetto, ma ero divenuto più lento, direi di una precisione quasi disumana: curavo in particolar modo la persona, cioè l’aspetto fisico e l’abbigliamento, ora vestivo solo indumenti firmati.

A volte pensavo all’altra vita, quella che avevo lasciato, a mia madre: era morta tredici anni fa, poi esumata e messa in un loculo senza il suo nome sulla lapide.

La biblioteca a pian terreno era divisa in due locali, mi ci ero recato un paio di volte, ma non sentendo il desiderio di leggere, finché un giorno decisi di vedere che cosa conteneva: la prima parte era dedicata alla letteratura classica e moderna, la seconda comprendeva le opere più interessanti e piuttosto rare: cercai libri sulla musica e, fra gli altri, fui stupito nel trovare il terzo volume del trattato di Ramos de Pareja, senza anno di stampa, ma certamente databile alla fine del XV secolo.

 

X

Era proibito entrare nel sotterraneo, accessibile unicamente dal piano di sopra da cui si dipartivano le due scale.

Passando per caso in quel punto fui colpito dal suono di un pianoforte che giungeva nitidamente da sotto, forse la porta era rimasta aperta.

Mi fermai, incantato dalla bellezza dell’esecuzione, e riconobbi il clair de lune per le stupende progressioni e il timbro che trascolorando suscitò in me una sottile emozione.

Che fosse un disco? ma l’incertezza durò poco, poiché il brano venne ripreso da capo e notai qualche differenza, sfumature che non sfuggono a un orecchio allenato.

Finito il pezzo ne iniziò un altro, dissonante in modo geniale, e anche questo riuscii a ricordare, era la prima sonata di Boulez: dunque la contessina era una eccellente pianista.

Poi sentii lo stridore di una pesante porta che veniva richiusa e rapidamente salii in camera mia.

 

XI

In agosto il caldo si fece sentire anche nei locali interni e indossai pantaloni di lino e una camiciola leggera.

Da circa un mese non pioveva, perfino il giardino era divenuto arido al punto che la terra si era screpolata e diverse piante si stavano avvizzendo: il giardiniere era in ferie, perciò provvidi io a dare acqua.

A quel lavoro non ero più abituato, quindi dopo pranzo riposai un’oretta e al risveglio volli rivedere la foto scattata tempo prima, ma il cellulare non si accese e mi resi conto di aver dimenticato a casa il caricabatteria.

Deluso per questa mia imprevidenza mi dedicai a rileggere le note sull’agenda senza riuscirci: durante la stesura avevo confuso tra loro le tre serie della scrittura cifrata. Con ripetuti tentativi ne ricostruii una parte, ma alla fine rinunciai e decisi di non scrivere più niente.

Nel controllare i vari ambienti vidi che alcuni mobili erano coperti di polvere: dissi alla cameriera che se non era in grado di tenere in ordine avrei assunto una domestica.

Inviai la richiesta alla contessina: mezz’ora dopo sul video del computer arrivò la conferma, questa volta firmata con la sigla v. minuscola

Sul tardo pomeriggio feci un giro nel parco: mi trovavo presso il vaso di origine romana quando udii uno sparo e pochi istanti dopo mi cadde ai piedi un passero, lo raccolsi, era morto, le piume intrise di sangue.

Scavai tra la sabbia una buca accanto al vaso e vi deposi il corpicino inerte.

                                                                                                                                                                                                                      

XII

 La domestica fu inviata da un’agenzia la cui e-mail era già nel computer. Era una ragazza robusta, il viso pieno di lentiggini, le mani poco curate e le gambe grosse, ma nel complesso mi risultò simpatica.

Mi parlò della sua famiglia di modeste condizioni, per quel motivo lei doveva cercarsi un’occupazione: le feci firmare il contratto con la raccomandazione di non scendere mai nel sotterraneo e di non fare domande.

Ero contento di averla assunta, però mi prese una strana malinconia nel rievocare gli amici scomparsi e in particolare mia moglie, sepolta sotto una lapide che aveva un ritaglio di terra ove crescevano rose lillipuziane.

Quella notte sognai la sua tomba, era di pietra scura e portava una iscrizione in latino di cui ricordai solo de profundis.

 

(continua)

 

 


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